Gian Piero de Bellis
Poliarchia : un Paradigma
(2002 - 2013)
Dalle occupazioni deleterie alle attività meritevoli
Presentazione |
Fatica (schiavitù) |
Prestazioni d'opera (servitù) |
Commercio |
Lavoro |
Mansioni |
Professioni |
Carriere |
Impieghi |
La fine delle occupazioni |
La diffusione delle attività |
Verso una nuova realtà |
Presentazione (^)
Una delle caratteristiche di base dell’essere umano è il desiderio di essere coinvolto nel fare qualcosa. Rimanere immobili e inattivi per un lungo periodo di tempo esige o una notevole forza di volontà, come nel caso della meditazione, o un forte condizionamento sociale, come potrebbe attuarsi in qualche (rara) tribù in cui i membri non sono molto attivi se si esclude l’andare occasionalmente a caccia o l’allevare animali.
Questo aspetto del fare qualcosa trova la sua motivazione anche nella spinta verso il soddisfacimento di bisogni basilari dell’essere umano quali:
- il bisogno di sostentamento (fisico)
- il bisogno di espressione (psicologico)
- il bisogno di collaborazione (sociale)
Per questi motivi l’indolenza (il far nulla) non è mai stata considerata
una virtù.
Infatti, nel corso della storia, l’essere umano è stato variamente
caratterizzato, in senso positivo, come Homo Faber (Appio Claudio),
l’artefice del suo destino e un "Animale Produttore di Strumenti" (Toolmaking
Animal,
Benjamin Frankin).
Pur essendo ogni essere umano generalmente una persona attiva, è anche vero che non tutte le attività che servono per soddisfare bisogni umani sono state considerate degne di essere effettuate. In alcuni casi, taluni individui hanno cercato di sottrarsi a certi compiti che sono stati assegnati ad altre persone che essi sono riusciti a dominare.
Per esempio, a partire dai tempi antichi e in situazioni di generale arretratezza, gli sforzi necessari per provvedere ai mezzi di sussistenza e di esistenza (cibo, indumenti, attrezzi) sono stati imposti a determinate categorie di esseri umani considerati inferiori (schiavi, servi, iloti).
In questi casi, il fare non è una scelta libera e spontanea ma un dovere penoso imposto. Per questo motivo esso è stato qualificato con il termine Ponos (Fatica) da cui viene il termine pena.
Fatica (schiavitù) (^)
Nell’antichità l’atteggiamento nei confronti di qualsiasi tipo di attività effettuata con le mani (anche il lavoro artistico dello scultore) era ambivalente.
Ciò è abbastanza evidente nella storia della Grecia antica. All’inizio e durante un lungo periodo (a partire dal nono secolo avanti Cristo) quando i Greci vivevano in piccole comunità, il lavoro manuale era considerato il modo appropriato per conquistarsi i mezzi di sostentamento quotidiano e l’indolenza era condannata o addirittura sanzionata (come ad Atene sotto Solone nel sesto secolo avanti Cristo).
Nella mitologia greca, Prometeo è l’archetipo dell’individuo intraprendente, dotato di preveggenza e di energia, colui che ha offerto agli esseri umani il dono del fuoco e ha reso possibile tutte le attività e lo sviluppo che ne sono derivati. Eschilo (525-456 avanti Cristo) nel suo Prometeo incatenato, lo definisce il “maestro di tutte le arti (techne) e scienze.”
Gli eroi greci, come appaiono nei poemi di Omero, sono esaltati, oltre che per il loro coraggio, anche per la loro padronanza nel produrre beni. Ulisse, ad esempio, è mostrato mentre racconta come ha fabbricato con le sue mani il talamo nuziale ricavato da un olivo ancora attaccato con le sue radici al suolo. Persino gli Dei, nell’antica Grecia, sono presentati come esseri che non disdegnano il lavoro manuale: “Apollo costruisce le mura di Troia, mentre Efesto forgia la spada e lo scudo di Achille, Demetra semina il grano e Dioniso coltiva la vite; Atena, Circe e Calipso sono tessitrici.” (Pierre Jaccard, Histoire sociale du travail, 1963)
Il più famoso documento dell’antichità che fa l’elogio del lavoro è il poema Le opere e i giorni scritto da Esiodo nel settimo secolo avanti Cristo. In questo poema l’autore afferma in maniera molto chiara che
"Sia gli dei che gli uomini sono furiosi contro colui che vive nell’ozio ... Attraverso il lavoro le persone si moltiplicano e si rafforzano, e lavorando trovano il favore degli dei immortali. Il lavoro non è una disgrazia mentre lo è l’indolenza. Ma se tu lavori, l’indolente presto sentirà invidia nei tuoi confronti mano a mano che tu diventi ricco e famoso, perché fama e successo sono legati alla ricchezza. E qualunque sia la tua sorte, il lavoro è meglio per te, se volgi la tua mente fuorviata lontana dalle proprietà altrui e la fissi sul tuo lavoro e ti concentri sul procurarti i mezzi per vivere come io ti esorto."
E tuttavia, questo atteggiamento cambiò radicalmente nel corso del tempo, mano a mano che Sparta diventava potente e Atene ricca. Conquistando territori e soggiogando popoli, gli Spartani e gli Ateniesi ridussero i vinti in stato di schiavitù e li costrinsero a eseguire, come schiavi, ogni tipo di lavoro manuale. A quel punto, il lavoro manuale cominciò ad essere visto come qualcosa di umiliante per un essere umano libero.
A partire dal secolo settimo avanti Cristo, le sole occupazioni onorevoli furono, per i liberi Spartani la pratica delle armi, e per i liberi Ateniesi il filosofare e il dibattere questioni di politica.
Per Platone il lavoro manuale (ponos = pena, fatica) è l’occupazione disprezzabile
ma necessaria della massa delle persone ma non è qualcosa di
appropriato per la schiera ristretta dei liberi esseri umani.
Nella Repubblica, mentre esalta la nobile funzione del filosofare, egli si
sofferma a parlare delle persone i cui “corpi sono mutilati dalle arti pratiche
e dai mestieri manuali” e le “loro anime sono appesantite e guastate dal fatto
di essere immerse in occupazioni volgari.” (Libro sesto, 495).
E Aristotele, nella Politica, afferma in maniera molto chiara che “coloro che sono in una posizione che li colloca al di sopra della fatica hanno servi che si occupano delle faccende domestiche mentre essi sono impegnati a filosofare e a fare politica.” (Libro I, Capitolo 7)
Chiaramente questi atteggiamenti potevano essere mantenuti e queste affermazioni potevano essere fatte perché la maggioranza dei cittadini ateniesi liberi possedeva almeno uno schiavo. La stima del numero totale degli schiavi nella Grecia antica varia notevolmente. Ad esempio si parla di un minimo di 20mila schiavi ad Atene fino a un massimo di 400mila schiavi probabilmente con riferimento all’intera Attica (si veda Moses Finley, The Ancient Economy, 1973). Ma al di là di queste cifre, quello che rimane costante e certo è il fatto che in Grecia (e successivamente a Roma) il lavoro manuale era lasciato a persone di condizione inferiore.
A Roma il numero degli schiavi continuò a crescere dopo ogni conquista territoriale. Alcune stime rilevano l’esistenza di un numero di schiavi, nella penisola italica, in differenti periodi di tempo, tra il 20 e il 40% dell’intera popolazione. (si veda: Richard Duncan-Jones, The Economy of the Roman Empire, 1974)
Gli effetti di questa abbondanza di lavoro a buon mercato (in molti casi lo schiavo era utilizzato al massimo con un minimo di costi di mantenimento) furono che:
- la tecnologia in generale, e gli strumenti tecnologici applicati alla produzione in particolare, non sono stati né studiati a fondo né introdotti anche quando qualcuno si fece avanti con una nuova scoperta. Nella storia romana è rimasto famoso l’episodio dell’imperatore Vespasiano (69-79 avanti Cristo) che, messo al corrente di una invenzione per trasportare le colonne sulla collina del Campidoglio senza l’utilizzo di molti lavoratori, preferì non utilizzarla in modo che la popolazione di Roma fosse occupata in qualche modo. O degno di nota è il fatto che il mulino ad acqua inventato nell’antichità (un esemplare era in funzione nel palazzo di Mitridate intorno all’anno 18 avanti Cristo), non si diffuse fino al periodo medioevale. Il motivo più probabile è che si poteva sempre trovare degli schiavi per girare la macina.
- la produttività era molto bassa perché gli schiavi sono preoccupati a risparmiare le loro forze per rimanere in vita e, di solito, non sono interessati a compiere uno sforzo produttivo di cui essi non godranno i frutti tranne che in minima parte.
Alla civiltà greca e a quella romana dobbiamo qualche progresso nell’arte del ragionamento (filosofia) e nella regolazione delle relazioni sociali (diritto) ma non molto nell’ambito della tecnologia, a parte gli aspetti concernenti la guerra e la logistica (ad esempio, strade e ponti per trasferire un esercito).
Questo modo di vita parassitico, cioè il fatto che una elite facesse affidamento a masse di schiavi per effettuare i lavori manuali, non poteva durare. La schiavitù era, come detto più sopra, causa di arretratezza tecnologica e fonte di una bassa produttività; nel lungo periodo condannava una società alla decadenza intellettuale e materiale, oltre che alla degenerazione morale.
Lo sconquasso che seguì il crollo dell’impero romano preparò la strada per il passaggio a relazioni meno costrittive (anche se sempre obbligatorie) sotto forma di prestazioni d'opera.
Prestazioni d'opera (servitù) (^)
Con il declino di Roma e la fine delle conquiste militari dei romani, il numero degli schiavi iniziò a diminuire progressivamente. Ad ogni modo ciò non ha prodotto l’emergere di lavoratori liberi. Il bisogno di sicurezza era quanto mai forte e questo ha sempre significato l’ascesa di alcuni individui ed organizzazioni ad una posizione di potere nei confronti delle masse. Il patto si basava, come d’abitudine, sulla promessa di protezione in cambio di prestazioni lavorative.
I latifondi del periodo romano, abbandonati o malamente coltivati dagli schiavi, furono, nel corso del tempo, suddivisi dai vecchi e nuovi proprietari e assegnati a individui (coloni) per essere coltivati. I padroni allora si riservavano una quota della produzione e richiedevano anche che i coloni impiegassero parte del loro tempo per la prestazione di taluni servizi lavorativi.
Questo nuovo rapporto di lavoro può essere caratterizzato come il passaggio dalla schiavitù alla servitù, e cioè dalla fatica alle prestazioni d’opera. I motivi sottostanti questo cambiamento erano essenzialmente:
- economici: la riduzione continua nella disponibilità di schiavi, il loro costo conseguentemente elevato e il basso livello di produttività generalmente associato ad essi;
- etici: la diffusione della cristianità che rese sempre meno accettabile l’esistenza della schiavitù in quanto non giustificabile per una religione che attribuiva uguale dignità ad ogni essere umano.
Ad ogni modo, ci volle un lungo periodo di tempo prima che la schiavitù scomparisse completamente, almeno nell’Europa occidentale. Di certo, dopo il crollo di Roma, non era la condizione più diffusa di assoggettamento dei lavoratori manuali.
La servitù che sostituì la schiavitù era ancora una condizione che assoggettava taluni individui ad una serie di limitazioni e obblighi rispetto agli uomini liberi. Al tempo stesso, come sottolineato da Marc Bloch,
“questo servo, così disprezzato e confinato in uno stato di così ristretta dipendenza, non presentava alcun tratto simile ad uno schiavo” né da un punto di vista giuridico, né sulla base delle sue condizioni sociali ed economiche. (Marc Bloch, Comment et pourquoi finit l’esclavage antique, 1947, Issue 2)
“Egli non viveva tutto il tempo agli ordini di un altro uomo; aveva un tetto e un focolare suoi propri; controllava la coltivazione dei suoi campi; qualora fosse particolarmente adatto a soddisfare i suoi bisogni e particolarmente dotato, era meglio nutrito del suo vicino – o, nel caso esistesse un mercato, vi vendeva là i suoi prodotti.” (Marc Bloch, Comment et pourquoi finit l’esclavage antique, 1947, Issue 1)
In altre parole, siamo qui all’inizio di un lungo percorso tendente ad attribuire una certa sfera di libertà e una prima traccia di dignità al lavoro manuale e ai lavoratori manuali, dopo secoli di atteggiamenti negativi se non di totale rifiuto.
Un contributo significativo al sorgere di questo nuovo atteggiamento dovrebbe essere attribuito agli ordini monastici che non solo predicavano il valore del lavoro manuale alternato con la meditazione, la preghiera e lo studio (si veda l’esortazione Ora et Labora associata al nome di San Benedetto, circa 480-547) ma praticavano anche quello che predicavano, impegnandosi in vasti lavori di bonifica delle terre, coltivazione degli orti e costruzione di chiese ed edifici a servizio della comunità e per la gloria di Dio.
Chiaramente tutto ciò era quasi uno sbocco naturale per una religione il cui messaggio veniva dal figlio di un falegname e che era lui stesso falegname, i cui discepoli erano pescatori e le cui parabole facevano riferimento a persone impegnate in attività pratiche. Per di più, il massimo diffusore di questa nuova fede era San Paolo che aveva affermato, in termini molto espliciti, che coloro che non lavorano non hanno il diritto di mangiare ("chi non vuole lavorare non mangi." - Lettera ai Tessalonicesi, II, 3) e aveva lanciato un monito contro coloro che vivono nell’ozio, facendo affidamento sul lavoro degli altri.
Questo allentamento relativo dei controlli sui lavoratori e questo inizio di una rinnovata dignità assegnata al lavoro manuale hanno rappresentato le basi morali e materiali per una emancipazione dei servi, nel momento in cui alcuni di loro decisero di abbandonare la terra e le prestazioni d’opera al servizio dei loro padroni per iniziare una nuova vita, impegnandosi in nuovi commerci.
