Il punto di avvio: ethos e nomos (^)

È un fatto generale, che passa quasi inosservato, che i fenomeni più complessi della vita umana, come le origini e lo sviluppo dei linguaggi, dei principi etici, delle norme di comportamento, sono il risultato di innumerevoli individui e delle loro azioni e interazioni spontanee nel corso del tempo.

È poi molto probabile che, ad un certo punto, quando un insieme consistente di materiali derivanti dall'esperienza sono stati prodotti come forme e modi comuni di parlare e agire, qualcuno interverrà per strutturare in regole formali quella che è già diventata, in notevole misura, pratica consolidata.

Da qui a pensare e credere che i sistematizzatori sono anche gli originatori di quelle pratiche, il passo è breve, ed è generalmente compiuto perché alla mente umana appare molto plausibile assumere l'esistenza di uno specifico inventore/originatore di un particolare fatto sociale ad una data o periodo precisi.

Il "creazionismo sociale", in base al quale, per ogni esperienza complessa c'è una entità superiore che l'ha progettata e prodotta, fa parte del bagaglio culturale, in particolare, di quegli studiosi per cui la storia è riducibile a ciò che Papi, Re, Presidenti, Parlamenti o simili hanno escogitato e deciso nel corso della loro esistenza.

Chiaramente, questa visione esprime anche l'interesse consolidato e l'impegno propagandistico di coloro che sono al potere, desiderosi di attribuire a sé stessi ingegnose capacità sociali che essi non posseggono e utili costrutti sociali che essi non hanno prodotto, in particolare di progettare norme che sono poi accolte dal popolo nel suo complesso.

In realtà, tutte le norme che sono emerse nel corso della storia, dappertutto sulla terra, sono il risultato di azioni prodotte spontaneamente e in maniera ricorrente, aventi origine in bisogni, esigenze, aspirazioni dell'essere umano. In altre parole, esse sono modi di comportamento che sono sopravvissuti e si sono sedimentati nel tempo e sono stati condivisi da un numero crescente di persone attraverso l'imitazione e la interiorizzazione.

L'ethos (atteggiamenti, comportamenti, convinzioni) produce il nomos (le norme), vale a dire ciò che è assunto come comportamento normale che caratterizza e unisce i membri di un gruppo. Il diritto romano e la Common Law non hanno origini differenti. Essi derivano entrambi dallo sviluppo e dall'affinamento dei mores (costumi) di individui all’interno di comunità.

Questo fatto è stato oscurato e dimenticato non appena un qualsiasi potere dominante, sia esso religioso o politico, è arrivato sulla scena.

 

La svolta infida: cratos e lex (^)

La civiltà romana è stata, in larga parte, identificata con il sistema di leggi (ius gentium, ius civile) che regolava le relazioni sociale contrattuali e facilitava la risoluzione di conflitti. Quello che non sempre emerge in maniera chiara è che quelle leggi avevano le loro radici in pratiche religiose e in tradizioni accettate e trasmesse di generazione in generazione.

La prima formulazione giuridica scritta nella storia del diritto romano consiste nelle Dodici Tavole, redatte su richiesta dei plebei che si lamentavano del fatto che i consoli patrizi amministravano facendo ricorso a usi giuridici oscuri in maniera arbitraria. Dopo dieci anni di discussioni fu compilato un codice di leggi che consisteva in una sintesi di quelle che erano le miglior pratiche giuridiche in Grecia e a Roma, e un testo definitivo fu prodotto tra il 451 e il 449 avanti Cristo.

Gli avvocati stessi, nel processo di risoluzione delle controversie tra i loro clienti, diedero impulso allo sviluppo delle leggi intese come norme che venivano ripetutamente utilizzate nelle controversie. Per cui la legge era un qualcosa scoperto dalle parti coinvolte in una disputa, capace di risolverla tramite l’accettazione consensuale delle parti. Non vi era una legislazione a priori che regolava la materia civile e quindi non c'erano leggi già pronte che coprivano ogni caso e che andavano imposte alle parti.

Perché questo avvenisse dobbiamo attendere la fine dell'Impero Romano d'occidente e l'avvento dell'imperatore Giustiniano. Intorno all'anno 533 fu prodotto un testo noto come il Digesto o le Pandette che sistematizzava i modi di comportarsi e di relazionarsi tra le persone durante il lungo periodo dell'esistenza di Roma. A quei costumi l'imperatore diede la forza di leggi, sostenute dal potere.

Il Codice di Giustiniano è l'esempio più evidente di incorporazione e strutturazione di convenzioni sociali e norme etiche in un codice giuridico di leggi al quale il potere (cratos) dava il suo sigillo di approvazione e supporto.

Un altro esempio è rappresentato dall'incorporazione della Lex Mercatoria (autonomamente sviluppata e amministrata) nella Legge Commerciale (decretata e imposta da un ente esterno), un processo iniziato dai re feudali e portato a compimento dai governanti degli stati nazionali. La Lex Mercatoria emerse dalle pratiche e convenienze dei mercanti che attraversavano l'Europa con la loro mercanzia. Essi introdussero e perfezionarono norme che ostracizzavano coloro che si comportavano in maniera disonesta e promuovevano la sicurezza e la facilità delle transazioni. Avrebbe potuto continuare così se non fosse per la natura totalitaria del potere che è pronto a invadere qualsiasi interstizio di vita, soprattutto se c'è qualcosa da guadagnarci.

È anche molto probabile che qualche mercante disonesto, per evitare la punizione per qualche malefatta da parte dei propri colleghi, si pose sotto la protezione del re e della sua legge. Questo ha significato la fine della Lex Mercatoria come un insieme di principi e norme gestite in maniera autonoma. Da quel momento in poi sono stati impiantati i germi per la sostituzione dell'ethos (pratica morale) da parte del cratos (potere politico) e per il passaggio da norme congegnate in maniera autonoma dalle persone a leggi introdotte dall'alto dallo stato.

 

Il controllo politico (^)

A partire dall'anno 1000, con l'espansione del commercio e la ripresa della produzione artigianale, gli Europei cominciarono a diventare una civiltà sempre più urbanizzata. Parallelamente, emersero nuove forme di amministrazione della legge e di mantenimento dell'ordine pubblico che possono essere caratterizzate sotto il nome di controllo politico (policy).

I termini politica e polizia hanno come radice la parola greca polis (città). Il controllo politico (policy) è l'arte e la scienza del governo applicati alla città. Controllare (to police) significa "prevenire o scoprire o perseguire violazioni alle regole e alle disposizioni" (Webster's Dictionary) e fare sì che la vita associata proceda in maniera scorrevole.

Durante il Medio Evo, il compito di mantenere ordine era svolto a livello locale da vari organismi. Le città avevano speciali ronde e guardie notturne a protezione delle proprietà e delle persone. Il signore feudale faceva affidamento ai contadini per garantire servizi di sicurezza sotto la sua diretta guida. Anche la Chiesa e i monasteri avevano le loro istituzioni di protezione.

Quando il commercio e l'artigianato si diffusero sempre più, e la vita culturale rifiorì, le corporazioni artigiane e le università ebbero le loro guardie che sovrintendevano al regolare svolgimento delle attività. Un esempio relativamente recente di questo provvedere alla sicurezza in maniera diretta e differenziata e rappresentato dalla Thames Police di Londra formata nel 1798 con fondi provenienti da compagnie di assicurazione e con l'obiettivo di ridurre i furti nel porto di Londra e di recuperare i beni sottratti.  A parte questi casi, va anche rimarcato il fatto che in molte località le persone non avevano bisogno di un potere esterno o istituzionale, operante in maniera permanente, in quanto la loro esistenza si svolgeva senza sconvolgimenti.

Nelle piccole comunità il biasimo e l'ostracismo verso un individuo colpevole (a torto o a ragione) di una qualche offesa costituivano motivi abbastanza forti di freno nei confronti di una condotta immorale o semplicemente, non comunemente accettata. In realtà, nel corso dei secoli, il conformismo e l'adesione alla morale corrente erano tratti più diffusi del dissenso e della ribellione, a meno che la sopravvivenza dell'individuo e della sua famiglia fossero in gioco.

Da questa dinamica di comportamenti accettabili o biasimabili emersero, nel corso di una lunga storia, modi consolidati di agire che diventarono i costumi di un gruppo sociale. Per cui, prima dell'esistenza del concetto di controllo da parte del potere politico statale, le persone che vivevano in comunità già praticavano l'autodisciplina e realizzavano l'ordine nella comunità attraverso la formazione spontanea e il consolidamento di norme e la loro diretta applicazione, non mediata da alcun potere istituzionale.

 

Il controllo politico statale (^)

Le monarchie assolute che dominarono in Europa fino alla Rivoluzione Francese cercarono di porre sotto il loro controllo l'amministrazione della giustizia e il mantenimento dell'ordine.

Per sovrintendere al regno una serie di corpi centralizzati furono introdotti che assorbirono molti ruoli e funzioni esercitati da altre istituzioni (il comune, la chiesa locale, le corporazioni, ecc.). In Francia, ad esempio, nel 1692 Louis XIV sostituì i magistrati cittadini con intendenti nominati dal re. L'obiettivo era quello di agevolare la esazione di tasse e di domare le rivolte fiscali. Così, come d'abitudine, il controllo sul reame era associato al convogliamento di risorse verso il centro.

Comunque, il cosiddetto potere assoluto dei re sui loro soggetti non è mai stato davvero così forte e non è mai riuscito a mettere da parte o a dominare le altre figure che esistevano e che avevano una certa autorità come la Chiesa, l'aristocrazia e, in una fase successiva, la borghesia del Terzo Stato.

È solo con l'avvento al potere dello stato centrale che qualsiasi corpo intermedio fu praticamente abolito e il compito di controllo fu assunto totalmente dal centro e fu basato sulla produzione di leggi la cui osservanza imposta era equiparata al mantenimento dell'ordine.

Si potrebbe affermare che la  lotta condotta dal re (il feudatario maggiore) contro la Chiesa, la nobiltà e le libere città, al fine di porre sotto il suo controllo e di assumere sotto la sua amministrazione una serie di compiti e prerogative in precedenza svolti da quei poteri, giunse a compimento quando il re scomparve (o rimase solo come una figura di rappresentanza) e un nuovo padrone feudale emerse: lo stato centrale nazionale.

Questo potere monopolistico e altamente invasivo fu il risultato della Rivoluzione Francese assieme alle riforme introdotte da Napoleone Bonaparte. È alla Rivoluzione Francese e a Napoleone che si deve l'introduzione della prima forza di polizia centralizzata, posta sotto il comando di un singolo ministro, Joseph Fouché (1799-1802 e 1804-1810).

Nel 1812 fu formata la Sûreté (che avrebbe costituito il modello da imitare per altre istituzioni investigative come Scotland Yard o la FBI), con a capo un ex-delinquente divenuto informatore della polizia, che si vantava del fatto che, quando 3 persone si riunivano a Parigi, una di esse era sul suo libro paga come delatore. Il modello di controllo poliziesco sviluppatosi in Francia fu imitato da altri stati centrali in Europa, tutti incamminati verso l’installazione di un apparato statale esercitante le funzioni di:

- sorveglianza e repressione
- condanna e punizione
- imprigionamento e detenzione

Per cui, alla fine di un lungo processo, l'assolutismo dei re fu perfezionato e portato a livelli più elevati dal totalitarismo degli stati. Perché questo si compisse, la forza bruta doveva essere sostenuta, come avviene di solito, dal potere di manipolazione delle idee.

 

Le basi ingannevoli del controllo politico statale (^)

Come già sottolineato precedentemente, nel corso della storia qualsiasi forma di potere ha cercato di porre, al posto di usanze normative spontaneamente formate e accettate, regole di legge promulgate e imposte. Questo avveniva perché regole uniformi provenienti dall'alto erano considerate più efficaci per omogeneizzare e controllar il popolo, piuttosto che una varietà di costumi locali sorti dal basso. La reazione a regole di legge imposte dall'alto è manifesta in due correnti di pensiero. Esse sono:

La scuola del naturalismo giuridico, per la quale l'origine dei diritti risiede nella natura umana;

La scuola storica, per la quale l'origine del diritto è da ricercarsi nella cultura di un popolo.

Entrambe queste tendenze, fino a quando rimasero realtà vive che si opponevano, in nome degli individui e delle comunità, alla centralizzazione e all'oppressione, rappresentarono contrafforti notevoli contro il peso del potere, pronto a schiacciare ogni persona fino a farla diventare un suddito obbediente.

Molte battaglie per le libertà civili sono state condotte in nome del diritto naturale e molte lotte di liberazione hanno avuto come motivo di base il desiderio di seguire le regole modellate storicamente dalla comunità invece di quelle imposte artificialmente da un potere esterno. Sfortunatamente, l'allargamento e il rafforzamento continui del potere dello stato nazione a partire dalla Rivoluzione Francese in poi, hanno influenzato negativamente anche le concezioni sostenute da queste due scuole di pensiero.

Come messo in luce da due studiosi del diritto, è accaduto che:

Naturalismo Giuridico. "I sostenitori del diritto naturale, inteso come diritto esterno allo stato, e basato sulla natura umana, finiscono per richiedere leggi statali che attuino quel diritto naturale." (Eugen Ehrlich, Principi fondamentali della filosofia del diritto, 1913)

Scuola Storica. "Il risultato finale della Scuola Storica, come indicato da Sir Ernest Baker, fu una rivendicazione di un "diritto nazionale." (Alessandro Passerin d'Entrèves, Natural Law, 1951)

Così, alla fine, ci fu una distorsione totale delle premesse su cui si basavano quelle concezioni normativi. Invece di promuovere diritti individuali e una varietà di sistemi normativi derivanti dalle comunità locali, il tutto nell'ambito di un inquadramento generale fatto di autonomia e di rispetto reciproco, anche quei teorici del diritto si schierarono a favore della omogeneizzazione dall'alto per mezzo di leggi nazionali imposte a tutti coloro che si trovavano a vivere all'interno del territorio dello stato-nazione.

Molti tra coloro che si consideravano progressisti, ritennero che ciò non fosse, dopo tutto, un male, in quanto poteva condurre a eliminare costumi arretrati. Inoltre, per il liberale classico questo appariva come il compito proprio dello stato, cioè l’essere il guardiano benigno incaricato di proteggere le persone e di raddrizzare i torti.

Ciò, nella mente di alcuni, equivaleva allo stato minimo capace di amministrare la legge imparzialmente e di garantire l'ordine effettivamente. Comunque, questo quadro roseo non si materializzò mai per davvero e, al suo posto, altri fenomeni altamente sgradevoli apparvero sulla scena.

Ad esempio, la legge naturale fu invocata per sostenere una presunta superiorità razziale, affermando, ad esempio, che le razze non-bianche erano 'naturalmente' inferiori per cui le leggi che sanzionavano la schiavitù e la segregazione erano leggi di 'natura'. Oppure, alcuni governanti statali ritennero che le loro leggi nazionali erano superiori a quelle di altre comunità e quindi giunsero alla conclusione che era loro diritto, nell'ottica del progresso, invadere altri territori e imporre quelle leggi su altri popoli. Anche l'idea, in teoria attraente, dello stato come un semplice guardiano dei diritti delle persone e nient'altro fu modificata a tal punto, in molti casi dagli stessi liberali che l’avevano sostenuta, che alla fine scomparve dalla scena. Infatti, quella illusione 'liberale' non aveva tenuto conto dell'appetito vorace dei governanti e dei funzionari statali desiderosi di sempre maggior potere.

La tendenza, postulata da Adolph Wagner, dello stato a crescere parallelamente alla crescita industriale era una realtà già visibile al tempo in cui si avanzava l'idea di mantenere lo stato nel ruolo limitato di guardiano. Eppure, questa idea estremamente viziata ebbe successo e siamo passati dal Guardiano Fraterno con una torcia che illumina (come nel caso della Statua della Libertà) al Grande Fratello con un lungo bastone che colpisce, senza quasi accorgercene o rifletterci.