Commercio (^)
Durante il periodo chiamato Alto Medioevo (dal quinto al decimo secolo) la coltivazione dei campi e l’allevamento degli animali per produrre cibo per sé e per i propri padroni erano le attività principali dei lavoratori. Gli strumenti di lavoro erano rudimentali, con uno scarso impiego di attrezzi di ferro, come se le persone fossero regredite a uno stato più primitivo della tecnologia.
Comunque la situazione cambiò all’inizio del primo millennio, specialmente dopo l’introduzione (dal secolo nono) del collare di spalla che permetteva una migliore utilizzazione degli animali da traino e quindi una più rapida e profonda aratura dei campi.
La diffusione di questa innovazione e la reintroduzione di precedenti invenzioni come il mulino ad acqua (il Domesday Book registra più di 5.000 mulini ad acqua esistenti in Inghilterra e nel Galles nel 1086) rese finalmente possibile, ad alcuni lavoratori agricoli, abbandonare i campi e iniziare nuove attività senza che ciò si ripercuotesse negativamente sulla produzione di cibo che continuava ad aumentare.
Una più ampia divisione del lavoro fu quindi resa possibile dal progresso tecnologico. I lavoratori rurali più intraprendenti e alcune categorie di persone che erano ai margini della società (gli Ebrei, gli stranieri) si volsero verso la produzione artigianale e verso il commercio e alcuni di loro prosperarono al di là di ogni aspettativa.
Questi fatti introdussero profondi cambiamenti nella struttura sociale e nel modo in cui alcune occupazioni erano percepite e valutate. La Chiesa Cattolica che, all’inizio, aveva sviluppato un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro manuale, una volta divenuta una organizzazione potente e ricca, ammassando vaste proprietà terriere a seguito di lavori di bonifica e di donazioni, iniziò a cambiare vedute. E questo era specialmente il caso dell’alto clero.
La struttura sociale, anche attraverso la rappresentazione fornita dalle autorità ecclesiastiche, era vista come composta da tre categorie di persone:
- coloro che pregano e meditano (il clero)
- coloro che combattono e difendono (i cavalieri)
- coloro che coltivano e producono (i lavoratori)
Questa divisione era presentata come una maniera naturale di organizzare la società, ma non era accettata da tutti. Segni di rifiuto erano evidenti nelle numerose rivolte che opponevano i servi rurali ai loro padroni (laici o ecclesiastici). Esse erano manifestazioni di una rabbia che animava i servi che non volevano accettare, come fatto definitivo, la loro condizione di inferiorità. John Ball, il prete capo della rivolta dei contadini in Inghilterra nel 1381, condensò il desiderio di una fine dell’asservimento e dello sfruttamento nel famoso interrogativo: "When Adam delved and Evan span, who was then a gentleman?" [“Quando Adamo zappava ed Eva filava, chi era allora il padrone?”].
Il progresso tecnologico unito all’aspirazione verso una emancipazione personale introdusse delle crepe in una struttura sociale che era sopravvissuta per un lungo periodo. La ristrutturazione della gerarchia porterà ai seguenti risultati:
- L’emergere di nuove categorie di persone, gli artigiani, i commercianti, gli imprenditori, che avrebbero giocato un ruolo molto importante nei tempi a venire.
- La riaffermazione della dignità del lavoro che sarà considerato, in alcuni casi, come una missione (una chiamata) accetta agli occhi di Dio e quindi premiata da lui con il successo personale e la buona sorte.
Ritroviamo qui il solito modello che caratterizza quasi ogni processo di aspirazioni che porta ad una emancipazione sociale ed economica. Coloro i cui sforzi sono coronati da successo e che ottengono, in seguito, ricchezza e potere, sono poi inclini a ricercare una sorta di giustificazione di tipo religioso o sociale che confermi che il loro successo è nella natura delle cose e che ciò che essi hanno conseguito dovrebbe essere considerato pienamente legittimo e accettabile da tutti.
A quel punto, coloro che si sono emancipati, dimenticano la loro precedente condizione di sottomissione ai vecchi padroni e diventano essi stessi i nuovi padroni, cercando di bloccare qualsiasi ulteriore processo di emancipazione da parte di altri che potrebbero compromettere la loro condizione di ricchezza e di potere.
Questo è accaduto con i commercianti e gli artigiani che si sono organizzati in associazioni e corporazioni. In questo modo essi sono riusciti non solo a introdurre provvedimenti accettabili per la protezione della categoria (mutua assistenza) ma, anche, a imporre regole che restringevano l’accesso al mestiere di nuovi venuti, e facendo pagare prezzi monopolistici ai consumatori attraverso accordi che limitavano le quantità prodotte.
Nonostante ciò, le dinamiche storiche sono quasi impossibili da controllare o sopprimere nel lungo periodo. L’introduzione di pratiche produttive migliori in agricoltura (ad es. la rotazione dei campi) e nella produzione di oggetti (ad es. la divisione tecnica del lavoro) ha fatto sì che si andasse oltre le corporazioni artigiane e i commerci del tardo Medio Evo per arrivare alle officine e alle fabbriche della fase industriale.
A quel punto, un numero crescente di persone si sono mosse verso i distretti industriali che sorgevano nei villaggi che diventavano città e nelle città che diventavano metropoli. Questi individui andavano a formare le masse lavoratrici, e quello che era richiesto loro era che lavorassero con le loro mani, di solito come addetti ad una macchina, per parecchie ore del giorno.
Lavoro (^)
A partire dalla Rivoluzione Industriale il vocabolo “lavoro” è diventato il termine corrente per riferirsi a persone occupate a svolgere funzioni manuali in una fabbrica.
Il concetto e la realtà del lavoro ha dominato una buona parte degli ultimi secoli (diciannovesimo e ventesimo) per due motivi essenziali:
- l’elevato numero di persone occupate nella produzione di beni industriali (la classe o la massa lavoratrice);
- il ruolo importante o addirittura rivoluzionario che è stato assegnato a coloro che erano occupati nel lavoro industriale.
Le due concezioni progressiste che sono emerse e si sono sviluppate nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo, il liberalismo e il socialismo, hanno entrambe attribuito un peso sostanziale al lavoro e un ruolo importante ai lavoratori in quanto produttori.
Per i pensatori liberali classici, come John Locke, il lavoro, in quanto sforzo personale, è all’origine della proprietà personale. Una risorsa naturale, trasformata e resa produttiva dal lavoro diventa la proprietà della persona che ha investito le sue energie nell’operare tale trasformazione. Il lavoro era anche, per gli economisti classici come Adam Smith, la sorgente del valore economico.
Locke ha apprezzato talmente il lavoro manuale che ha scritto, con riferimento alla educazione di un gentiluomo:
“Vorrei che imparasse un mestiere, un mestiere manuale; anzi, due o tre, ma uno in particolare.” (§ 201).
E ha suggerito “il giardinaggio o l’allevamento in generale, e lavorare con il legno, come falegname, carpentiere o tornitore; queste sono occupazioni ricreative adatte e salutari per una persona dedita agli studi e agli affari. Perché la mente non sopporta di essere impegnata costantemente nella stessa cosa o alla stessa maniera; e le persone sedentarie o studiose dovrebbero compiere esercizi che, al tempo stesso, possano distrarre le loro menti e impegnare i loro corpi; non conosco nulla che potrebbe adattarsi meglio a un gentiluomo di campagna che queste due attività, l’una permettendogli di esercitare il corpo quando il cattivo tempo o le stagioni lo tengono lontano dall’altra.” (§ 204) (Some Thoughts Concerning Education, 1693)
Anche Adam Smith, pur attribuendo alla divisione tecnica del lavoro (come nella fabbrica di spilli) la straordinaria crescita della produttività, era favorevole al superamento della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per lui questa separazione non era nella natura delle cose in quanto non vi era molta differenza, all’inizio, tra individui che svolgevano lavori manuali o lavori intellettuali:
“La differenza dei talenti naturali nei diversi uomini è in realtà assai minore di quanto noi crediamo; e l'ingegno assai diverso che sembra distinguere gli uomini di diverse professioni, quando sono pervenuti a maturità, è, in molti casi, non tanto la causa quanto l'effetto della divisione del lavoro. La differenza fra i caratteri più diversi, per esempio tra un filosofo e un facchino comune, sembra derivare non tanto dalla natura quanto dall'abitudine, dal costume e dall'educazione. Quando vennero al mondo, e per i primi sei o otto anni della loro esistenza, essi furono assai simili, e né i loro genitori, né i loro compagni di giochi avrebbero potuto scorgervi una notevole differenza. Intorno a quella età, o poco dopo, essi furono instradati in occupazioni assai diverse. La differenza dei talenti si comincia allora a percepire, e si allarga progressivamente, finché alla fine la vanità del filosofo pretende di non riconoscere alcuna somiglianza.” (La Ricchezza delle Nazioni, 1776, Libro I, Capitolo II)
Nel Libro V della Ricchezza delle Nazioni Adam Smith ha espresso una dura condanna anche delle conseguenze arrecate dalla divisione tecnica del lavoro spinta all’estremo:
“Col progredire della divisione del lavoro, l'occupazione della maggioranza di coloro che vivono del lavoro, ossia la massa della popolazione, si restringe progressivamente a poche operazioni molto semplici, e spesso ad una sola o a due operazioni. Ma, l'intelligenza della maggioranza degli uomini si forma necessariamente con l'ordinaria loro occupazione. L'uomo che passa la vita nel compiere poche semplici operazioni, i cui effetti, inoltre, sono forse sempre gli stessi o quasi gli stessi, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza o la sua inventiva nel trovare espedienti che possano superare difficoltà che egli non incontra mai. Egli quindi perde naturalmente l'abitudine di esercitare le sue facoltà ed in generale diventa stupido ed ignorante, come è possibile che una creatura umana lo diventi. Il torpore del suo spirito non soltanto lo rende incapace di gustare o di prendere parte ad una conversazione razionale, ma anche di concepire alcun sentimento generoso, nobile e tenero e quindi di formarsi un giudizio corretto persino su molti dei doveri ordinari della vita privata.” (La Ricchezza delle Nazioni, 1776, Libro V, Capitolo I)
Sarà compito di Karl Marx condurre l’analisi più oltre indicando la relazione tra lavoro e progresso tecnologico e i suoi esiti ambivalenti:
“Certamente il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi ma per l'operaio spelonche. Produce bellezza ma per l'operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l'altra parte in macchine. Produce cose dello spirito, ma per l'operaio idiozia e cretinismo.” (Karl Marx, Manoscritti Economico-Filosofici del 1844)
E questa è la conseguenza del fatto che
“Il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma ma si nega, non si sente soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. Si sente a casa propria se non lavora; e se lavora non si sente a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro è sfuggito come la peste.” (Karl Marx, Manoscritti Economico-Filosofici del 1844)
Considerando che, per liberali e socialisti della tradizione classica, il lavoro è la fonte e l’essenza della produzione, della proprietà e della dignità della vita di una persona, il problema per essi era di trasformare il lavoro in modo tale che tutti gli aspetti negativi (l’alienazione mentale, lo sfruttamento materiale) scomparissero ed emergesse il lato positivo, vale a dire che diventasse il modo di soddisfare bisogni umani attraverso l’esercizio di attività soddisfacenti.
A questo fine una serie di misure essenziali sono state sostenute come:
La riduzione delle ore di lavoro (meno tempo assorbito dal lavoro).
La riduzione delle ore di lavoro ha caratterizzato il progresso tecnologico e sociale nel secolo diciannovesimo ed è stata il risultato di una combinazione tra lotte dei lavoratori e preveggenza di taluni imprenditori. Gli uomini d’industria più sensibili e perspicaci realizzarono, fin dall’inizio, che le lunghe ore passate sul luogo di lavoro non si traducevano necessariamente in una maggiore quantità prodotta. Iniziando con Robert Owen, divenne chiaro che una giornata lavorativa più corta era la strada per ottenere un migliore rendimento lavorativo.L’introduzione di strumenti tecnologici (meno sforzo compiuto sul lavoro)
L’introduzione di strumenti tecnologici è stato l’aspetto caratterizzante dell’industrializzazione. Nella prima fase dell’industria ci sono stati episodi in cui le macchine furono fatte a pezzi perché erano viste come una minaccia all’ottenimento di un salario attraverso il lavoro in fabbrica. Ad ogni modo, divenne presto apparente che l’industrializzazione poteva espandere il lavoro nell’industria anche in presenza della meccanizzazione. Infatti, la fine del diciannovesimo e i primi decenni del ventesimo secolo, che sono stati giustamente definiti come l’Età della Meccanizzazione (Siegfried Giedion, Mechanization Takes Command, 1948) hanno visto una crescita consistente del numero di lavoratori nell’industria.
Oltre a queste misure che sono state progressivamente introdotte nel passato, due altre richieste sono state messe all’ordine del giorno, specialmente da parte di socialisti ed anarchici della scuola classica:
La partecipazione di tutti al lavoro produttivo
La condivisione tra tutti del lavoro produttivo era considerato il modo migliore per abolire i privilegi e spingere per la riduzione, quanto più possibile, della giornata lavorativa. Questa era la condizione per l’espansione del tempo libero e per lo sviluppo della personalità del lavoratore in tutti i suoi aspetti (manuale-mentale).La effettuazione da parte di tutti di lavori sgradevoli
La condivisione tra tutti, almeno per un certo periodo della vita, di lavori spiacevoli (di solito, lavori manuali) era anche visto come un altro requisito per il superamento di posizioni di privilegio da una parte e di occupazioni ingrate, assegnate in permanenza alle stesse persone, dall’altra. Per dirla con altre parole, questo significava porre fine alla divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
Queste due esigenze non sono
state soddisfatte, come sarà illustrato in seguito.
Anche quando il numero
di occupati è cresciuto, quello delle persone realmente produttive è diminuito.
Infatti, con l’assistenza di congegni tecnologici sempre più sofisticati
ed efficienti, un numero di lavoratori sempre più ridotto è riuscito a
produrre sempre più beni, nell’industria come nell’agricoltura.
Per quanto
riguarda il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale,
l’età della meccanizzazione ha prodotto il risultato esattamente opposto
di separarli ulteriormente e di frammentare ancor più il lavoro manuale.