Il Grande Fratello ha assunto il potere di inventare e imporre leggi per tutti e queste sono chiamate leggi positive e ha preso il monopolio della violenza all'interno di un certo territorio definendo ciò mantenimento dell' 'ordine'. Vediamo quindi un po' più a fondo quali sono gli obiettivi di questo controllo statale inteso come "legge e ordine".

 

Gli obiettivi spregevoli del controllo politico statale (^)

Il controllo statale si basa sul fatto che lo stato si è assicurato tre monopoli:

- il monopolio di promulgare le leggi
- il monopolio di esercitare la violenza
- il monopolio di emettere le sentenze.

Come avviene solitamente in ogni situazione monopolistica, il monopolista può imporre la sua volontà su tutti. Chiaramente quella volontà deve tenere in considerazione, in un regime democratico come in un regime aristocratico, la sensibilità e i desideri della popolazione in genere o della sua parte più vocifera al fine di evitare l'emergere di un diffuso scontento e di una ribellione su cui fanno affidamento gli oppositori per rimpiazzare il potere corrente. Per questo  motivo il controllo statale è caratterizzato da:

leggi opportunistiche. Le leggi dello stato dipendono in misura notevole da dove porta il vento degli umori della pubblica opinione. Assai spesso esse mancano di qualsiasi supporto razionale solido, nel senso che quello che è introdotto e imposto è soltanto una facciata di restrizioni bigotte o un comportamento falsamente progressista, in base a ciò che riscuote più popolarità o porta più voti al momento.

violenza mirata. Le azioni apertamente violente dello stato non sono certamente rivolte alla totalità della popolazione e neanche alla maggioranza della popolazione ma sono indirizzate verso gruppi specifici secondo l'uso strumentale di coloro che sono al potere. Quei gruppi, che hanno costituito il bersaglio dello stato nel passato o nel presente, sono caratterizzati da razza (Neri, Ebrei, Arabi, ecc.), religione (Cattolici, Protestanti, Mussulmani, ecc.), occupazione (le classi lavorative come classi pericolose), orientamento politico (comunisti, anarchici, fascisti, ecc.), stato giuridico (stranieri) o da altre caratteristiche.

Questi tratti distintivi (leggi opportunistiche e violenza mirata) sono chiaramente visibili negli obiettivi principali del controllo statale che sono:

Favorire forti interessi corporativi di coloro che fanno parte o sono legati all'elite dominante. Sotto questo obiettivo possiamo elencare:

- Le leggi che restringono la libertà di commercio attraverso l'applicazione di tariffe o quote restrittive a prodotti e produttori cosiddetti stranieri al fine di favorire ditte nazionali:

- Le leggi che assicurano brevetti di lungo termine a certe ditte o individui solo perché essi sono stati i primi ad avere escogitato o semplicemente introdotto certi prodotti o procedure, e solo per aver pagato per la loro registrazione, bloccando legalmente altri che potrebbero sviluppare la stessa idea in un periodo posteriore o danneggiando coloro che non si sono preoccupati di brevettare quello che è stato da loro già scoperto;

- Le leggi che proteggono categorie di lavoratori nazionali attraverso licenze e albi professionali che escludono persone esterne e scoraggiano nuovi accessi, al fine di limitare artificiosamente il numero di praticanti e di proteggere le corporazioni professionali esistenti;

-  Imporre alle minoranze i modi di comportamento della maggioranza. Si fa riferimento in questo caso non a principi universali di condotta (non uccidere, non rubare, ecc.) per i quali non si fa questioni di maggioranze o di minoranze, ma di comandi specifici che lo stato vuole imporre a tutti i soggetti ‘nazionali’ come un codice di ciò che è politicamente corretto. Ad esempio:

- Le leggi che proibiscono il consumo di alcolici (dagli Stati Uniti negli anni venti e trenta del secolo scorso all'Arabia Saudita dei giorni nostri) e l'uso di sostanze stimolanti, a parte quelle consentite e tassate dallo stato:

- Le leggi che proibiscono certe pratiche sessuali (ad es. omosessualità) o certe relazioni (ad es. adulterio, matrimoni inter-razziali) come se lo stato avesse il diritto di intervenire nelle esperienze del tutto personali di liberi individui;

- Le leggi che discriminano e segregano minoranze in base al colore della pelle, etnia, fede religiosa, convincimenti politici, paese di origine, o altro, in modo da favorire l'elemento razziale nazionale (qualunque cosa esso significhi) o la religione della maggioranza, o l'ideologia politica dominante, o altro aspetto arbitrario.

Salvaguardare in ogni modo l'esistenza dello stato. Questa è di gran lunga la principale preoccupazione dello stato e il risultato è l'esistenza di un notevole numero di leggi progettate a tal scopo. Abbiamo ad esempio:

- Le leggi contro il libero movimento delle persone viste come un pericolo per lo stato nazionale (o federale) in quanto gli stranieri sono più difficili da omogeneizzare e integrare sotto l'ideologia dominante;

- Le leggi contro pratiche religiose o attivismo politico in tutti i casi in cui la religione o la politica siano visti come una minaccia alla stabilità dello stato e alla diffusione della fede o ideologia politica consentiti dallo stato,  ad esempio, fascismo, comunismo, laicismo, Cattolicesimo, Islamismo, ecc.

- Le leggi contro i dissidenti (gruppi, individui), che sono ora facilmente catalogati sotto l'assai conveniente e generale etichetta di terroristi;

- Le leggi contro coloro che si rifiutano di prender parte alla violenza organizzata dallo stato (obiettori di coscienza) definiti traditori della patria;

- Le leggi contro la libera circolazione delle idee, per censurare quei giornali, libri, siti web, stazioni radio che sono contro l'attuale potere statale o esprimono opinioni non del tutto in sintonia con la propaganda statale;

- Le leggi contro qualsiasi attività libera non autorizzata e regolata dallo stato e da cui lo stato estorce la sua quota di guadagno sotto forma di tasse.

L’elenco è così lungo che una volta circolava l'espressione comune: "Molte sono le leggi che producono criminali!"

Questa rapida lista di interventi dello stato attraverso le leggi dovrebbe avere chiarito il fatto che la prevenzione dei delitti e la riparazione dei torti non occupano una posizione rilevante nell'agenda del controllo statale. Anzi, si potrebbe dire che l'agenda statale è dominata da interessi che hanno poco a che fare con la protezione degli individui e delle comunità e molto a che vedere con la manipolazione e la sorveglianza nei confronti di tutti e nell'interesse dello stato e dei suoi associati (burocrati, professionisti al servizio dello stato, imprese protette, categorie assistite, ecc.).

L'agenda si basa su tre aspetti principali (la legge, i crimini, le prigioni) che vanno esaminati criticamente se si vuole avere una immagine chiara dell'assurda realtà del controllo politico statale.

 

La realtà assurda del controllo politico statale (^)

Sin dall'inizio dello stato nazionale territoriale, i temi affrontati e gli strumenti impiegati nell'ambito del controllo politico sono stati gli stessi, vale a dire:

- la promulgazione di leggi
- il perseguimento dei crimini
- la detenzione in prigioni.

È allora necessario concentrare l'analisi sulla realtà di questi temi e strumenti.

Leggi

Sotto il controllo statale, leggi positive, che significa leggi promulgate dallo stato, sono considerate il mezzo indiscusso di risoluzione dei problemi sociali qualora questi si manifestino. Come le parole magiche pronunciate da uno stregone per scacciare un maleficio, le leggi promulgate da maghi eletti riuniti in una stanza speciale sono considerate come formule magiche che cureranno in maniera prodigiosa ogni male. Questa credenza primitiva rappresenta ancora, sfortunatamente, la base culturale di ogni stato. È ad ogni modo evidente che la giustizia esisteva prima della promulgazione di leggi positive.

Montesquieu lo afferma a chiare lettere all’inizio del suo Esprit des Lois: "Avant qu'il y eût des lois faites, il y avait des rapports de justice possibles. Dire qu'il n'y a rien de juste ni d'injuste que ce qu'ordonnent ou défendent les lois positives, c'est dire qu'avant qu'on eût tracé de cercle, tous les rayons n'étaient pas égaux." (“Prima che si facessero le leggi, esistevano rapporti di giustizia possibili. Affermare che non vi è nulla di giusto o di ingiusto tranne che quello che dispongono o proibiscono le leggi positive è come sostenere che prima che fosse tracciato un cerchio tutti i raggi non erano uguali.”) (1758, Esprit des Lois, Libro I).

Inoltre, come già sottolineato da Eugen Ehrlich molto tempo fa: "Ai giorni nostri, come pure in passato, il centro di gravità dello sviluppo del diritto non risiede né nel processo legislativo né nelle scienze giuridiche, né negli studi del diritto, ma nelle società stessa." (Eugen Ehrlich, Principi fondamentali della sociologia del diritto, 1913).

Un altro studioso ha messo in luce più recentemente che "Molti adeguano il loro comportamento alla legge senza peraltro esserne guidati. Essi si comportano conformemente alla legge per altri motivi, che non hanno nulla a che fare col fatto che quelle stesse azioni siano richieste per legge." (Joseph Raz, Practical Reason and Norms, 1975).

In altre parole, alcune leggi possono al massimo anticipare e promuovere quello che sta diventando un comportamento accettabile; più spesso, esse registrano quello che è già un comportamento comune. A parte ciò, molte leggi sono esclusivamente il risultato della volontà di coercizione dello stato territoriale piuttosto che delle dinamiche sociali naturali. Esse non sono un mezzo adatto per controllare e indirizzare quelle dinamiche. Altrimenti, ne conseguirebbe che dove le leggi sono più severe e dettagliate, là dovremmo avere il livello più basso di crimini commessi. Solo se questo fosse vero potremmo prendere in seria considerazione il potere taumaturgico del produrre leggi.

In realtà, sembra che avvenga esattamente l'opposto: maggiore il numero delle leggi, maggiore il numero di crimini commessi; e questo è abbastanza comprensibile se esaminiamo il secondo aspetto del controllo statale: i crimini.

Crimini

 La moltiplicazione delle leggi che regolano e sanzionano qualsiasi aspetto della vita sociale porta, inevitabilmente, alla moltiplicazione dei crimini, vale a dire di comportamenti che ricadono sotto la sanzione della legge. Una semplice definizione di crimine (Vocabolario Zingarelli, 1990) è: “Illecito penale” vale a dire una azione non consentita dal codice penale e cioè dalle leggi.

Considerando che ai nostri tempi le leggi sono un prodotto dello stato, amministrato dallo stato, ne consegue che è lo stato che decide, appunto per legge, quello che è e quello che non è un crimine. Una pulizia etnica promossa dallo stato potrebbe quindi essere considerata come una azione del tutto lecita (cioè non criminale) mentre l'attraversamento di un fiume senza il permesso dello stato potrebbe rientrare tra gli atti criminali (illecito attraversamento di un confine di stato).

Tutto questo, d'altronde, è perfettamente in sintonia con la radice etimologica del termine 'crimine' che è: gridare, urlare. Attualmente, coloro che hanno la proprietà o il controllo dei mezzi di comunicazione e di formazione sono quelli che possono gridare più forte e, in questo modo, possono giocare il ruolo di accusatori. Infatti, il primo significato della parola "crimine" è: recriminazione, accusa.

Ecco perché in Latino il termine criminator (colui che avanza una recriminazione o accusa) ha un duplice significato, di accusatore o di calunniatore. Non c'è quindi da stupirsi se individui che sono stati tenuti in carcere o giustiziati secondo le leggi dello stato in quanto criminali condannati a giudizio, in una fase successiva, con un governo diverso e in un clima politico differente, sono stati riabilitati e esaltati come eroi o addirittura martiri.

Quindi l'accusa di crimini, avanzata dallo stato, anche quando confermata in giudizio, dovrebbe sempre essere presa con molta cautela e dovrebbe essere totalmente respinta in almeno due casi:

- crimini senza vittime. Questi sono atti da cui nessuno è danneggiato (come il fumare la marijuana o giocare d'azzardo o il dare lavoro a personale non registrato) ma, nonostante tutto, sono considerati crimini dallo stato per motivi che non hanno nulla a che vedere con il diritto e la giustizia. L’assurdo risiede nel fatto che fumare droghe come il tabacco, giocare d’azzardo puntando ai numeri del lotto o assumere lavoratori, sono tutte attività lecite fin tanto che sono sotto il controllo statale. Per un trattamento dettagliato dei crimini senza vittime si veda Peter McWilliams, Ain't Nobody's Business If You Do, http://www.mcwilliams.com/books/books/aint/toc.htm)

- crimini di lesa maestà. Questi sono atti contro il potere in carica (come stampare e far circolare letteratura proibita, ad esempio la Fattoria degli animali di George Orwell durante il regime degli stati comunisti nell'Europa dell'est o il promuovere manifestazioni per rovesciare il governo). Chiaramente, agli occhi del potere queste sono azioni terribili che devono essere condannate e represse con il massimo di forza, ma non c'è nulla di ingiusto o di riprovevole in esse. Al contrario, esse sono segni di un essere umano sviluppato e indipendente.

Se una persona commette un crimine ed è scoperta, presa e condannata, le conseguenze sono, di solito, quelle di ricevere una punizione sotto forma di detenzione in una prigione. E qui arriviamo al terzo aspetto che caratterizza l'assurda realtà del controllo statale.

Prigioni

Sotto il controllo statale le prigioni sono diventate lo strumento principale, se non l'unico, per intervenire nei confronti delle persone che hanno commesso azioni condannate dalla legge. Le prigioni sono ritenute il mezzo migliore per:

punire l'autore di un crimine

prevenire altre persone mettendole in guardia sulle conseguenze derivanti dal commettere un crimine

proteggere la popolazione nel suo complesso da coloro che hanno commesso crimini isolando gli autori del crimine dalla società.

Tuttavia, le prigioni si rivelano del tutto inadeguate ad assolvere tali compiti in quanto:

- La detenzione a spese del contribuente (inclusi coloro che hanno sofferto il danno) è una maniera idiota di punire le persone. Per il piccolo delinquente incallito un periodo in prigione è come un momento di riposo prima di riprendere le sue normali attività delinquenziali. Nel Regno Unito statistiche ufficiali abbastanza recenti (2003) mostrano che il 61% di coloro che delinquono sono condannati nuovamente entro due anni dalla prima condanna, con un  tasso di recidiva nel commettere azioni delinquenziali da parte di adolescenti maschi (15-18 anni) intorno all'82%. Si sono addirittura segnalati casi di persone che hanno commesso nuovi atti delinquenziali in modo da rientrare nell'ambiente sicuro e garantito della prigione.

- Le prigioni in quanto strumento di messa in guardia rappresentano una nozione totalmente priva di basi empiriche. Si legge in cronache del passato che ladri e borsaioli erano operativi in città quando il popolo si affollava per assistere all'impiccagione di un ladro. Per cui, in linea generale, si può generalmente affermare che coloro che intendono commettere offese non sono dissuasi dalla punizione rappresentata dalla prigione o da trattamenti ben più duri. Riguardo a questa catena diabolica di offese e castighi, Cicerone scrisse nel De Re Publica: “nulla è più disgustoso di questa lotta incessante tra il male che infliggiamo e quello che riceviamo.” (Libro II)

- Le prigioni come protezione della gente rappresentano un imbroglio totale. Esse sono, al massimo, una protezione temporanea solo nei confronti delle offese che alcune persone potrebbero commettere. Infatti, ogni giorno ci sono altre persone che escono di prigione e, in molti casi, sono pronte a riprendere le loro azioni delittuose da dove le avevano lasciate o, più probabilmente, desiderose di intraprendere imprese ancora più audaci dopo aver assorbito in prigione le conoscenze necessarie per un più alto livello di delinquenza.

A questo riguardo, numerose pagine sono state scritte e parole penetranti sono state dette che denunciavano "le prigioni come scuole per apprendere le più disgustose categorie di infrazioni alla legge morale." (Piotr Kropotkin, In Russian and French Prisons, 1887)

Questa condanna delle prigioni come centri di formazione superiore al delinquere ha addirittura spinto un Ministro degli Interni del Regno Unito (Douglas Hurd) a scrivere in un documento governativo che "la prigione è un modo costoso per rendere peggiori persone che sono già abbastanza cattive"; e un altro ministro degli Interni del Regno Unito (David Blunkett) affermò nel 2001 che "senza alcun dubbio le persone imparano di più a commettere crimini in prigione che in qualsiasi altro posto durante la loro vita."