Questo ha significato che il lavoro si è trasformato in mansioni e compiti
che dovevano essere eseguiti sulla base di regole e metodi decisi dagli
esperti.
Tutto ciò avrà effetti notevoli sul tipo di lavoro e di società che emergerà nella prima metà del secolo ventesimo.
Mansioni (^)
La diffusione delle imprese industriali nel mondo occidentale nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo è stata caratterizzata da:
- la crescita delle dimensioni di molte industrie
- l’introduzione di molti congegni tecnologici
- la frammentazione di molti compiti lavorativi
Il nuovo modo di organizzazione della produzione industriale, qualificato come “organizzazione scientifica” del lavoro, è stato il risultato di
- Motivi tecnici: le maggiori dimensioni industriali (più macchine, più lavoratori) richiedevano una maggiore coordinazione tra i differenti aspetti e fasi della produzione e questo fu raggiunto attraverso la loro standardizzazione, specializzazione e sincronizzazione.
- Motivi economici: la diffusione dell’industrializzazione in molte regioni del mondo, oltre l’Inghilterra (la prima officina del mondo), ha significato una maggiore e più ampia concorrenza economica e la necessità di produrre più beni (mercato allargato) a costi minori (mercato competitivo). Questo obiettivo fu raggiunto attraverso una migliore utilizzazione delle macchine e degli uomini.
- Motivi sociali: i lavoratori che per la prima volta facevano il loro ingresso nelle fabbriche, alcuni di loro immigranti senza alcuna qualificazione di base, dovevano essere operativi nel più breve tempo possibile. Come sottolineato da Henry Ford: “La grande massa dei nostri addetti viene da noi senza alcuna abilitazione; essi imparano la loro bisogna in poche ore o in pochi giorni.” (Henry Ford, My Life and Work, 1922)
Questa nuova realtà di macchine industriali e lavoratori non qualificati conveniva molto bene alla direzione dell’impresa che mirava ad esercitare il controllo pieno dell’organizzazione generale della produzione e voleva una massa di lavoratori docile ed obbediente.
Il lavoro si è dunque trasformato in mansioni, e le mansioni sono state suddivise in compiti eseguiti sulla base di movimenti prescritti e all’interno di tempi prefissati. Negli Stati Uniti, Frederick Winslow Taylor studiava come una mansione dovesse essere portata a termine e istruiva su come dovesse essere eseguita. Infatti, i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro prescrivevano “non solo quello che si dovrà fare, ma anche come dovrà essere fatto, e il tempo esatto assegnato per l'esecuzione” (Frederick Winslow Taylor, The Principles of Scientific Management, 1911)
In altre parole, Taylor cercava di scoprire quella che era ritenuta essere “l’unica maniera migliore” (The One best Way) per compiere un compito nel più breve tempo possibile. Parimenti, i coniugi Gilbreth esaminavano i movimenti fatti da un lavoratore e consigliavano sui cambiamenti da introdurre per diminuire lo sforzo e aumentare il rendimento.
Nel 1913, Henry Ford introdusse la catena di montaggio per la produzione del modello T di autovettura. Egli prese l’idea dai mattatoi di Chicago in cui la carcassa dell’animale era mossa da un nastro trasportatore e i lavoratori lo sezionavano in sequenza, ognuno operando su una parte differente. Con questa importante innovazione nell’organizzazione del lavoro industriale un punto fu raggiunto in cui il modo nel quale i compiti erano eseguiti (sequenza e tempi) erano dettati dall’apparato totale della macchina. Le conseguenze derivanti da questa trasformazione sono state:
- una crescita fenomenale della produzione che ha nesso a disposizione delle persone una quantità incredibile di beni a prezzi accessibili;
- un forte innalzamento dei salari come risultato dell’alta produttività conseguita;
- una diffusa e aperta insoddisfazione da parte dei lavoratori per le loro mansioni mano a mano che essi diventavano semplici appendici dell’apparato meccanico di produzione.
In linea generale, un salario migliore, che ha messo gli individui nella condizione di acquistare una quantità maggiore di beni diversi a prezzi più bassi, non può compensare pienamente una quasi totale mutilazione della capacità mentale e della dignità umana dei lavoratori.
Questo sarebbe possibile solo se si avverasse quanto desiderato dal Taylor e cioè che il lavoratore manuale, addetto di continuo a una mansione monotona, fosse “così stupido e flemmatico da assomigliare ad un individuo che ha, in misura maggiore o minore, le caratteristiche mentali di un bue.” (Frederick Winslow Taylor, The Principles of Scientific Management, 1911)
Taylor era infatti convinto che “il costo di produzione è ridotto separando il più possibile il lavoro intellettuale e di programmazione da quello manuale.” (Frederick Winslow Taylor, The Principles of Scientific Management, 1911)
Tuttavia, svilendo i lavoratori e il contenuto del lavoro, si è poi raggiunto un punto in cui la produttività ha iniziato a declinare. Alla fine, il rifiuto del lavoro che è apparso sempre più di frequente sotto forma di rallentamento della prestazione, assenteismo, scioperi o persino sabotaggi, ha spinto i dirigenti industriali a ricercare nuove soluzioni riguardo alla organizzazione del lavoro.
Il primo tentativo di soluzione è consistito nel promuovere un miglioramento generale delle condizioni materiali di lavoro, sulla base della convinzione che “nulla è più sicuro del fatto che condizioni disagevoli faranno diminuire la produzione ovunque il lavoratore ha un'influenza per quanto minima sulla produzione. “(Charles S. Myers ed., Industrial Psychology, 1929)
Per questo motivo, alcuni esperti nell’organizzazione del lavoro, pur avendo sempre come obiettivo un incremento della produttività, suggerirono rimedi quali:
- una riduzione della giornata lavorativa perché “ogni riduzione della giornata lavorativa porta ad una minore quantità di infortuni, di lavoro di scarto, di malattie, e di assenze” e, in molti casi, “ad un incremento della produzione oraria e della produzione giornaliera.” (Charles S. Myers ed., Industrial Psychology, 1929)
- il miglioramento dell’ambiente lavorativo (illuminazione, temperatura, ventilazione, ecc.)
- una scelta di metodi lavorativi adatta ad ogni individuo invece di imporre a tutti una presunta “maniera unica migliore” di eseguire una mansione. “È di gran lunga preferibile addestrare i lavoratori con larghi principi generali e scoprire il metodo di lavoro più adatto ad ogni singolo lavoratore in conformità con la sua struttura fisica e mentale.” (Charles S. Myers ed., Industrial Psychology, 1929)
- una migliore selezione del personale in modo da assegnare una specifica mansione agli individui più adatti ad eseguirla, sulla base delle loro capacità e della loro personalità.
Un passaggio ulteriore di distacco dalla “Organizzazione Scientifica” del lavoro si verificò quando Elton Mayo fu incaricato, nel 1924, di condurre una ricerca presso la Western Electric Company di Hawthorne nell’Illinois. I ricercatori, che inizialmente intendevano focalizzare l’attenzione essenzialmente sul rapporto tra le condizioni materiali di lavoro (salario, ambiente lavorativo, ecc.) e la produttività, scoprirono l’esistenza di altri fattori, importanti e decisivi (elencati sotto la qualifica di “fattori umani”) che erano responsabili dell’elevato livello di produttività espresso da un gruppo.
Infatti, Elton Mayo e i suoi associati scoprirono che, nonostante tutti i cambiamenti, in senso positivo o in senso negativo, nelle condizioni materiali di lavoro (ad esempio, migliore-peggiore temperatura, migliore-peggiore illuminazione) il livello di produttività di un gruppo di sei lavoratrici che prendevano parte alla ricerca non solo non risultava influenzato ma cresceva in ogni caso. Questo fenomeno fu attribuito, da Elton Mayo, al fatto che le lavoratrici erano diventate una unità sociale cooperativa e che il rispetto e la fiducia si erano sviluppati tra il gruppo e la direzione. Nelle parole di Elton Mayo: “La direzione, consultando le operaie, spiegando chiaramente la natura e gli scopi degli esperimenti che ci si proponeva di fare, accettando le decisioni delle operaie in certi casi speciali, ottenne involontariamente un successo in due importantissime questioni umane: le operaie divennero un gruppo che si autogovernava, e un gruppo che cooperava sinceramente con la direzione.” (Elton Mayo, The Social Problems of an Industrial Civilization, 1945)
In altre parole, gli industriali scoprirono che il modo migliore per conseguire gli scopi dell’organizzazione produttiva, e cioè un livello quantitativamente e qualitativamente elevato di produzione, regolare e senza intoppi, consisteva nel trattare i lavoratori nella maniera migliore possibile in termini di condizioni materiali e di fattori psicologici. Questa constatazione di base caratterizzerà tutti i programmi di miglioramento della condizione operaia introdotti nelle imprese nella prima metà del secolo ventesimo.
Ad ogni modo, anche tenendo in considerazione queste trasformazioni, non possiamo né ignorare né sottacere il fatto che siamo ancora in una situazione di divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, con gli esecutori ai quali viene detto cosa fare e i dirigenti che dicono cosa deve essere fatto. E questa divisione accentuata, che è aliena alla natura di un essere umano pienamente sviluppato, può operare in maniera abbastanza scorrevole solo se siamo in presenza di differenze notevoli tra individui per quanto riguarda la padronanza di capacità e di conoscenze.
Nella seconda metà del secolo ventesimo, con il soddisfacimento pressoché generale dei bisogni materiali di base, emersero esigenze più elevate relative all'acquisizione di conoscenze e allo sviluppo personale. Un buon salario e un soddisfacente ambiente di lavoro non erano più fattori sufficienti per persone che volevano non solo mansioni interessanti e creative ma anche assumere il controllo di quello che stavano facendo.
Questa era anche la conseguenza, quasi inevitabile, del raggiungimento di un livello più elevato di istruzione. “Nel 1940, [negli Stati Uniti] la proporzione di lavoratori con una istruzione di scuola superiore o college era del 39.1%. Nel 1950 era cresciuta fino al 50.3% ed era arrivata nel 1959 al 62.0%.” “Mano a mano che le persone acquisiscono una maggiore istruzione, le loro aspettative crescono per quanto riguarda ciò che essi riceveranno in termini di responsabilità, autorità e reddito.” (Rensis Likert, New Patterns of Management, 1961)
Sulla base di questa nuova realtà, un nuovo approccio alla organizzazione del lavoro è emerso, sotto la qualifica di ”risorse umane”. Gli aspetti principali trattati dagli studiosi e dai praticanti di questo nuovo approccio sono stati:
- il miglioramento delle mansioni
- l'ampliamento della partecipazione
Il miglioramento delle mansioni
Il punto di partenza dei sostenitori delle “risorse umane” è che “il dispendio
di sforzi fisici e mentali durante il lavoro è qualcosa di naturale come
lo svago o il riposo. L’essere umano non è intrinsecamente avverso al lavoro.
A seconda delle condizioni peraltro controllabili, il lavoro può essere
causa di soddisfazione (e sarà effettuato di buon grado) o fonte di condanna
(e sarà, nei limiti del possibile, evitato).” (Douglas McGregor, The
Human Side of Enterprise, 1960)
Attraverso l’analisi del processo lavorativo, i ricercatori scoprirono che mansioni caratterizzate da elevata parcellizzazione, alta ripetitività e che richiedevano uno scarso utilizzo della capacità e della concentrazione mentale avevano bisogno di essere ristrutturati perché “il numero degli operai che lasciavano le mansioni contenenti le caratteristiche proprie della produzione di massa nel loro grado più elevato, era doppio rispetto a quanti lasciavano le mansioni in cui tali caratteristiche non erano così pronunciate.” (Charles R. Walker and Robert H. Guest, The Man on the Assembly Line, 1952)
Questo malessere, che portava all’abbandono del lavoro, generava un basso rendimento e un danno al flusso produttivo. Il suggerimento avanzato per sconfiggere ciò consisteva, oltre che nell’introduzione di periodi di riposo che avrebbero alleggerito l’impatto del ritmo stressante imposto dalla catena di montaggio, nella trasformazione della relazione tra i lavoratori e il loro lavoro. Questo poteva essere conseguito attraverso:
- la rotazione delle mansioni, “che significa chiaramente l'arricchimento delle mansioni per l'individuo” (Charles R. Walker and Robert H. Guest, The Man on the Assembly Line, 1952) che gli permettesse di capire e di controllare i vari aspetti del processo produttivo;
- l'allargamento delle mansioni, che “è semplicemente la ricombinazione in una di due o più mansioni separate.” (Charles R. Walker and Robert H. Guest, The Man on the Assembly Line, 1952)
Queste due modifiche segnarono il fatto che la frammentazione del lavoro aveva raggiunto il suo punto terminale. Con un capovolgimento totale rispetto alla fase della Rivoluzione Industriale quando l'estrema suddivisione del lavoro manuale aveva portato ad un incremento enorme della produttività (come nel famoso esempio della fabbrica di spilli), adesso “alcuni dirigenti di fabbrica hanno scoperto che alla parcellizzazione delle mansioni corrisponde una legge di profitti decrescenti, mentre una ricomposizione di certe parti in precedenza suddivise ha determinato un aumento di efficienza.” (Charles R. Walker and Robert H. Guest, The Man on the Assembly Line, 1952)
L'ampliamento della partecipazione
Un'altra
ipotesi teoretica (basata su dati empirici) fatta propria dai ricercatori
delle “risorse umane”, è che “l'essere umano, in genere, impara, in condizioni
opportune, non solo ad accettare, ma anche a cercare l'assunzione di responsabilità.”
(Douglas McGregor, The Human Side of Enterprise, 1960)
Questo significa che le persone “eserciteranno l'autodecisione e l'autocontrollo nel perseguimento degli obiettivi dell'organizzazione nei limiti in cui sono motivati rispetto a tali obiettivi” (Douglas McGregor, The Human Side of Enterprise, 1960)
Ed esercitare l'autodecisione e l'autocontrollo significa non solo essere informati riguardo alla strategia (fini e mezzi) dell'impresa, ma anche avere voce nel decidere fini e mezzi specifici per attuare quella strategia.