Eppure, in tutti questi anni in cui lo stato centrale ha dominato, non è stato né cercato, né sperimentato, né attuato seriamente alcun modo diverso per trattare coloro che commettono offese. Al contrario, le prigioni sono più affollate che mai (nel Regno Unito la popolazione carceraria è passata da 44.500  persone nel 1993 a circa 80.000 nel 2007, una crescita di quasi l'80%) e nuove prigioni sono costruite e molte di più lo sarebbero se non fosse per i soliti problemi di mancanza di fondi.

In presenza di ciò, è forse tempo di rendersi conto che il controllo statale è un modo molto costoso e altamente nocivo di rendere una cattiva situazione addirittura peggiore. Comunque, quello che è cattivo per gli individui onesti e per le pacifiche comunità non è affatto cattivo per lo stato che, attraverso le prigioni come scuole per il crimine, può contare su un numero sicuro di delinquenti qualificati che giustificano la sua esistenza come indispensabile fornitore di sicurezza in regime di monopolio.

Questo è il motivo per cui le prigioni sono e rimarranno il principale strumento di repressione nell'ambito del controllo statale, almeno fino a quando lo stato manterrà il suo monopolio territoriale sulla legge e sull'ordine. La legge, il crimine come definito dallo stato e le prigioni in quanto pilastri del controllo statale hanno prodotto risultati sciagurati e perversi che saranno adesso brevemente esposti.

 

I risultati perversi del controllo politico statale (^)

Negli ultimi duecento anni il progresso scientifico e tecnologico ha migliorato notevolmente il livello di vita di molte persone in molte regioni del mondo. Nonostante ciò, il livello di civiltà e di organizzazione sociale non solo non sono migliorati in eguale misura ma, in alcuni casi e in alcuni periodi, sono peggiorati notevolmente.

Tenendo conto che lo stato ha rivestito, almeno sin dai tempi della Rivoluzione Francese e, in particolare, durante il XX secolo, il ruolo di attore principale nelle vicende sociali e quello di responsabile di uno sviluppo ordinato delle relazioni sociali, è corretto affermare che i risultati non hanno risposto affatto alle promesse o alle attese.

Il fatto è che il controllo da parte dello stato, lungi dal contribuire a risolvere i problemi della vita sociale, li ha esacerbati e li ha resi parte congenita della vita di (quasi) tutti. Quei problemi rimarranno con noi fino a quando resteremo intrappolati nel paradigma delle leggi e del (dis)ordine statali. I principali risultati perversi del controllo statale sono i seguenti:

Istituzionalizzazione di organizzazioni criminali attraverso la promulgazione di leggi
Le leggi che proibiscono il consumo di alcol o l'uso di droghe o il movimento delle persone hanno dato vita alla formazione di organizzazioni che soddisfano quelle richieste. Queste organizzazioni poi utilizzano mezzi violenti contro concorrenti o contro oppositori al fine di raggiungere il loro fini di guadagni crescenti. Perciò, il sorgere del cosiddetto crimine organizzato è, in alcune aree, il risultato diretto di una qualche disposizione di legge. La legge che proibiva la produzione e la vendita di bevande alcoliche rappresentò un dono insperato a certi gruppi che intervennero rapidamente in quelle attività ad alto rischio ma anche ad altissimo profitto, lasciando dietro di loro una scia di violenza e di corruzione mentre cercavano di consolidare la loro posizione monopolistica altamente lucrativa. Lo stesso è vero al giorno d'oggi per quanto riguarda la vendita e l'uso di droghe, con un numero non esiguo di individui pronti a commettere furti per procurarsi il denaro per acquistare la merce fuorilegge. Insomma, ancora una volta le migliori intenzioni sbandierate generano i peggiori risultati possibili. Attualmente, il tentativo di controllare il movimento delle persone attraverso leggi e disposizioni di polizia ha fatto emergere organizzazioni che contrabbandano persone attraverso viaggi allucinanti, talvolta letali, per i quali si estorcono prezzi da strozzini. Tutto questo è reso possibile grazie alle leggi degli stati. Per cui non è fuori luogo affermare che lo stato crea crimini e criminali i quali, a loro volta, giustificano l'esistenza dello stato (polizia, magistratura, burocrazia). Un patto diabolico degno di una organizzazione infernale quale è lo stato.

Produzione di criminali che diventano delinquenti a tutti gli effetti
Il numero estremamente elevato di leggi e la palude di regolamenti introdotti a un ritmo sempre più elevato fanno sì che un numero crescente di individui si trovi a infrangere una qualche disposizione statale. Questo è vero specialmente per molti 'stranieri' che sono spinti verso una esistenza precaria essendo considerati immigranti clandestini (una qualificazione inventata dallo stato e che certamente non esisteva quando l'uomo bianco si muoveva a suo piacimento dappertutto sul pianeta terra) o lavoratori in nero (come se lo svolgere una certa attività che soddisfa un certo bisogno possa avere connotazioni cromatiche negative). Se certi modi razionali di comportarsi sono bloccati, molti potrebbero pensare conveniente esplorare e intraprendere altre strade. In tal caso, invece di essere criminali secondo lo stato potrebbero diventare delinquenti veri nella società. Dopotutto, nella realtà attuale questa non sarebbe una scelta irrazionale, considerando che molti che commettono offese reali (e non crimini inventati dallo stato) non sono mai presi o, se presi, sono trattati, in molti casi, in modo del tutto inefficace da parte del sistema di controllo statale.

Incapacità di comportarsi in maniera effettiva nei confronti di coloro che commettono malefatte
È un dato della realtà che i diretti responsabili della legge e dell'ordine (la polizia, la magistratura) si comportano in maniera del tutto inefficace. Innanzitutto, piccoli furti e danneggiamenti sono così frequenti in certe zone che non sono neanche più segnalati data la mancanza di fiducia nella polizia; e quando sono denunciati, è molto probabile che non siano indagati adeguatamente considerato che la polizia è già abbastanza soddisfatta con la stesura e archiviazione di un rapporto sull'incidente, più che occupata a portare avanti l'investigazione sul fatto; e anche se l'offesa riceve piena attenzione, le probabilità di fermare il colpevole sono abbastanza scarse (per quanto riguarda il Regno Unito nel 1999/2000 in meno del 15% dei furti subiti in casa e che sono denunciati si è risaliti al colpevole) tranne quando la persona è già ampiamente nota alla polizia per una serie di imprese simili; e nei rari casi in cui la persona è fermata, le probabilità che continui la sua attività delinquenziale sono molto elevate perché il sistema non è congegnato per riparare il torto subito dalla vittima e riformare sul serio il perpetratore dell'offesa. Infatti, il delinquente o trova un giudice falsamente progressista che chiude il caso o un giudice stupidamente autoritario che manda il colpevole in prigione. Nel primo caso il delinquente riceve un segnale che può imbarcarsi in imprese delittuose ancora più ardite senza problemi di sorta; nel secondo caso riceve l'opportunità di frequentare la scuola del crimine (la prigione) dove si diplomerà per commettere imprese delittuose ancora più ardite, sperando di non essere scoperto avendo acquistato maggiore esperienza. Per cui, in ogni caso è probabile che si giunga agli stessi risultati del tutto insoddisfacenti, almeno fino a quando rimaniamo nell'ambito del sistema corrente.

Indebolimento della spinta all’auto-difesa da parte di individui e comunità
Un altro segnale forte dato dal potere statale ai cittadini è quello di rimanere totalmente deboli e passivi quando si sta subendo un torto o una violenza o quando si assiste ad azioni di questo tipo di. L'affermazione così tanto celebrata: "Non prendere la legge nelle tue mani" costituisce un inno del tutto immorale al non agire che dovrebbe far rabbrividire di profondo disgusto qualsiasi persona decente. E coloro che non vogliono provare disgusto per sé stessi e decidono di agire, dopo aver sperimentato la futilità e inanità di altri modi più convenzionali di affrontare una situazione offensiva, sono poi trattati come criminali in base a leggi idiote. Per offrire solo un esempio del vivere sotto il controllo statale, nel Regno Unito le persone che hanno semplicemente fermato dei ragazzi intenti a distruggere un bene collettivo sono stati arrestati con l'accusa di violenza a fini di rapimento. Insomma, i governanti statali vogliono individui completamente indifesi contro qualsiasi violenza e offesa, attribuendo a sé stessi o a corpi da loro autorizzati il compito di trattare con i delinquenti. E qui veniamo al punto in cui aggiungiamo la beffa all'ingiuria.

Imposizione di un carico doppio sugli individui per la loro protezione
A causa dei risultati del tutto deprimenti del controllo statale, con l'80% degli atti delittuosi senza che si trovi in colpevole (Italia, 2003) o, per dare un'altra cifra, con il 92% dei furti in casa commessi a Londra in tempi recenti senza che la polizia sia stata in grado di fermare i responsabili, non c'è da stupirsi che le persone stanno investendo sempre più soldi in serrature di sicurezza, allarmi domestici, video sorveglianza, e altro. Inoltre, il numero dei poliziotti privati (vale a dire di coloro che sono pagati direttamente da cittadini e imprese) è cresciuto a tal punto che adesso, negli Stati Uniti, essi superano di numero i poliziotti statali pagati attraverso le tasse. Questo, oltre a distruggere il mito dannoso che il garantire la sicurezza è compito proprio dello stato e solo dello stato, mostra anche che siamo schiacciati da un doppio peso. Infatti, con la tassazione obbligatoria siamo obbligati a pagare lo stato per l'illusione di essere protetti; e poi paghiamo di nuovo, aggiunto al prezzo di beni e servizi, il costo delle cosiddette guardie private in supermercati, banche, imprese.

Nel suo complesso questa situazione non è nuova. Già nel 1791 Wilhelm von Humboldt notava che: "Se fosse possibile fare un calcolo accurato dei mali generati dai regolamenti di polizia, e di quelli che tali regolamenti prevengono, il numero dei primi supererebbe, in tutti i casi, il numero dei secondi." (Wilhelm von Humboldt, I limiti dell'attività dello stato, 1791).

Per cui, il fatto che la regolamentazione statale e la polizia di stato hanno portato miseria in molte esistenze e sconquassato una vita sociale che altrimenti sarebbe abbastanza ordinata, è qualcosa che dovrebbe risultare abbastanza chiaro al giorno d’oggi. Comunque, una situazione si cambia non solo quando molte persone si rendono conto che non produce nulla di positivo ma anche quando essi sanno come trasformarla mettendo in atto un sistema alternativo che promette di essere migliore (più equo, più efficiente).

Ecco perché è necessario iniziare ad abbozzare le linee di una possibile alternativa al sistema corrente di controllo politico statale.

 

Una concezione differente (^)

Per iniziare a formulare una nuova concezione di uno sviluppo soddisfacente della vita sociale, dobbiamo abbandonare le nozioni convenzionali su cui si basa il controllo statale e introdurne di radicalmente nuove, che sono state messe da parte con l'avvento dello stato-nazione centralizzato.

Norme

Il termine norma proviene dal latino norma e designava l'attrezzo di misura del falegname, indicando una regola autorevole o uno standard. In altre parole, una  norma mostra quello che è accettabile in base ad una regola che ha la qualità di uno standard.

Questo è in netto contrasto con il concetto di legge statale o legge positiva in cui quello che è importante non è il contenuto autorevole ma la sua origine formale, e cioè il fatto di essere il prodotto di un corpo dello stato secondo un certo rituale. Per questo motivo ius (diritto) è diventato sinonimo di iussum (comando) e non di iustum (giusto).

Nella realtà dei fatti la legge, essendo finalizzata all'imposizione di una certa condotta, è sostenuta da un insieme di persone che hanno certi interessi, e quanto più potente è un gruppo, tanto più può avere successo nel promuovere e promulgare una legge. Per cui, alla fine, la legge equivale al diritto solo perché, sotto lo statismo territoriale, il diritto equivale alla forza. In altre parole, la legge è quello che il gruppo o i gruppi più potenti all'interno della società vogliono come regole generali. Siamo qui alle prese con un gioco in cui la forza è ricompensata ed è equiparata e definita come "diritto".

Una legge è quindi semplicemente quello che l'attuale padrone, sia esso un sovrano assoluto o un governo democratico, prescrive e impone a tutti legiferando. Le differenze in questi due casi che appaiono così antitetici, sono, in realtà, irrisorie in quanto entrambi sono basati su una realtà superiore (lo stato) sovrimposta alla società (le relazioni sociali).

Al contrario, una norma, che sia un principio, uno standard o una regola funzionale, non è qualcosa che possa essere inventata a modificata attraverso una seduta del Parlamento, ma è una realtà che cresce, talvolta nel corso di un lunghissimo periodo di tempo, e che è accettata solo dopo aver mostrato la sua utilità ed efficacia.

L'effetto più nocivo derivante dalla produzione statale delle leggi è il bloccare questo processo di scoperta personale e sociale della norma e il cancellare il meccanismo di feed-back che svolge un ruolo fondamentale nei rapporti sociali liberi e che è capace di auto-generare norme al fine di produrre ordine.

Approcci, metodi e istituzioni alternative per risolvere i problemi sono o proibiti alle comunità autonome o resi dipendenti da licenze e permessi dello stato con regolamentazioni che li rendono largamente vuoti come liberi esperimenti. Inoltre, la produzione di un  numero incredibile di leggi produce come risultato la criminalizzazione di gran parte della società. Questo è il motivo per cui, oltre a passare da leggi a norme, dobbiamo abbandonare il concetto di crimine definito per legge per passare a una nozione definita in maniera più sostanziale.

Offese

Allo stesso modo per cui una regola obbligatoria è tutto ciò che lo stato ha deciso che sia per legge, così una trasgressione è tutto ciò che lo stato ha qualificato tale per legge e chiamato crimine. Attualmente in molte società occidentali quando si esamina una azione nel suo merito le persone sono portate a considerare se essa è leale piuttosto che vedere se essa è morale.

Questa sostituzione della moralità con la legalità è probabilmente il segno più rivelatore del marciume introdotto dal sistema di controllo statale perché mostra la perdita, da parte di troppi individui, di un senso morale interno alla loro coscienza. Ritrovare un senso morale significa che non possiamo lasciare ai governanti statali il compito di decidere quello che è giusto o sbagliato secondo criteri che tengono principalmente conto dei loro desideri e interessi. Invece, dobbiamo discriminare tra giusto e sbagliato sulla base di standard che fanno riferimento essenzialmente alla libertà degli individui e sull'accertamento se questo libero volere è stato ingiustamente coartato e offeso.

Questo è il motivo per cui l'esistenza diffusa, sotto le leggi statali, del cosiddetto crimine senza vittime (victimless crime) rappresenta una incredibile assurdità. Se nessuno è stato offeso (vale a dire, è stato danneggiato con la forza o con l'inganno) da un'altra persona che ha commesso una certa azione, l'intervento della legge equivale ad un atto di violenza perpetrata dallo stato o da alcuni individui con l'assistenza dello stato.

Eppure, una larga percentuale di detenuti nelle prigioni di stato dappertutto nel mondo si trova lì per aver commesso crimini che non hanno vittime (uso di droghe, prostituzione, immigrazione cosiddetta clandestina, ecc.). Se siamo contro l'uso della forza eccetto che in caso di difesa-autodifesa, certamente non dovremmo far finta di niente quando essa viene attuata da persone appartenenti allo stato per combattere trasgressioni che sono definite tali solo dallo stato.

Nella realtà dei fatti, una trasgressione secondo lo stato può essere benissimo avvertita come un fatto positivo quale è, ad esempio, il caso di una badante che cura un anziano, espulsa dal paese solo perché non in regola con il permesso di soggiorno richiesto dallo stato. L'assurdità di queste disposizioni legali è del tutto evidente allorché il lavoratore "criminale" diventa, da un giorno all'altro, lavoratore "legale" solo perché lo stato ha introdotto nuove regole.