Mentre questi cambiamenti erano introdotti nell'organizzazione del lavoro nelle imprese, la tendenza generale nell'ambito socio-economico della prima metà del secolo ventesimo consisteva nel passaggio continuo di lavoratori manuali dall'agricoltura all'industria. Nel 1870 negli Stati Uniti il 50% dei lavoratori erano attivi nel settore agricolo. Essi costituivano solo il 9.3% dei lavoratori nel 1957 e il 3.6% nel 1980.
Successivamente, dopo i primi decenni del secolo ventesimo, il settore dei servizi ha iniziato una crescita continua che lo ha portato a diventare il settore più importante dell'economia dal punto di vista dell'occupazione.
In sintesi, potremmo affermare che, mentre la maggior parte dei figli dei lavoratori manuali divennero lavoratori industriali, i figli di quelli che erano gli aristocratici del passato e la borghesia e piccola borghesia del presente trovarono, in misura crescente, la loro occupazione nelle professioni e nelle carriere nel settore dei servizi.
Professioni (^)
In passato, la maggior parte degli individui nati in famiglie aristocratiche o benestanti non avevano alcuna necessità di cercare lavoro. Essi avevano già a loro disposizione tutti i mezzi di mantenimento e potevano quindi disporre del loro tempo nella maniera da essi voluta, anche la più improduttiva o distruttiva possibile.
Ad ogni modo, una vita concentrata esclusivamente sui piaceri e sui divertimenti, in assenza di un centro di interesse che non sia il proprio io, è, per molti individui, qualcosa che diviene alla lunga pesante da sostenere. Per cui, oltre ad amministrare le loro proprietà o ad occuparsi di pubblici affari, molti cosiddetti gentiluomini si dedicarono allo svolgimento di professioni.
Queste professioni e le persone che le praticarono possono essere classificate sotto tre categorie, assegnando ai loro praticanti la qualifica generale di dottori:
I dottori dell'anima: gli ecclesiastici. Il clero è uno dei corpi professionali più antichi. Durante il Medio Evo e fino ai tempi Moderni entrare a far parte del clero per i figli cadetti o essere ammessi in un monastero per le figlie degli aristocratici era una strada valida per abbracciare una professione e una missione di alto prestigio.
I dottori della società: gli avvocati. Avvocati sono esistiti nella società romana ed hanno continuato ad esistere da allora come una delle professioni più consolidate, in tutti i tempi e in tutti i luoghi in cui le persone hanno considerato, o sono state indotte a considerare, necessario il ricorso ad un aiuto esterno per risolvere o ricevere un consiglio riguardo ad una controversia.
I dottori del corpo: i medici. La professione del medico è anch'essa molto vecchia (antico Egitto). Ma nell'Europa Medioevale la tradizione era che “i gentiluomini non lavoravano con le mani, e quindi era precluso loro non solo operare chirurgicamente, la qual cosa era eseguita dai barbieri, ma anche visitare il corpo del paziente.” (Talcott Parson, Professions, in International Encyclopedia of the Social Sciences, 1972). Questa ritrosia venne meno in Inghilterra verso la metà del secolo diciottesimo.
Queste sono state in passato, e per un lungo periodo di tempo, le sole professioni riconosciute per le quali un corso di apprendimento superiore era stato sviluppato nelle prime università (Bologna, Oxford, Parigi), nelle facoltà di teologia, legge e medicina.
Con lo sviluppo economico generato, a partire dal 1750, da quella che è stata successivamente chiamata la Rivoluzione Industriale, è accaduto che:
- una nuova divisione sociale del lavoro fu resa possibile grazie a una crescita straordinaria della produttività che ha liberato molti individui da occupazioni convenzionali e reso possibile l’apparizione e lo svolgimento di nuovi ruoli sociali;
- lo svolgimento di questi nuovi ruoli sociali o professioni divenne sempre più accettabile ai gentiluomini dei tempi più recenti, che trovarono in ciò una fonte di prestigio sociale, successo economico se non anche soddisfazione personale.
Con riferimento a questi nuovi ruoli sociali possiamo utilizzare ancora le categorie usate in precedenza, sebbene con talune modifiche e integrazioni riguardo ai praticanti e alle loro pratiche. Abbiamo quindi questi nuovi gruppi professionali:
I dottori dell'anima. In un mondo secolarizzato in cui l'importanza della Chiesa e del clero è ridotta, i sacerdoti sono stati rimpiazzati da psicologi e psicoanalisti che si prendono cura degli aspetti interni e immateriali dell'individuo, la psiche. Ad essi potremmo aggiungere una serie di altre figure professionali che sono occupate nel plasmare le menti delle persone con ogni sorta di pacchetto informativo (dalla conoscenza all'intrattenimento). Lavorando come giornalisti, insegnanti, editori, registi, sceneggiatori, ecc., essi sono coloro che formano l'opinione delle masse, le mode, le manie, le ideologie e via discorrendo.
I dottori della società. L'emergere di una società di massa dominata dall'istituzione dello stato ha generato una espansione continua della categoria dei dottori della società. Infatti, la convinzione che la società è, come il corpo umano, un organismo che può essere regolato e curato da professionisti, ha giustificato la nascita di specifici praticanti che, sotto il mantello dello stato, sono supposti governare presunte entità note come: l'economia, il mercato, la nazione, ecc. e promuovere obiettivi noti come: la crescita, il benessere, la sicurezza, ecc. Tutto nel nome di una società che è implicitamente equiparata allo stato. Abbiamo quindi gli economisti, i pianificatori, gli amministratori, gli impiegati della previdenza, gli assistenti sociali, ecc.
I dottori del corpo. Migliori condizioni di vita, che sono il risultato di alloggi migliori e di una migliore alimentazione, hanno fatto sì che le persone vivessero più a lungo ed avessero a disposizione maggiori risorse per la cura e il benessere del corpo. Questo ha prodotto una industria della salute con una incredibile schiera di professionisti del benessere, ognuno dei quali si concentra su una specifica parte del corpo. Oltre al medico generalista, nuove figure professionali sono emerse che plasmano, abbelliscono, rinvigoriscono, tonificano le varie parti del corpo: il viso, il petto, i muscoli, le mani, i piedi, le natiche, ecc. Abbiamo quindi estetiste, massaggiatori, preparatori atletici, chirurghi plastici, ecc.
Le persone che appartengono a queste nuove categorie professionali, una volta raggiunta una certa importanza e un certo numero di praticanti, si organizzano come gruppo. Quindi essi hanno richiesto, ai nuovi venuti nel campo della professione, la frequentazione di un corso specializzato di istruzione al termine del quale era previsto che la persona ricevesse un certificato, generalmente riconosciuto dallo stato, che gli permetteva di entrare a far parte di un corpo di professionisti regolato e protetto dallo stato. Questa certificazione e istituzionalizzazione della professione, pretesa dai suoi membri, era presentata come la via necessaria per proteggere la reputazione della categoria. E tuttavia, in passato era il pubblico cioè i consumatori che discriminavano tra avvocati preparati e quelli incapaci, tra medici buoni e quelli ignoranti, e via discorrendo, senza alcun bisogno di certificazioni e di istituzionalizzazione dall'alto. Per cui è abbastanza appropriato sospettare che questa regolamentazione-burocratizzazione delle professioni era essenzialmente il modo indispensabile per proteggere la categoria dal perdere il controllo sui consumatori, restringendo il numero di praticanti.
Ciò trovò conferma nel fatto che, al fine di garantire e promuovere ulteriormente le fortune di ogni categoria istituzionalizzata, lo stato proibì espressamente e punì legalmente gli individui non registrati dal praticare una professione. Dopo di che, solamente medici o avvocati certificati dallo stato, che appartenevano ad ordini registrati presso lo stato, potevano aprire uno studio professionale. Questo è l'equivalente, in tempi moderni, delle restrizioni imposte, durante il Medio Evo, dalle corporazioni riguardo all'accesso e alla pratica di un mestiere. E, in una versione più rigida, è quello che attua il sistema delle caste.
Non c'è quindi da stupirsi che, sulla base di tutto ciò (certificazione, registrazione, licenza), una mente anticonvenzionale come quella di George Bernard Shaw fu indotta ad affermare che: "All professions are conspiracies against the laity." [Tutte le professioni sono cospirazioni contro il pubblico] (The Doctor's Dilemma, 1906) E Jules Romains, attraverso il dottor Knock, mostrò come questa cospirazione, e cioè questo raggiro da professionisti, poteva essere condotto in maniera impareggiabile. (Jules Romains, Knock ou le triomphe de la médecine, 1923)
In tempi più recenti, una analisi abbastanza approfondita è stata condotta riguardo al modo in cui i professionisti agiscono e questa analisi ha prodotto la tesi delle “professioni disabilitanti” ("disabling professions") che forniscono una “assistenza disabilitante” ("disabling help"). Questo avviene con un processo attraverso il quale:
- i professionisti instillano nella mente delle persone la convinzione che esistono nuovi bisogni e nuovi problemi per i quali essi si presentano come i soli in grado di offrire la soluzione necessaria;
- il comune essere umano, dopo aver fatto ripetutamente ricorso a loro, diventa alla fine incapace di risolvere la maggior parte dei problemi reali e delega quasi tutto a presunti esperti professionali.
In linea generale, si può dire che le professioni, nel modo in cui sono emerse e sono state organizzate, sono state una maniera per garantire una occupazione di tipo intellettuale ai figli dell'aristocrazia e della ricca borghesia, nel passato, e della piccola borghesia nel presente. Ad ogni modo, questa non è stata la sola strada aperta per i componenti di tali ceti. C'era anche la possibilità di una carriera nell'esercito o nella burocrazia, e cioè, direttamente sotto le ampie e crescenti ali dello stato.
Carriere (^)
In passato, come sottolineato precedentemente, la missione professionale di tipo religioso dei figli cadetti e delle figlie dell'aristocrazia, ha significato anche una carriera nei ranghi della Chiesa come cardinali o madri badesse.
In epoca posteriore, l'ascesa dello stato secolare e del laicato, soprattutto dopo la Rivoluzione Francese, ha avuto come conseguenza la crescita delle opportunità per i figli di taluni strati della società (aristocrazia, borghesia e anche piccola borghesia) di iniziare una carriera al servizio dello stato e per la promozione del potere statale.
All'interno dello stato vi erano e vi sono tuttora tre principali campi adatti a costruire una carriera:
Politica. La politica è sempre stata un'area di intervento per l'aristocrazia e l'oligarchia. Questo è un fatto comprovato almeno sin dai tempi della polis nell'antica Grecia (da polis deriva il termine politica) e giù sino al periodo in cui la gentry e i grandi proprietari terrieri dibattevano all'interno del Parlamento inglese. E tuttavia, per molti esponenti di tali categorie sociali, l'impegno in politica, pur avendo come risultato anche leggi che li favorivano ampliando le dimensioni dei loro appezzamenti (ad es. con gli atti sulle recinzioni), era considerato essenzialmente come un servizio alla comunità, ricco in prestigio e in potere ma non in remunerazioni monetarie dirette.
È stato solo con lo stato democratico moderno che la politica è diventata una carriera aperta quasi a tutti e il rappresentare le masse un modo onorevole per ricevere un emolumento regolare (almeno fino a quando una persona rimaneva in carica) e per accumulare una certa ricchezza (come un rifugio sicuro per quando la persona non era più eletta). L'esempio classico di questo può essere rinvenuto in una delle più dinamiche e democratiche delle repubbliche, gli Stati Uniti d'America. Negli USA, il cosiddetto “spoils system” (il vincitore in politica si accaparra tutte le opportunità di piazzare i suoi uomini in posizioni lucrative e nel controllo di attività lucrative) divenne la pratica corrente a partire dalla prima metà del secolo diciannovesimo. La messa in atto più nota e di maggior successo di tale pratica ebbe luogo nel distretto politico di Tammany Hall a New York, dove, all'inizio del ventesimo secolo, il senatore Plunkitt celebrava le virtù dell'onesta appropriazione e la missione elevata del clientelismo politico come pilastri essenziali di ogni carriera in politica.
Al di là della politica, per coloro che volevano più disciplina e azione e meno battibecchi e chiacchiere su controversie politiche, vi era qualcosa d'altro, e cioè una carriera nell'esercito.
Esercito. L'esercito, o meglio, la pratica delle armi è sempre stata l'occupazione degli aristocratici, in quanto capi militari, e del loro seguito, in quanto soldati. Infatti, combattere agli ordini di un capo o di un generale è stato, da tempo immemorabile, un modo per guadagnare del denaro, e cioè per essere occupati a pagamento. Prova ne sia che il termine “soldi” in italiano deriva dalla parola “soldati” in quanto i soldi erano la paga del soldato.
Ad ogni modo, è stato solo con la Rivoluzione Francese e la levée en masse (1793), che l'esercito è diventato un settore importante dello stato in termini di occupazione e di possibilità di carriera. Il fatto che la pratica delle armi fosse una carriera fu messo in rilievo anche dall'apertura di scuole di guerra e di accademie militari per addestrare il personale necessario. E di personale ve ne era bisogno per dirigere e mettere in atto le varie operazioni militari che le grandi e piccole potenze avviarono, in numero crescente, soprattutto a partire dalla fine del secolo diciannovesimo, quando le avventure imperialistiche prepararono la strada alle due guerre mondiali.
L'imperialismo è stata una fonte continua di richiesta di personale militare, inviato in luoghi distanti della terra (India, Indocina, Sud Africa, Marocco, ecc.) dove il coraggio (e anche la crudeltà) e la disciplina (e l'obbedienza cieca) significavano un avanzamento nei ranghi. Irlandesi, Scozzesi, Gallesi parteciparono in gran numero, come personale militare, alla costruzione dell'Impero Britannico.
Ma c'era anche bisogno di personale di tipo amministrativo. Per cui, oltre alla politica e all'esercito, per coloro che non erano portati ad una vita dura e avventurosa e preferivano la calma e la regolarità, si offriva un'altra opportunità di carriera, in patria e all'estero, all'interno dell'apparato burocratico dello stato.