Tutte queste sono ragioni più che sufficienti per l'abbandono del concetto di crimini a favore di quello più sostanziale e pertinente di offese. E questo ci porta ad un'altra nozione che necessita una totale revisione, e cioè quella di punizione attraverso la detenzione.

Riparazioni

Come già sottolineato, le prigioni sono attualmente il metodo principale per punire quelli che, secondo i criteri dello stato, hanno commesso azioni illegali. Un periodo (lungo o breve) in prigione è considerato un mezzo appropriato per punire le persone e per proteggere il pubblico. Non c'è da stupirsi che la popolazione carcerata ha raggiunto livelli record sia negli Stati Uniti (più di 2 milioni di carcerati nel 2007) che nel Regno Unito (circa 80mila carcerati nel 2007).

Eppure, la realtà mostra che questo tipo di punizione non funziona nel senso di ammonire il detenuto sulle conseguenze del commettere altre azioni simili in futuro, e questo per ragioni che sono intrinseche alla prigione in quanto istituzione e alle tendenze che con tutta probabilità si svilupperanno in una simile istituzione.

Sarebbe come attendersi un ricovero totale da parte di un paziente posto in un reparto in cui si trova a stretto contatto con portatori altamente infettivi di ogni tipo di virus. Le probabilità che la persona rimanga infettata da un virus sarebbero notevoli. Inoltre, il fatto che la persona sia detenuta per un certo periodo di tempo e poi rilasciata dopo che il periodo della sentenza è finito (ed è giusto che sia così), crea solo l'illusione di proteggere il pubblico.

Se la persona che ha commesso atti davvero delinquenziali non è maturata e non ha migliorato il suo carattere (il che è molto improbabile in un ambiente come la prigione) ritornerà a commettere atti ancora più nocivi e della cui praticabilità è venuto a conoscenza durante la sua detenzione. Quello di cui allora si ha bisogno è un approccio totalmente diverso che sostituisca la passività e inanità delle prigioni con la responsabilità di compiere azioni che costituiscono una reazione positiva nei confronti delle offese originali.

Solo quando ciò non porta ad alcun risultato, per motivi patologici di natura fisica e mentale, la persona sarà presa in custodia e curata dalla comunità (attraverso gruppi appositi) come se si trattasse di un malato.

Cerchiamo allora di abbozzare quelli che potrebbero essere gli aspetti di una pratica differente nel trattamento di coloro che commettono offese, e cioè di quelle persone che hanno commesso davvero cattive azioni, e che hanno bisogno di aiuto per ri-orientare o ricostruire la loro vita.

 

Una pratica differente (^)

L'analisi condotta fin qui ha mostrato che il controllo statale affronta la complessità della vita sociale e delle personalità individuali con il metodo primitivo della detenzione in una prigione, con il risultato di peggiorare, in molti casi, i modi d'essere e le inclinazioni di una persona. Ecco perché abbiamo bisogno di una pratica totalmente diversa, articolata in modo vario al fine da dare risposte appropriate ai differenti problemi che potrebbero sorgere nella vita delle comunità e degli individui. Qui facciamo riferimento a tre grandi aree di problemi.

La risoluzione di conflitti
La prima condizione per uno sviluppo pacifico delle relazioni sociali è quella di avere a disposizione  e di essere capaci di utilizzare strumenti per la risoluzione di conflitti che potrebbero emergere dalle innumerevoli relazioni sociali. A questo fine le seguenti misure sembrano essere abbastanza pertinenti allo scopo:

Informazione
Il modo migliore per comprendere una situazione è quello di poter contare sui dati migliori, in questo caso sulle circostanze più accurate riguardo alla situazione conflittuale, al fine di chiarire:

1. dove stanno i possibili torti e le possibili ragioni in base a principi universali o valori condivisi dal gruppo
2. la posizione di ciascuna parte con riferimento a torti e ragioni, e
3. la possibilità di avviarsi verso una soluzione soddisfacente, inclusa quella di raggiungere un compromesso tra le differenti posizioni (considerando che abbastanza di sovente nessuno è totalmente dalla parte del torto o dalla parte della ragione).

Se la disponibilità di informazioni non è tale da condurre alla risoluzione diretta del conflitto tra le parti, allora è conveniente passare ad un diverso livello e ad un diverso strumento.

Mediazione
La mediazione è effettuata attraverso l'intervento di una persona incaricata dalle parti, in maniera formale o informale, di valutare la situazione da un punto di vista esterno e di escogitare una via d'uscita che possa soddisfare/essere accettabile a entrambi le parti.
Anche in questo caso, l'informazione di una natura più sofisticata (ad es. dati concernenti casi avvenuti in passato) è importante per arrivare ad una risoluzione del conflitto. Ad ogni modo, anche se questo mezzo dovesse fallire, si può utilizzare un altro strumento.

Arbitrato
Arbitrato significa avere una o più persone volontariamente scelte dalle parti (di solito prima di avviare un rapporto, ad esempio una transazione commerciale), le quali studiano attentamente il caso e giungono ad una soluzione che le parti dichiarano in anticipo di voler accettare e sono vincolate ad accettare (a meno di non voler correre il rischio di essere messi al bando per quanto riguarda qualsiasi futura transazione commerciale). Questa è la maniera scelta da grandi imprese commerciali per risolvere controversie d'affari tra di loro, in cui competenza e prontezza nella risoluzione del caso sono altamente richiesti. Infatti,  la risoluzione effettiva dei conflitti attraverso l'arbitrato è possibile con arbitri esperti nello specifico piuttosto che con giudici statali che conoscono soprattutto la casistica di legge.

La prevenzione delle offese
Il  modo migliore per comportarsi nel caso di eventuali offese è, chiaramente, quello di prevenire quanto più possibile che esse avvengano. Contrariamente a quello che molti pensano e si attendono, società caratterizzate dalla repressione e dal controllo burocratico delle relazioni sono molto più inclini a generare un clima favorevole al commettere offese che non le comunità in cui gli individui godono della più vasta sfera di libertà. In particolare, per la prevenzione delle offese questi tre tipi di libertà sembrano apportare una certa sicurezza e ordine nelle relazioni sociali:

- Libertà di circolazione
Per libertà di circolazione si intende l'insieme completo di movimento fisico, sociale ed economico di individui tra regioni della terra (senza esclusioni, senza frontiere), tra gruppi sociali (senza discriminazioni, senza segregazioni) e tra attività (senza restrizioni di ingresso a una professione, senza permessi di lavoro). La libertà di migliorare la propria vita attraverso gli sforzi personali, senza l'esistenza di assurde restrizioni e ostruzioni, rappresenta il modo migliore per indirizzare le energie personali verso scopi significativi invece di essere spinti verso pratiche delinquenziali. Ad ogni modo, se le offese sono nonostante tutto commesse per motivi che hanno a che fare con qualche infermità morale dell'individuo (ad es. tendenza alla violenza sessuale) piuttosto che con le mancanze dell'ambiente sociale, allora altre misure preventive possono essere attivate, innanzitutto quella della documentazione.

Libertà di documentazione
La libertà di documentazione è la possibilità di ottenere tutte le informazioni utili riguardo a coloro che commettono offese in modo da attuare tutte le misure di precauzione che si ritengono necessarie. Questo significa che non ci sono dati tenuti segreti, noti solo alla polizia, perché questo è la maniera con cui la polizia e i delinquenti tengono la comunità in ostaggio, generando una situazione di cronica insicurezza e paura. Colui che ha commesso una offesa ha il diritto di essere perdonato e la sua offesa dimenticata se non ha commesso alcun misfatto per un certo periodo di tempo o ha riparato a quelli commessi. In casi simili una registrazione delle sue malefatte verrà estinta. Al tempo stesso, gli individui in una comunità devono essere in grado di controllare se persone che hanno commesso offese vivono tra di loro, e quale tipo di offese hanno commesso e quanto recentemente e di sovente, in modo da essere in guardia.

Documentarsi non vuole certo dire avere il diritto di interferire con la vita di una persona che ha commesso dei torti o inventarsi un capro espiatorio per qualsiasi malefatta che ha luogo nella comunità. Quello che si prospetta qui è un processo di apprendimento nel rapportarsi a una persona che ha recentemente commesso delle offese senza diventare perfidi aguzzini o prede indifese.