Burocrazia. Nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo quasi tutti gli stati allargarono di continuo la loro sfera di intervento; a tal fine essi avevano bisogno di una macchina amministrativa in espansione per controllare e regolare un numero crescente di aspetti della vita sociale. Le relazioni sociali e gli accordi personali finirono sotto la supervisione dello stato a tal punto che molti dimenticarono l'esistenza di qualsiasi distinzione tra stato e società e iniziarono a pensare che la società (cioè le relazioni sociali libere) non può esistere senza uno stato (cioè le relazioni amministrate imposte). Non c'è da stupirsi se, da questa convinzione trapiantata nel cervello delle persone, il personale burocratico e gli utilizzatori di “servizi” burocratici si siano moltiplicati in maniera quasi esponenziale.
La Francia è stata ed è tuttora un esempio paradigmatico di intromissione nella vita sociale dello stato e della sua burocrazia.
Karl Marx era consapevole di questo fenomeno già alla metà del secolo diciannovesimo quando descrisse lo stato francese come un “corpo parassitico mostruoso, che inviluppa la società francese e soffoca tutti i suoi pori” con “la sua enorme organizzazione burocratica e militare, con la sua vasta e ingegnosa macchina statale, con una schiera di funzionari e di impiegati intorno al mezzo milione di persone e un altro mezzo milione occupato nell'esercito.” (Karl Marx, Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852)
Verso la fine del secolo diciannovesimo, Gustave Le Bon sottolineò il fatto che "... l'ultimo dei borghesi non vede per i suoi figli altra carriera possibile che lavorare pagato dallo stato. Invece di preparare persone per la vita, la scuola non le forma ad altro che ad esercitare funzioni statali in cui la riuscita non esige alcun barlume d'iniziativa." (Psycologie des foules, 1895)
Da allora in poi lo stato francese è cresciuto continuamente in termini di personale e di controllo sociale. La burocrazia statale, con tutti i suoi dipartimenti e uffici e sezioni, è un corpo gigantesco che ha posto tutti i gruppi e le loro espressioni sociali sotto tutela.
Nel corso del ventesimo secolo, il fenomeno burocratico di impiego e carriere è stato presente non solo all'interno dello stato ma anche nell'ambito dell'impresa. La meccanizzazione e l'automazione del lavoro hanno portato ad una crescita della produzione con una concomitante decrescita dei lavori manuali. Il nuovo personale di carriera trovava adesso impiego nel processo di registrazione di nuovi beni in arrivo e nella vendita di prodotti finiti, attraverso una schiera di acquirenti all'ingrosso, contabili, segretarie, esperti di marketing e di pubblicità, venditori, ecc. In una società altamente produttiva, questa ascesa della scala sociale ed economica per mezzo di una carriera in occupazioni non-manuali era la risposta appropriata ad una serie di esigenze:
- impiegare in lavori non pesanti e abbastanza richiesti i figli e le figlie della piccola borghesia;
- ottenere l'adesione alle istituzioni (lo stato centrale e le amministrazioni periferiche) e alle organizzazioni (la grande impresa e le sue attività collaterali) che garantivano loro non solo un reddito ma anche la possibilità di un miglioramento del livello di vita;
- rafforzare il potere di coloro che erano al vertice della piramide che avevano ai loro ordini e sotto la loro influenza un vasto numero di persone.
In altre parole, il meccanismo della carriera è uno strumento potente per la crescita della fedeltà alla base e del clientelismo al vertice. Questo meccanismo è stato replicato dappertutto con l'obiettivo di assicurare che le masse fossero interessate alla preservazione di un sistema presentato come l'unico in grado di assicurare loro una esistenza decente.
Per le masse avere un reddito divenne sinonimo di lavorare sotto padrone per una paga che (in termini reali o puramente monetari) sarebbe cresciuta regolarmente. Infatti due erano gli obbiettivi predominanti della grande maggioranza delle persone nel secolo ventesimo: occupazione e crescita.
Impieghi (^)
Nel corso degli ultimi secoli, l'idea che tutti debbano lavorare, dall'essere un precetto morale è diventata anche una politica statale. Nell'Inghilterra moderna, la revisione della legge sul vagabondaggio e l'accattonaggio (Poor Law Amendment Act 1834) poneva al centro le case di lavoro (workhouses) in cui le persone ricevevano assistenza in cambio di lavoro.
La Rivoluzione Industriale ha generalizzato la condizione di lavoro dipendente esercitato in fabbrica. Coloro che non lavoravano erano visti come individui inclini a ogni vizio e azione depravata. Per cui, per la persona comune, avere un impiego, divenne, al tempo stesso, un dovere ma anche un diritto.
L'obiettivo di garantire un impiego divenne quindi:
- un imperativo economico: l'élite industriale affluente doveva impiegare le masse alla ricerca di lavoro perché questo era il suo ruolo economico ed anche perché, così facendo, essa evitava lo scoppiare di agitazioni sociali.
- un imperativo sociale: i sindacati presentavano la disoccupazione come uno sporco marchingegno messo in atto dai padroni delle fabbriche in modo da costituire un esercito industriale di riserva che mantenesse i salari bassi e i lavoratori obbedienti, per paura di essere licenziati e rimpiazzati. Per cui, il diritto al lavoro divenne il loro principale obiettivo.
- un imperativo politico: gli uomini politici videro nella generalizzazione dell'impiego il mezzo per rendere le masse contente e occupate per la ricchezza e grandezza della nazione. Altrimenti essi dovevano trovare un modo, attraverso misure politiche appropriate, di fornire occupazione al maggior numero possibile di persone.
Inizialmente, e per taluni individui, le macchine furono viste come il nemico da combattere perché esse sostituivano i lavoratori. Ma presto è apparso chiaro che le macchine aiutavano a produrre un maggior numero di beni rendendoli meno costosi; questo permetteva una crescita del numero dei consumatori che, a sua volta, richiedeva un maggior numero di produttori (persone impiegate) che facessero andare le macchine.
Inoltre, come ulteriore beneficio arrecato dall'introduzione delle macchine, era possibile ridurre progressivamente la durata della giornata lavorativa (da un massimo di 16 ore) aumentando, al tempo stesso, l'ammontare di beni prodotti. È stato solo dopo la vasta meccanizzazione avvenuta agli inizi del secolo ventesimo, con l'inizio dell'automazione industriale che ne è seguita, che la preoccupazione per una mancanza di impieghi è riapparsa in maniera diffusa e vigorosa.
Le soluzioni proposte a tal fine possono essere suddivise in due categorie principali:
a) una riduzione ulteriore nella durata della giornata lavorativa in rapporto all'incremento della produttività oraria;
b) un incremento ulteriore delle opportunità di lavoro (in qualsiasi modo ciò fosse possibile) e la concessione di assistenza sociale anche in mancanza di qualsiasi prestazione lavorativa.
a) Proposte concernenti la durata della giornata lavorativa
In passato molti filosofi e pensatori sociali hanno scritto riguardo alla possibilità di ridurre la giornata lavorativa ad alcune ore al giorno. Tra di essi abbiamo:
Paul Lafargue, per il quale “il lavoro non diventerà … un esercizio salutare per l'organismo umano, una passione utile per l'organismo sociale, se non quando esso sarà … limitato ad un massimo di 3 ore al giorno.” (Le droit à la paresse, 1880)
Edward Bellamy, che ha immaginato una società in cui “le ore dedicate al lavoro sono poche, le vacanze regolari” e “tutta l'emulazione [cioè la concorrenza sul lavoro] cessa all'età di quarantacinque anni, con il raggiungimento della mezza età.” (Looking Backward: 2000-1887, 1887)
Bertrand Russel, che ha affermato con chiarezza che “la strada verso la felicità e la prosperità risiede in una diminuzione programmata del tempo di lavoro.” Questo perché “la tecnica moderna ha reso possibile diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria per assicurare il soddisfacimento dei bisogni fondamentali di tutti gli individui. Per Russell, “se la persona salariata lavorasse quattro ore al giorno, ci sarebbe abbastanza per tutti, e nessuna disoccupazione – posto che ci sia un certo livello, neanche oltremodo elevato, di organizzazione razionale.” (In praise of idleness, 1932)
John Maynard Keynes che, nel 1930, suggerì di “ripartire il lavoro che era ancora necessario eseguire nella maniera più estesa possibile.” Questo avrebbe significato la possibilità di introdurre “turni lavorativi di tre ore o una settimana lavorativa di 15 ore.” (Economic Possibilities for our Grandchildren, 1930)
b) Provvedimenti per l'occupazione e la disoccupazione
A partire dalla Grande Depressione degli anni 1930, garantire l'occupazione ed essere occupato è diventato il ritornello ossessivo di ogni uomo politico, economista, e di tutto il coro dell'informazione di massa. Il pieno impiego è stato l'obiettivo mirabile di una intera società gestita dai governanti statali. E questo obiettivo doveva essere conseguito senza ridurre il numero delle ore lavorative e senza arrestare l'introduzione di congegni automatici nella produzione. Questo perché, una giornata lavorativa estremamente corta avrebbe potuto dare alle persone il tempo di pensare a come organizzare la loro vita senza la presenza dominante di padroni nazionali politici ed economici; e per quanto riguarda il progresso tecnologico, il suo arresto avrebbe potuto dare un vantaggio non desiderabile, nella concorrenza per la superiorità industriale, a produttori che operavano in altri territori.
Per cui, lo stesso John Maynard Keynes che solo alcuni anni prima aveva avanzato la proposta di una riduzione del tempo lavorativo, adesso, con un voltafaccia inaudito e dall'alto del prestigio intellettuale di cui godeva a quei tempi, se ne uscì con il consiglio, per i governanti statali, di generare lavoro del tutto inutile al fine di garantire gli impieghi. Nella sua visione economica, “scavare buche nel terreno … non solo incrementerà l'occupazione ma anche la produzione nazionale di beni e servizi.” (The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936, Capitolo XVI)
L'insieme delle misure studiate e introdotte dai gruppi dominanti della politica e dell'economia al fine di conseguire obiettivi contraddittori, e cioè promuovere l'occupazione mentre, al tempo stesso, si incrementava la produttività attraverso il progresso tecnologico, senza alcuna riduzione del tempo lavorativo, è qualcosa che ha quasi dell'incredibile; ed è il segno più evidente del livello di manipolazione dall'alto e di acquiescenza dal basso che ha caratterizzato buona parte del secolo ventesimo.
Infatti, una sorta di diffusa occupazione è stata conseguita attraverso le seguenti misure:
- impieghi in lavori inutili
Molte persone sono state pagate per eseguire compiti che non hanno alcun valore né sociale né economico, quali, solo per fare qualche esempio, aprire e chiudere porte, spingere il bottone di un ascensore, fare fotocopie in una biblioteca, mostrare l’entrata di una sala di conferenze, e via discorrendo (a meno che non si tratti di aiutare persone molto anziane o handicappate o di speciali eventi di massa). Assistenzialismo e prestigio da una parte e bisogni di reddito dall’altra possono spiegare ma non certo giustificare l’esistenza di questo genere di occupazioni, soprattutto al giorno d’oggi in cui le persone possono benissimo sbrigarsela da sole o affidarsi a meccanismi automatici.- occupazioni in impieghi che arrecano danno o distruzione
Il personale burocratico e militare rappresenta due esempi chiari di impieghi che non solo sono parassitari ma anche nocivi al punto che non dovrebbero neanche essere classificati come occupazione. Mettere in piedi un vasto complesso militare, aprire ambasciate e consolati dappertutto nel mondo, impiegare un esercito di burocrati scribacchini e passacarte (ad es. oltre 40.000 persone lavorano per l’Unione Europea oltre a 15.000 lobbisti basati a Brussels): tutto questo genera dati occupazionali attraenti ma è una totale assurdità economica.
In Francia, nell’anno 2008, la “fonction publique” (la burocrazia centrale e periferica) impiegava 5 milioni e duecentomila persone, il che voleva dire che ogni 5 salariati, uno lavorava per lo stato. Quanti di essi erano attivi a offrire un servizio richiesto dal pubblico a un prezzo che il pubblico era disposto a pagare, lo si potrebbe accertare solo se essi non fossero una categoria protetta, retribuita attraverso la tassazione obbligatoria.
Negli Stati Uniti, il personale statale e locale (a tempo pieno e a tempo parziale) era nell’anno 2011 di oltre 19,4 milioni di unità. Il personale federale nel 2012 si aggirava intorno ai 2,9 milioni di unità ai quali si deve aggiungere il personale militare che, nel settembre 2012 superava i due milioni di unità. In tutto, più di 24 milioni di persone (l’equivalente del 7.6% della popolazione) lavorava per una qualche entità statuale. Non tutti questi impieghi possono essere catalogati come occupazioni che apportano danno o distruzione ma nessuno può valutare effettivamente quali sono quelli davvero necessari a meno che questi impiegati, come tutti gli altri, non offrano servizi in concorrenza con altre agenzie e con altri fornitori.- assistenza che genera spreco e corruzione
La vasta espansione in numero e dimensioni di organismi internazionali e la moltiplicazione di organizzazioni non governative e di istituzioni assistenziali che operano nei paesi cosiddetti sottosviluppati, ha generato impieghi altamente richiesti. Il lavoro fatto e l’assistenza fornita sono, in genere, più dannosi che utili in quanto le risorse sono spesso impiegate solo per produrre la solita pletora di studi e di analisi a sostegno di provvedimenti burocratici; oppure, le risorse allocate vanno ad arricchire imprese occidentali e burocrazie locali. Tutto ciò ha un effetto di corruttela nei confronti delle persone rendendole dipendenti da un aiuto continuo e deprime i produttori potenziali che non sono motivati a fare alcuno sforzo per uscire da una condizione di arretratezza.- personale addetto alla sicurezza
L’intromissione violenta di alcuni stati canaglia nella vita delle persone e l’introduzione di leggi che proibiscono il consumo di certe sostanze, ha moltiplicato la necessità di impiegare del personale in occupazioni che hanno a che fare con la sicurezza (ad es. negli aeroporti, nelle città) e con la gestione di prigioni e centri di reclusione (ad es. per immigrati). Senza l’esistenza di stati autoritari e totalitari questi impieghi non sarebbero affatto richiesti.- obsolescenza programmata
Un modo per impiegare le persone è messo in atto anche progettando e producendo oggetti che hanno un ciclo di vita prefissato, non in ragione dell’usura ma a seguito di una fragilità o obsolescenza stabilita all’origine. Questa è stata chiamata “obsolescenza programmata” da Bernard London nel suo famoso articolo del 1932 in cui intendeva indicare, con tutta serietà, il modo per uscire dalla depressione. Bernard London voleva che “il governo assegnasse una durata di vita alle scarpe e alle case e alle macchine, a tutti i prodotti delle imprese manifatturiere, minerarie e agricole, nel momento in cui essi sono stati creati; questi prodotti sarebbero stati poi venduti e utilizzati nei limiti dei termini di esistenza chiaramente noti al consumatore. Dopo che il tempo prestabilito era finito, questi oggetti sarebbero “morti” in base alla legge e sarebbero stati posti sotto il controllo di una agenzia appositamente istituita dal governo in modo da essere distrutti in tutti i casi in cui vi era una estesa disoccupazione. Nuovi prodotti sarebbero stati costantemente riversati dalle fabbriche sul mercato per rimpiazzare i prodotti obsoleti, e gli ingranaggi dell’industria avrebbero funzionato al meglio e gli impieghi sarebbero stati regolarizzati e assicurati per le masse.” (Bernard London, 1932)- consumismo e sprechi
L’obsolescenza programmata è solo parte di un disegno più vasto che vuole che gli individui siano lavoratori occupati a tempo pieno e avidi consumatori a tempo pieno. Solo consumando costantemente, seguendo le manie e le mode dei tempi e le voglie e i capricci di desideri personali illimitati, una società di masse occupate a produrre può esistere in presenza di un apparato di macchinari che sforna beni ad un ritmo incredibile. Per dare una idea, già nel 1866 Joseph Dixon aveva messo in funzione una macchina che produceva 132 matite al minuto (7920 matite ogni ora). Ad ogni modo, il semplice consumismo non è sufficiente; deve essere associato e rafforzato dal puro e semplice spreco come avviene, al giorno d’oggi, nella media delle famiglie inglesi in cui, ogni anno, si butta nella spazzatura, cibo per un valore che oscilla tra le 250 e le 400 sterline. Secondo un rapporto prodotto dall’Institution of the Mechanical Engineers (Gennaio 2013), “a causa di cattive pratiche nel raccolto, nella conservazione e nel trasporto, a cui si deve aggiungere lo spreco risultante nel corso della vendita e da parte dei consumatori, si stima che tra il 30 e il 50% (vale a dire 1,2 - 2 miliardi di tonnellate) di tutti gli alimenti prodotti non arriva mai allo stomaco degli esseri umani." (Global Food, 2013)
La società dei consumi e la società dello spreco sono le due facce della stessa realtà che ha le sue basi nella necessità e nella desiderabilità, per l’élite dominante, di avere persone impiegate a tempo pieno.- rallentamento sul lavoro
Gli impieghi a tempo pieno generano anche situazioni in cui alcuni occupati si comportano (e devono necessariamente comportarsi) nella maniera così acutamente descritta nella famosa legge di Parkinson, e cioè: “Il lavoro si espande in modo da riempire il tempo disponibile per la sua esecuzione.” (C. Northcote Parkinson, Parkinson’s Law, 1957). Questo è vero specialmente nel settore statale che ha visto la maggiore crescita negli impieghi; il personale, in generale, utilizza tutta la giornata lavorativa per eseguire qualcosa che potrebbe essere fatto in metà tempo. Molti impiegati hanno ancora lunghe giornate lavorative come se la rivoluzione tecnologica negli uffici (burotica) non fosse mai avvenuta; e adesso si richiede anche una vita lavorativa più lunga per motivi che non hanno nulla a che fare con il lavoro produttivo ma tutto a che vedere con la crisi pensionistica (l’impossibilità di pagare per il collocamento a riposo degli impiegati).- intermediazione parassitaria
Invece dell’azione diretta e del fare da sé, abbiamo una catena di intermediari che si frappongono all’ottenimento di un certo servizio o di un certo bene; questo è vero soprattutto nel settore burocratico e in quello dei servizi professionali dove gli interessi corporativi congiurano per imporre i loro servizi con l’aiuto della legge. Una persona deve sottostare a loro per conseguire un certo risultato che si potrebbe ottenere senza di loro o andando direttamente al punto terminale della catena.- inattività retribuita
Quando tutto è stato posto in essere, se esistono ancora sacche, più o meno grandi, di disoccupazione, la soluzione che è stata trovata è stata quella di pagare le persone perché rimanessero calme e tranquille e non facessero nulla. Lo stato assistenziale è nato al fine di consentire alle persone non occupabili di dormire fino a tarda mattina o di stare seduti in un bar a sorseggiare birra. Come recita la saggezza popolare inglese: “la maggior parte del prezzo di una birra è rappresentato da tasse; la maggior parte delle tasse è speso per l’assistenzialismo; la maggior parte dei soldi ottenuti tramite l’assistenzialismo è speso in birra.” Inoltre, se questa inattività retribuita produce anche energie che trovano sfogo in risse e vetri rotti, la polizia interverrà e i vetrai avranno buone opportunità di lavoro, per cui gli impieghi nella polizia e nelle fabbriche del vetro saranno stimolati.- distruzione totale
La soluzione finale è la distruzione totale, sia quella organizzata direttamente dagli esseri umani sia quella, imprevista ma benvenuta (almeno da alcuni economisti e giornalisti,) quando si tratta di catastrofi naturali. Il teorico che ha proposto questa soluzione è, ancora una volta, l’economista più famoso del secolo ventesimo: John Maynard Keynes. Nella sua opera maggiore egli ha scritto: La costruzione di piramidi, i terremoti, persino le guerre possono servire per accrescere la ricchezza ...” (The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936, Capitolo X). Trent’anni più tardi, l’anonimo estensore (in realtà, Leonard C. Lewin) del Report from Iron Mountain on the possibility and desirability of peace (1967) reiterò lo stesso schema concettuale (infarcendolo con abbondanti dosi di sarcasmo) quando scrisse: “Se le moderne società industriali possono essere definite come quelle che hanno sviluppato la capacità di produrre in eccesso di quello che è richiesto per la sopravvivenza economica (al di là della equità nella distribuzione dei beni al suo interno), si può affermare che le spese militari forniscono l’unico modo, dotato di inerzia sufficiente per stabilizzare l’avanzamento delle economie stesse. Il fatto che la guerra sia una attività totalmente basata sullo spreco permette di assolvere a questa funzione. E più le economie avanzano nella loro capacità produttiva, maggiore deve essere il peso che assolve a questa funzione di spreco.” (Report from Iron Mountain on the possibility and desirability of peace, 1967)
Queste pratiche dannose e deprecabili sono state operative per parecchi decenni. Adesso, le tecnologie della produzione e dell’informazione associate alla riflessione e alla realizzazione, da parte di un numero crescente di individui, della criminalità, idiozia e insensatezza di tali pratiche, andrà a porre fine al mondo mistificante degli impieghi e dell’assistenzialismo, la cui unica giustificazione era il fatto che, in questo modo, si forniva un reddito monetario alle persone.
Per andare oltre queste assurdità, presentate come soluzioni a problemi impellenti, abbiamo bisogno di capire quello che sta avvenendo nel campo della tecnologia e quali trasformazioni sociali sotterranee sono avvenute e stanno avvenendo, anche contro il volere degli strati dirigenti, e dove potrebbero portarci questi cambiamenti.
La fine delle occupazioni (^)
Il secolo ventesimo è stato un secolo disastroso per quanto riguarda l’organizzazione sociale e politica. È stato il secolo in cui hanno avuto luogo genocidi, guerre mondiali, campi di concentramento, esodi forzati, persecuzioni politiche e molti altri fenomeni abominevoli. Al tempo stesso, nell’ambito della scienza e della tecnica, un flusso di scoperte radicali e di continui miglioramenti ha esteso le capacità di produrre beni materiali a livelli incredibili.
La meccanizzazione della produzione che era iniziata nel diciannovesimo secolo, ha continuato pienamente il suo corso a partire dall’inizio del ventesimo secolo in poi. Essa ha riguardato ogni aspetto e campo della vita.
In agricoltura, la macchina mietitrice Mc Cormick, inventata nel 1931, fu perfezionata e introdotta progressivamente a partire dal 1846. Nel 1884, l’anno in cui McCormick morì, vi erano in operazione 80.000 macchine mietitrici. Nel 1903, negli Stati Uniti, Charles W. Hart e Charles H. Parry costruirono 15 “trattori”, un termine inventato da loro, derivato dalla parola trazione. Nel 1918 vi erano negli Stati Uniti 80.000 trattori; il numero raddoppiò l’anno seguente e, nel 1939 si arrivò alla cifra di 1 milione e seicentomila trattori utilizzati nel lavoro agricolo (Siegfried Giedion, Mechanization takes command, 1948). Quando macchine che combinavano differenti processi (ad es. mietere, trebbiare, pulire e insaccare il frumento) furono introdotte su larga scala, nella prima parte del secolo ventesimo, un numero ridotto di uomini e donne poteva eseguire lavori che precedentemente richiedevano una quantità notevole di lavoratori agricoli.
Nel Regno Unito l’occupazione agricola passò dal 12% della forza
lavoro nel 1911 al 5% nel 1951 (e scese al 2.6% nel 1980).
Negli Stati Uniti, come già indicato in precedenza, la percentuale
di lavoratori agricoli passò dal 50% della forza lavoro nel 1870
al 12% nel 1950 (e scese al 3.6% nel 1980) (Herman Van Der
Wee, Prosperity and Upheaval, 1986). Questo fenomeno è stato comune
a tutte le economie industriali del mondo.
La maggior parte dei lavoratori non più necessari in agricoltura, hanno trovato occupazione nel settore industriale. Anche qui la meccanizzazione di operazioni semplici che potevano essere eseguite con maggiore precisione e più rapidamente da una macchina, procedette speditamente. Infatti, la frammentazione del lavoro, che era una delle ragioni principali dell’incremento straordinario della produttività durante le prime fasi della Rivoluzione Industriale, ha permesso di comprendere quali fossero le componenti di base di un processo produttivo complesso e un vasto numero di anonimi inventori sono stati capaci di riunificare questi compiti in un macchinario.
Come sottolineato da Siegfried Giedion, “l’invenzione era il processo normale delle cose. Tutti inventavano, chiunque possedesse una piccola impresa cercava modi e mezzi per produrre i beni in maniera più veloce, più efficace, e spesso con un risultato estetico migliore.” (Siegfried Giedion, Mechanization takes command, 1948)
La meccanizzazione ha aumentato la produttività (produzione per addetto) e permesso un innalzamento dei salari dei lavoratori. La Società Automobilistica Ford portò i salari a 5 dollari al giorno, in un tempo in cui il salario medio era di 2 dollari e 34 centesimi al giorno, quindi a più del doppio. Questo era possibile perché la meccanizzazione e la catena di montaggio avevano fatto crescere la produzione in maniera incredibile e aveva reso possibile una riduzione formidabile del prezzo del modello automobilistico T (da 850 dollari nel 1908 a 290 dollari nel 1925). Più alti salari e più basso prezzo di vendita rappresentarono la combinazione vincente per produttori e consumatori, di modo che, nel 1927, le vendite totali delle automobili Ford avevano raggiunto la cifra di 15 milioni.
Questa dinamica fu replicata in una impresa industriale dietro l’altra, col risultato che sempre meno addetti erano necessari per produrre sempre più beni. Chiaramente, in una situazione in cui i bisogni connessi ad una vita più confortevole per larghe masse sono ancora insoddisfatti, la meccanizzazione non riduce il numero degli occupati in quanto nuovo personale è necessario per far funzionare un numero crescente di nuovi macchinari.
E tuttavia, il momento arriva in cui si raggiunge una vetta: i bisogni di base e di comfort sono praticamente soddisfatti, le macchine diventano non solo più a buon mercato ma anche più automatiche e possono quindi essere introdotte in numero maggiore e fatte funzionare da un personale ridotto.
Infatti, il processo di ricomposizione dei compiti lavorativi in una macchina continua fino al punto in cui un meccanismo automatico, e cioè un meccanismo che è la combinazione di differenti strumenti, è inventato e introdotto. A quel punto, il meccanismo automatico sostituisce completamente l’essere umano nel suo sforzo manuale ed effettua, per conto suo, una operazione completa o un ciclo di operazioni. È quindi possibile affidare ad un numero ridotto di lavoratori la supervisione e il controllo di quello che la macchina automatica fa, incaricandoli di intervenire solo quando si presenta un problema.
Come riportato da Jeremy Rifkin, “tra il 1957 e il 1964 la produzione manifatturiera è raddoppiata negli Stati Uniti mentre il numero di colletti blu è diminuito del 3%.” (The End of Work, 1995)
In tempi più recenti, l’automazione è apparsa sotto forma di robot. “Il numero totale a livello mondiale di robot operanti nell’industria alla fine del 2011 si collocava tra 1,153,000 e 1,400,000 unità." (World Robotics, executive summary 2012)
L’introduzione di macchine automatiche e di robot nell’ambito della produzione industriale non significa necessariamente che il livello generale dell’occupazione risulti drasticamente ridotto ma solo che il numero dei lavoratori industriali diminuisce e più personale è assegnato ad altri tipi di lavori non connessi direttamente con la produzione, ma di tipo amministrativo, commerciale, pubblicitario.
E questo è quello che è avvenuto, almeno nella prima fase dell’automazione. In una dinamica similare a quella del passaggio di lavoratori dall’agricoltura all’industria, nella seconda metà del secolo ventesimo abbiamo assistito al trasferimento di lavoratori dall’industria al settore dei servizi. Questo processo è stato delineato da alcuni autori quali Jean Fourastié, Victor Fuchs e Daniel Bell.
In The coming of the post-industrial society (1973) Daniel Bell presenta, con dovizia di cifre, questa evoluzione “dai beni ai servizi” come recita il titolo di uno dei suoi capitoli. Già verso la metà degli anni 1950 negli Stati Uniti il numero delle persone impiegate nel settore dei servizi ha superato quelle che lavoravano nel settore industriale. Al giorno d’oggi, nelle economie avanzate del mondo l’impiego nel settore dei servizi supera quello nei due settori, industria e agricoltura, combinati. La cifra è tra il 60-80% di persone impiegate nel settore dei servizi. Secondo il USA Bureau of Economic Analysis, nel 2009 “gli impieghi nei servizi risultavano essere di oltre l’80% degli impieghi nel settore privato, con una cifra di 89,7 milioni di occupati.”
Questa realtà e questa tendenza potrebbero essere viste come sviluppi positivi (e cioè, raccogliere i benefici della scienza e della tecnologia) se non fosse per il fatto che “la quota più importante di crescita dell’impiego nei servizi [negli Stati Uniti] a partire dal 1947 è stata nell’ambito del governo.” (Daniel Bell). Una parte molto estesa, come sottolineato in precedenza, consiste di impieghi nella burocrazia e nell’esercito. È degno di nota il fatto che i più grandi fornitori di impiego al mondo (2012) sono il Dipartimento Americano della Difesa (3,2 milioni di occupati) e l’Esercito Popolare di Liberazione della Repubblica Cinese (2,3 milioni di occupati).
Se consideriamo il fatto che l’automazione negli uffici e, in generale, nel settore dei servizi che fa da supporto alla produzione e distribuzione di beni, ridurrà probabilmente in futuro l’assorbimento di nuovo personale, è possibile che impieghi di tipo burocratico nell’ambito dello stato, assegnati sulla base di clientele e per motivi politici, diventino la strada più probabile aperta a coloro che cercano un impiego.
Tuttavia, questi tipi di impieghi non rappresentano attività produttive in termini di beni e servizi richiesti espressamente dalla popolazione. Essi sono in realtà una sorta di parassitismo sociale imposto da padroni politici. Nella realtà dei fatti, queste occupazioni stanno diventando e apparendo sempre più come:
- economicamente insostenibili: la corsa alle occupazioni in cui si riceve un reddito pur non facendo nulla di produttivo ha posto un peso enorme, e nel lungo termine insostenibile, sulla collettività perché ciò significa finanziare, attraverso debiti che saranno pagati dai risparmi e dagli sforzi delle generazioni future, il consumismo della generazione presente.
- socialmente inaccettabili: l’idea che lo spreco di risorse da parte dello stato sia la condizione necessaria per garantire l’occupazione a vaste masse di lavoratori parassitari è socialmente inaccettabile per coloro che assolvono una funzione utile nelle varie sfere della vita sociale ed economica, producendo beni e servizi effettivamente richiesti dal pubblico, in coopetizione (cooperazione competitiva) con altri produttori di beni e servizi.
- tecnologicamente inconcepibili: è del tutto irrazionale impiegare delle persone per svolgere compiti che potrebbero essere ampiamente automatizzati. Il settore dei servizi dovrebbe essere largamente ristrutturato in modo da renderlo estremamente flessibile e più snello in termini di occupazione. Questo processo dovrebbe essere simile a quando commutatori automatici furono introdotti nella telefonia abolendo del tutto una schiera di operatori telefonici (verso la fine degli anni 1940 vi erano ancora più di 350.000 operatori che lavoravano per la compagnia telefonica AT&T negli Stati Uniti).
È quindi tempo di immaginare e modellare una organizzazione sociale che non sia basata sul lavoro (risultante in occupazioni deleterie) e sulla crescita (risultante in consumi abnormi) perché lo scenario generale dell’esistenza umana e della produzione è cambiato talmente, soprattutto nel corso degli ultimi duecento anni, che comportarsi come se fossimo ancora condannati ad una vita di lavoro, come animali affamati, faticando alla ricerca di cibo e di protezione, è del tutto ridicolo e pazzesco.
La diffusione delle attività (^)
Nel corso del diciannovesimo secolo, il tempo allocato per il lavoro nell’industria è andato progressivamente diminuendo sotto l’impulso delle lotte sociali e del progresso tecnologico.
Da una punta massima di quindici-sedici ore al giorno all’inizio del diciannovesimo secolo, si è passati (nel Regno Unito) per i ragazzi compresi tra i 9 e i 14 anni, ad otto ore di lavoro effettivo in quasi tutte le fabbriche tessili, con due ore di scuola; e a dodici ore di lavoro per i giovani sotto i 18 anni (Factory Act 1833). In Francia i lavoratori conseguirono l’obiettivo delle dodici ore di lavoro giornaliero dopo la rivoluzione del febbraio 1848.
Nel Regno Unito, le agitazioni dei Cartisti, delle Trade Unions e di coloro che facevano parte del Movimento per le Dieci Ore, portarono all’introduzione della giornata lavorativa di dieci ore a partire dal 1 Maggio del 1848 (Factory Act 1847). Tuttavia, già nel 1817 Robert Owen aveva fissato l’obiettivo delle otto ore di lavoro giornaliero e aveva formulato lo slogan: Otto ore di lavoro, Otto ore di svago, Otto ore di riposo.
Questa richiesta delle otto ore di lavoro giornaliero fu ripresa dall’Associazione Internazionale dei Lavoratori nel suo Congresso di Ginevra del 1866 come una condizione preliminare essenziale per il miglioramento e l’emancipazione della classe lavoratrice. Tale obiettivo fu raggiunto in una fase successiva, in tempi diversi, in molti paesi, in un settore produttivo dopo l’altro.
Possiamo dire che la giornata lavorativa di otto ore e, successivamente, la settimana lavorativa di 40 ore, divennero una conquista generalizzata nei paesi industriali durante la prima metà del secolo ventesimo. In seguito, nessun movimento a favore della riduzione progressiva della giornata lavorativa ha fatto la sua apparizione e nessun progresso rilevante è stato compiuto a tale riguardo.
L’introduzione in Francia nell’anno 2000 delle 35 ore settimanali di lavoro ha riguardato soprattutto coloro che erano occupati nell’amministrazione statale ed è stata continuamente diluita e ristretta per coloro che lavorano nel settore industriale. Nel suo complesso è stato più un esercizio di propaganda politica che una misura di avanzamento personale.
Eppure, l’incremento continuo della produttività (nella seconda metà del secolo ventesimo) attraverso l’introduzione di macchinari automatici, avrebbe dovuto portare, nella realtà delle cose e non attraverso una decisione politica e legislativa, alla riduzione progressiva del tempo dedicato al lavoro. Questo sarebbe stato un risultato economicamente possibile, socialmente benefico e tecnologicamente sensato.
Il 1 Dicembre del 1930, all’inizio della Grande Depressione, W.K.Kellog, il proprietario dell’impresa Kellog, produttrice di fiocchi di granoturco, sostituì il periodo tradizionale di otto ore di lavoro su tre turni giornalieri in vigore presso la fabbrica di Battle Creek nel Michigan, con un periodo di sei ore e quattro turni. In altre parole, ridusse la settimana lavorativa a 30 ore (sei ore al giorno su 5 giorni) con una piccola riduzione di paga il primo anno (7 ore pagate invece di 8) e un ritorno al livello retributivo consueto a partire dal secondo anno (6 ore di lavoro per 8 ore di paga). Gli effetti che ciò ebbe sulla produzione furono che “la produttività aumentò, sia a causa della introduzione di una nuova tecnologia sia per via dell’approccio innovativo della Kellog per quanto riguarda le ore e gli incentivi di lavoro.” In interviste condotte nel 1932 dall’Ufficio Femminile del Dipartimento Federale del Lavoro “parecchie donne dissero ai ricercatori federali che il pendolo della loro vita sembrava essere passato dalle restrizioni e dall’asservimento alla libertà e al controllo personale.” (Benjamin Hunnicut, The Pursuit Of Happiness, 1994)
E tuttavia, nel 1943, in adempimento di un decreto presidenziale che fissava la settimana minima lavorativa a 48 ore, i dirigenti della fabbrica Kellog reintrodussero i turni di otto ore al giorno in maniera definitiva. Per i dirigenti dell’impresa, per i capi sindacali e per molti lavoratori maschi, essere occupati significava lavorare a tempo pieno e questo voleva dire una giornata di otto ore (sei giorni alla settimana).
Per molti lavoratori, la giornata lavorativa di otto ore significava essere considerati come coloro che mantengono la famiglia e non hanno nulla a che fare con lavori in casa. Per quanto riguarda i capi, il loro sostegno alle otto ore lavorative derivava probabilmente dalla risposta che essi davano a una domanda teoretica tipo: “Se la parte più importante dell’esistenza delle persone è al di fuori del contesto lavorativo, chi ha il controllo delle persone?” (Benjamin Hunnicut, The Pursuit Of Happiness, 1994)
Per cui, per controllare la vita delle persone, i capi devono avere il controllo del tempo di lavoro delle persone, anche quando gli occupati stanno compiendo qualcosa del tutto inutile o qualcosa che, facendo affidamento a strumenti tecnologici, potrebbe essere eseguito in metà tempo. Come acutamente rilevato da Bob Black: “Essi vogliono il tuo tempo, in misura sufficiente perché tu appartenga a loro, anche se essi non sanno che farsene di tutto quel tempo. Se non fosse così, perché allora la settimana lavorativa media non è diminuita se non di alcuni minuti negli ultimi cinquanta anni?” (Bob Black, The Abolition of Work , 1985)
Già in passato alcuni di coloro che hanno presentato società utopiche hanno introdotto nel loro scenario un numero di ore lavorative relativamente ridotto, con la distribuzione del lavoro tra tutti e con l’esecuzione da parte di tutti di attività manuali alternate ad attività intellettuali. Questo è stato il caso di Thomas Moore in Utopia, 1516 (nessuno lavora più di sei ore al giorno) e di Tommaso Campanella nella Città del Sole, 1623 (nessuno lavora più di quattro ore al giorno).
Per Karl Marx, il progresso tecnologico generato dal modo capitalistico di produzione avrebbe reso possibile in maniera crescente il soddisfacimento dei bisogni materiali con un dispendio minimo di energia fisica da parte del lavoratore. Questo avrebbe permesso il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. “La condizione fondamentale perché ciò avvenga è la riduzione della giornata lavorativa.” (Karl Marx, Il capitale, 1894, vol. III, capitolo 48)
Per Piotr Kropotkin l'obiettivo era quello di “produrre la quantità massima di beni necessari per il benessere di tutti, con il minor dispendio possibile di energie umane.” (The conquest of bred, 1906)
Invece, uno spreco crescente di tempo e di energie dell'essere umano è visibile dappertutto. In tempi abbastanza recenti Buckminster Fuller ha espresso il suo scontento per il fatto che "Noi continuiamo a inventare lavori per via di questa falsa idea che tutti devono essere occupati in un qualche lavoro ingrato a tempo pieno perché, sulla base della teoria Malthusiana Darwiniana, egli deve giustificare il suo diritto ad esistere. Per cui abbiamo ispettori di ispettori e persone che costruiscono strumenti perché gli ispettori possano ispezionare gli ispettori." (Buckminster Fuller, New York Magazine, 30 Marzo 1970).
Il motivo è che, solo inventando lavori inutili o incoraggiando le persone a focalizzare la loro vita su un consumo crescente, i dirigenti politici ed economici potevano riuscire nel loro intento di presentare le otto ore lavorative come qualcosa di necessario e nella natura delle cose. Questo esproprio massiccio del tempo a favore del lavoro dipendente è il requisito indispensabile per mantenere la grande massa dei salariati sotto controllo dall’alto. Altrimenti, il rischio è che le persone possano attuare una transizione dal lavoro dipendente alle attività indipendenti
Eppure, questo è quello che la tecnologia da un lato e fattori morali e culturali dall’altro stanno rendendo possibile, desiderabile e quasi inevitabile se non vogliamo passare da una crisi all’altra e dalla depressione alla decadenza.
Se una riduzione consistente della giornata lavorativa non ha avuto luogo nel corso del secolo ventesimo, forse, nel ventunesimo secolo è tempo di proporsi un obiettivo ben più audace: la pura e semplice abolizione del lavoro in quanto occupazioni dipendenti e la sua sostituzione, in generale, con attività promosse e gestite autonomamente dagli individui.
Ciò può avvenire solo tramite la messa in atto di una serie di trasformazioni quali, ad esempio:
Automazione
L’introduzione di congegni automatici e di processi automatici di produzione, che ha preso uno slancio notevole a partire dalla metà del secolo ventesimo, deve procedere con vigore. L’uso diffuso di elaboratori elettronici per la progettazione (CAD : computer assisted design) e per la produzione (CAM : computer assisted manufacturing) sta conducendo ad un punto in cui ognuno può produrre oggetti o componenti di oggetti (moduli) allo stesso modo in cui produciamo documenti con un computer e una stampante. La prossima fase della civiltà, almeno per quanto riguarda la produzione di oggetti, potrebbe essere il laboratorio di produzione propria in cui individui o gruppi producono (progettano ed eseguono) in maniera diretta oggetti di uso quotidiano con l’assistenza di programmi CAD e CAM di utilizzo facile e versatile.Autoproduzione (beni e servizi)
L’esistenza e la vasta diffusione di congegni automatici, sistemi esperti, assistenti personali digitali, sensori intelligenti e via discorrendo potrebbe riportare nelle mani degli individui, delle famiglie e delle comunità la produzione non solo di una serie di beni ma anche di servizi che sono attualmente il dominio regolato e protetto di professionisti. Piccoli congegni per tenere sotto controllo la propria condizione fisica (ciò che attualmente è fatto tramite esami medici di laboratorio) e sistemi esperti che consigliano un possibile trattamento, potrebbero rendere il ricorso ad un professionista della salute una eventualità rara (ad es. solo in casi di operazioni chirurgiche o di malattie rare). Lo stesso potrebbe dirsi per quanto riguarda l’auto-produzione personalizzata di oggetti per mezzo, ad esempio, di stampanti a tre dimensioni.Consumi appropriati
Un problema che affligge le persone che vivono nelle società avanzate non è il sotto-consumo, come la malnutrizione che significa non avere abbastanza cibo per sviluppare il corpo e operare normalmente, ma il consumo eccessivo che si manifesta in sovrappeso e obesità. Questo produce disfunzioni e malattie che non dovrebbero esistere se non ci lasciassimo ossessionare e manipolare dal ritornello martellante: produrre, consumare, crescere. Inoltre, si finisce spesso per comperare ogni sorta di oggetti non necessari che sono ben presto accantonati in numero crescente.Riduzione-eliminazione dello spreco
Nella società dei consumi basata sul comperare a credito, seguendo la moda e acquistando oggetti sull’impulso del momento o solo per ottenere una gratificazione psicologica, la quantità di beni inutili o di beni che rimangono inutilizzati o sono presto buttati via è enorme. In un documento della FAO (2011) si stima che “la quantità di cibo pro-capite sprecata dai consumatori in Europa e in Nord-America è tra i 95 e i 115 Kg. all’anno. Nel suo complesso, “circa un terzo delle parti consumabili di cibo prodotto per il consumo umano va perso o sprecato a livello globale, il che ammonta a circa 1.3 miliardi di tonnellate all’anno.” (VV.AA., Global Food Losses and Food Waste, 2011)Produzione modulare
Il modo in cui gli oggetti sono prodotti attualmente rappresenta una delle maggiori cause di spreco. Gli oggetti, invece di essere facilmente smontabili e le loro parti danneggiate o non più funzionanti essere rapidamente sostituite, sono prodotti come blocchi compatti, saldati e inaccessibili al loro interno di modo che, quando una componente non funziona più, l’intero oggetto va rimpiazzato. Questo è anche dovuto al costo generalmente elevato delle riparazioni effettuate da un esperto. Ciò avviene anche quando un prodotto, come ad esempio un computer, è reso più potente. Invece di cambiare soltanto il processore interno, l’intero elaboratore è gettato via con costi enormi in termini di riciclaggio e di utilizzo del tempo lavorativo delle persone, il tutto in nome dell’occupazione.Riciclaggio
Riciclare, una delle famose tre R del movimento ambientalista (Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) dovrebbe diventare pratica comune e, in molti casi, sta diventando pratica diffusa anche attraverso l’utilizzo di Internet. Il mercato degli oggetti di seconda mano o di vintage ha avuto una enorme espansione nel corso degli ultimi decenni. Quello che non è più utile o necessario per una persona diventa l’acquisizione preziosa di un’altra persona, prolungando la vita degli oggetti e rendendo superfluo l’impiego di tempo per la loro produzione.Oggetti durevoli
Uno dei mezzi più importanti per eliminare il lavoro non necessario è produrre oggetti durevoli. Chiaramente ciò non sembra essere nell’interesse dei produttori che vogliono che ci sia un flusso continuo e regolare di consumatori che ritornano ad acquistare i loro beni di scadente qualità. A causa di ciò è necessario un ripensamento generale della relazione tra produttori e consumatori se vogliamo passare ad un paradigma radicalmente nuovo.
Questo paradigma, centrato sulla diffusione delle attività ma anche sull’introduzione di altri cambiamenti, deve essere ora reso pienamente esplicito.
Verso una nuova realtà (^)
Il paradigma qui prospettato si basa su tre sviluppi che dovrebbero avere luogo progressivamente:
Eliminare occupazioni obsolete
Alcune occupazioni possono essere notevolmente ridotte di numero o, in alcuni casi, scomparire adesso o in futuro,, in quanto la tecnologia ha trasferito i loro compiti all’utilizzatore-consumatore finale (ad es. casse automatiche). Bob Black, in una maniera molto tagliente, ha fatto questa affermazione riguardo alle occupazioni obsolete: “Già da subito possiamo fare a meno di milioni di venditori, soldati, dirigenti, poliziotti, agenti di borsa, ecclesiastici, avvocati, banchieri, insegnanti, affittacamere, guardie di sicurezza, pubblicitari, e tutti coloro che lavorano per queste persone.” (Bob Black, The Abolition of Work, 1985). Forse alcune di queste figure sono ancora necessarie e non dovrebbero essere nella lista. Ad ogni modo, quello che dovrebbe avvenire è che nessuno dovrebbe essere pagato con i fondi derivanti da una tassazione generale imposta; questo è l’unico modo per accertarsi quanti di coloro impiegati in certe occupazioni sono davvero richiesti e quindi destinati a rimanere. Ciò significa, per fare un esempio, verificare quante persone che producono aerei da combattimento saranno ancora occupate in una situazione di libera allocazione dei fondi.Condividere i lavori necessari
Alcuni lavori che sono difficili da automatizzare, non particolarmente piacevoli ma necessari, come il pulire le strade, dovrebbero essere condivisi da tutti coloro che sono interessati e godono del risultato (cioè, una strada pulita). Questo lavoro dovrebbe essere assunto come una funzione sociale, forse, in taluni casi eseguito durante un certo periodo della propria vita (quando si è giovani), per un certo periodo di tempo (mesi), e con un certo riconoscimento sociale (merito) collegato ad esso. Inoltre, questo è il tipo di lavoro che, condotto in gruppi e occasionalmente per un breve periodo di tempo potrebbe essere considerato come un diversivo sociale, e già in alcuni casi esso è eseguito con tale spirito (ad es. un gruppo di persone che pulisce una spiaggia o un gruppo di residenti che abbellisce la propria via).Avviare attività autonome
I congegni tecnologici inventati e resi disponibili nel corso degli ultimi decenni sono caratterizzati dal fatto che essi sono (a) relativamente a buon mercato (b) di ridotte dimensioni (c) altamente efficienti. Questo significa che il capitale (gli strumenti di produzione) può essere a disposizione di quasi tutti (gruppi o individui) che vogliono impegnarsi nella produzione di beni e servizi. Chiaramente, coloro che non vogliono avviare una loro attività potrebbero collaborare con questa miriade di nuovi piccoli imprenditori, ma con una relazione diversa da quella esistente, convenzionalmente, tra un padrone industriale e un operaio dipendente. Queste nuove unità di produzione diventerebbero laboratori altamente flessibili ed innovativi, interconnessi in una vasta rete di attori produttivi, in uno scenario di cooperazione competitiva (coopetizione).
Questi tre sviluppi saranno accompagnati da una tendenza generale verso una nuova realtà caratterizzata da una serie di ricomposizioni concernenti le attività umane, quali, ad esempio, tra:
Manuale/Intellettuale
La ricomposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, in tutti i casi e luoghi in cui è ricercata attivamente dagli individui, è possibile perché le differenze tra i produttori sono più il risultato dell’istruzione e delle opportunità culturali che un portato naturale. Come è stato ben sottolineato da Adam Smith: “La differenza tra i talenti naturali in persone diverse è, in realtà, molto inferiore a quanto pensiamo; e il genio estremamente differente che appare distinguere le persone di professioni differenti, quando sono giunte a maturità, è in molti casi non tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro.” (The Wealth of Nations, 1776, Libro 1, Capitolo II)Agricoltura/Industria
In passato non vi era una netta divisione tra attività agricole (produrre cibo) e attività artigianali (produrre attrezzi), e le stesse persone si occupavano dell’una o dell’altra secondo le stagioni dell’anno (estate – inverno). Al giorno d’oggi, l’industrializzazione dell’agricoltura e l’attenzione dell’industria verso l’ambiente potrebbero portare ad una interpenetrazione, con campi coltivati e laboratori industriali sparsi in maniera armoniosa sul territorio. Questo fatto ridurrebbe anche enormemente la necessità di occupazioni nel settore dei trasporti e nell’intermediazione commerciale.Uomo/Donna
La divisione sociale del lavoro tra uomini e donne ha cristallizzato e opposto ruoli e funzioni in modo tale che entrambi sono stati mutilati di alcune qualità personali e di esperienze di vita. Attualmente, l’automazione e la robotizzazione di molti compiti gravosi, ha reso possibile per tutti, al di là delle distinzioni di sesso o di forza fisica, l’eseguire ogni sorta di attività. Una situazione potrebbe essere raggiunta (ed è già stata raggiunta in molti casi) in cui le attività produttive (domestiche e sociali) sono intercambiabili tra uomo e donna e quello che conta è l’attitudine e l’interesse personali nell’impegnarsi, di preferenza, in alcune di esse.Luogo di lavoro/Luogo di abitazione
Le macchine costose e di grandi dimensioni dell’età dell’industrializzazione hanno favorito la concentrazione della produzione in enormi complessi; ora, nell’epoca della post-industrializzazione, la miniaturizzazione e il costo relativamente basso degli strumenti di produzione, in unione con una vasta rete di comunicazione, hanno reso possibile una ampia decentralizzazione della produzione di beni e servizi. Effettuare una attività a casa e da casa è un modo estremamente conveniente, flessibile e generalmente piacevole di evitare la fatica del pendolarismo quotidiano, oltre ad essere, molto spesso, una maniera assai più efficace di produrre.Lavoro/Svago
L’aspirazione di quasi tutti gli esseri umani è quella di impegnarsi in una attività così interessante e soddisfacente che le differenze tra lavoro e svago (quasi) scompaiono. Questo è attualmente il caso di molti artisti, scienziati, imprenditori. Potrebbe essere il caso di un numero crescente di individui una volta che essi promuovono una loro attività creativa, lasciandosi alle spalle una situazione di lavoro dipendente monotono. Infatti lo svago è una attività volontaria e libera stimolante, e un impegno produttivo scelto volontariamente, eseguito autonomamente, mettendo in moto le capacità personali, può certamente avere le qualità di una esperienza di svago.
Le ricomposizioni contemplate in questo nuovo paradigma significano che le attività produttive, che migliorano l’esistenza delle persone, saranno realizzate da individui che eseguono e impersonano vari ruoli quali:
Produttore + Consumatore (prosumer). Il termine prosumer è stato introdotto per la prima volta da Alvin Toffler in The Third Wave (1980). Con questo neologismo l’autore intendeva dare un nome ad una nuova figura che riproponeva una antica pratica, e cioè, quella dell’auto-produzione per l’uso personale. La forma più popolare di questa pratica è il fai-da-te, vale a dire la persona che contando sulle proprie capacità provvede direttamente e autonomamente al soddisfacimento di una serie di esigenze. Questo è stato anche reso possibile dall’introduzione di strumenti di lavoro e congegni che facilitano l’esecuzione diretta da parte dell’utente-consumatore di molti compiti. L’esempio presentato da Toffler è l’introduzione, all’inizio degli anni 1970, del test di gravidanza auto-amministrato. Per quanto riguarda il fai-da-te più tradizionale (compiere riparazioni in casa) un segno della diffusione del prosumer è il fatto che, negli Stati Uniti, tra il 1974 e il 1975 “per la prima volta, oltre la metà dei materiali da costruzione ... sono stati acquistati da proprietari di casa piuttosto che da costruttori che lavoravano su commissione.” (Alvin Toffler, The Third Wave, 1980).
Utente + Designer (usigner). La disponibilità di programmi informatici potenti, in taluni casi di libero accesso, ha moltiplicato il numero di coloro che producono ulteriori programmi informatici come risposta a determinati bisogni. Il momento in cui l’utilizzatore progetterà e produrrà alcuni dei suoi oggetti o prodotti intellettuali e li farà circolare (attraverso vendite dirette o gratuitamente) è già arrivato. Questo è il segno più visibile di una intelligenza collettiva che si sta diffondendo dappertutto. Il primo stadio è stata l’utilizzazione di utenti-consumatori come progettisti il quel processo noto sotto il nome di crowdsourcing. La prossima fase sarà quella dell’utilizzatore progettista che diventa produttore diretto. A quel punto molte delle vecchie divisioni provenienti da epoche passate (il capitalismo e l’industrialismo) diventeranno realtà obsolete.
Esecutore + Decisore (docider). Il cambiamento più grande nello scenario della produzione e dei consumi è rappresentato dall’unificazione tra coloro che fanno (to do in inglese) e coloro che decidono. Questo significherà la realizzazione della aspirazione sempre viva alla scomparsa della divisione e contrapposizione tra padroni e servi. Ciò non significa che le relazioni basate sull’autorità (conoscenza) e sul tirocinio (apprendimento) scompariranno. Come espresso in maniera estremamente chiara da Mikhail Bakunin: “Io sono consapevole della mia incapacità di afferrare in tutti i suoi dettagli e sviluppi positivi, una parte molto grande del sapere umano. ... Da ciò ne consegue, nella scienza come nell’industria, la necessità della divisione e della associazione del lavoro. Io ricevo e io dò – questa è l’essenza dell’esistenza umana. Ognuno dirige ed è diretto a sua volta. Perciò non vi è una autorità fissa e permanente, ma uno scambi continuo di autorità e di dipendenza reciproca, temporanea e, soprattutto, volontaria.” (Dieu et l'état, 1882)
Gli individui impegnati a costruire la nuova realtà abbandoneranno molte categorie e terminologie del passato (occupazione, mansioni, mercati, industrie, ecc.) e passeranno ad un mondo animato dai principi e dalle pratiche perenni dell’avere cura e del condividere.
Per la prima volta nella storia abbiamo risolto, da un punto di vista teorico-tecnologico, il problema del soddisfacimento di bisogni primari (cibo e abitazione) per tutti. Dobbiamo adesso risolvere il problema a livello pratico-sociale, attraverso l’impegno in attività produttive che portano all’aver cura e al condividere in maniera volontaria beni e servizi.
Questa opportunità così reale e diffusa di partecipare in attività personalmente meritevoli in una rete di individui socialmente meritevoli è una occasione per tutti da non lasciarsi sfuggire.
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