Certamente nessuno che sia sano di mente andrà a passare il tempo a esaminare gli schedari elettronici in cerca di malfattori, desideroso di diventare il giustiziere all'interno della comunità in cui vive. Questo scenario si applica solo alle pellicole di Hollywood, sulla scia dell'insicurezza generata dal controllo statale. La persona comune che vive nel periodo del post-statismo, per la sua pace mentale assegnerà questo compito ad una agenzia allo stesso modo in ci seleziona una compagnia d'assicurazione contro possibili danni che possono coinvolgere ciò che si possiede (la casa, l'auto, ecc.). Perché tutto questo funzioni davvero abbiamo bisogno della libertà di selezione.

Libertà di selezione
La libertà di selezione significa l'assenza di un ente monopolistico come lo stato territoriale a cui si deve fare riferimento per qualsiasi problema di sicurezza e giustizia. Al suo posto abbiamo una varietà di agenzie, alcune istituite, operate e gestite dagli utenti stessi, che offrono i loro servizi, a prezzi differenti, per differenti tipi di mantenimento della sicurezza e di amministrazione della giustizia, in base alle richieste e ai bisogni degli individui.

È davvero ingenuo attendersi che la sicurezza sia garantita da un forte potere monopolistico. L'esperienza mostra che il monopolio genera inefficienza e impudenza. L'inefficienza significa mancanza di protezione dai malfattori mentre l'impudenza porta ad essere trattati male e schiacciati dallo stesso potere monopolistico che ci dovrebbe proteggere. Questo è il motivo per cui la libertà di selezione è così importante per la prevenzione delle offese. Infatti, attraverso la libertà di selezione le agenzie di protezione più inefficienti falliranno e nessuna sarà in grado di monopolizzare la scena obbligando tutti a sottostare a pratiche soffocanti e a tariffe esorbitanti.  

L'accomodamento tra chi ha offeso e la vittima
Se una offesa è nonostante tutto commessa e l'agenzia di sicurezza e di protezione ha scoperto la persona responsabile del fatto sulla base di prove solide, nella pratica corrente lo stato tratta il caso come se l'offesa fosse stata commessa contro la società nel suo complesso, rappresentata dallo stato stesso.

In altre parole, da qui parte un gioco tra il pubblico ministero, colui che ha commesso l'offesa e l'avvocato incaricato della difesa. La persona che è maggiormente capace nel presentare le prove per l’accusa o per la difesa, dissimulando la verità, fabbricando un alibi plausibile o incastrando l'accusato, vince al gioco. Colui che ha subito l'offesa rimane totalmente fuori del quadro ed è fortunato se può, ad esempio, recuperare parte di ciò che gli è stato rubato o ricevere qualcosa per il danno subito (a meno che non sia un caso sensazionale da prime pagine dei giornali in cui il clamore porta a indennizzi assurdi).

Questo modo di procedere è totalmente assurdo, utile solo ad alimentare il potere dello stato, l'irresponsabilità del delinquente, e l'insignificanza della persona che ha subito l’offesa. È stato messo in luce da alcuni ricercatori (Gresham Sykes and David Matza, Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, 1957) che il rifiuto di riconoscere di aver causato una offesa e l'esistenza di una vittima dell’offesa  sono due tra i modi più solidi che il delinquente ha per poter continuare a commettere malefatte. Ricerche più recenti hanno mostrato che l'essere obbligato a confrontarsi con la persona offesa è un passo molto efficace per far vergognare il malfattore e iniziare un processo di riassunzione della responsabilità per le malefatte commesse.

Ad ogni modo, ciò non è sufficiente. Perché questo corso di azione abbia successo, deve andare un po' più oltre e il modo migliore (per colui che ha offeso e per colui che è stato offeso) è di raggiungere un accordo per cui una qualche azione è intrapresa da colui che ha offeso al fine di riparare, per quanto possibile, al male fatto. Questo potrebbe assumere la forma di:

Restituzione, vale a dire, rifondere quello che è stato rubato, siano essi beni o denaro, attraverso, ad esempio, versamenti regolari.

Riparazione, vale a dire sanare i danni causati o ricostituendo la situazione originaria o pagando una indennizzo deciso con un arbitrato.

Remissione, vale a dire perdono concesso a colui che ha commesso una offesa qualora ciò sembri appropriato alla persona offesa (ad esempio, a causa della leggerezza dell'offesa, della sua involontarietà, delle scuse fatte alla persona offesa, del pentimento sincero da parte dell'offenditore, ecc.).

In questo modo andiamo oltre le pratiche correnti di retribuzione/repressione che non danno risultati positivi per coloro che offendono e che non offrono alcuna consolazione pratica a colui che è offeso. Infatti, se l'offenditore è condannato e mandato in prigione, colui che ha subito l'offesa paga, in quanto contribuente, per il mantenimento di quella persona in carcere, aggiungendo così ulteriore beffa all'ingiuria subita.

Chiaramente, facciamo sempre riferimento qui al fatto che le persone che commettono offese siano esseri dotati di un minimo di razionalità. Come messo in luce da Kant, "Non c'è nessuno, nemmeno il più consumato furfante, a condizione che sia abituato all'uso della ragione in altri campi, il quale, allorché gli mostriamo esempi di onestà d'intenti, di risolutezza nel seguire buoni precetti, di calore e di benevolenza generali, non voglia anche lui possedere quelle qualità." (Immanuel Kant, Principi fondamentali della metafisica dei costumi, 1785).

Per quanto riguarda individui con disordini della personalità o con patologie che li spingono a commettere certe azioni (cleptomani, piromani, ecc.), essi dovrebbero essere curati in comunità composte da individui sensibili e sensati, con terapie appropriate che non sono certamente la reclusione in una prigione o in un ospedale psichiatrico.

È stato sottolineato che: "Studi di prigioni e di manicomi indicano come nella stragrande maggioranza queste istituzioni producono proprio quel comportamento che esse dovrebbero sanare. In un esperimento, quasi tutti i membri di un gruppo di persone diagnosticate come pazze senza speranza, reclusi in un ospedale psichiatrico per più di venti anni, furono dimesse come sane dopo pochi mesi che erano vissute in un ambiente 'normale'. In un altro esperimento, a un gruppo di persone diagnosticate come pazze e pericolose fu permesso di organizzarsi in auto-governo e le cose funzionarono senza incidenti." (Everett Reimer, School is Dead, 1971)

Collocando le persone che hanno subito e quelle che hanno commesso le offese al centro dello sforzo di raggiungere una soluzione, attiviamo un processo fertile di coinvolgimento e di apprendimento sociale che si rifletterà positivamente su due aspetti esaminati in precedenza, e cioè la risoluzione dei conflitti e la prevenzione delle offese. Chiaramente queste pratiche rappresentano un capovolgimento totale del controllo statale che minerebbero la pretesa dello stato di essere l'unica entità capace di garantire sicurezza e ordine.

Ecco perché nessuna di esse avrà la possibilità di essere messa in atto fino a quando esisterà lo stato monopolistico territoriale e sarà più probabile che assisteremo a una ulteriore valanga di leggi, repressione di crimini, costruzione di prigioni. E questo avverrà fino al momento in cui l'inanità e pura idiozia di tutto ciò saranno chiari a uno stragrande numero di persone. A quel punto saremo pronti a sentire il bisogno di uno scenario differente che costituirà l'impalcatura teoretica per le pratiche qui accennate.

 

Uno scenario differente (^)

L'attuale realtà è fatta di controllo statale a livello nazionale con qualche spruzzata di intervento internazionale specialmente nel campo dei diritti umani. Questo non è affatto adeguato per le dinamiche di globalismo e di localismo che caratterizzano l'inizio del XXI secolo. Quello di cui c'è bisogno è un sistema più articolato, basato su un nucleo centrale composto da principi universali stabili e da una serie di norme personali volontarie capaci di essere riformulate e riadattate al modificarsi delle situazioni. L'impalcatura a cui si fa qui riferimento consiste nei seguenti punti:

  1. tutti concordano su uno standard di base comune di comportamento all'interno della vasta sfera delle relazioni tra persone;
  2. ognuno è lasciato indisturbato per quanto riguarda i comportamenti all'interno della sua specifica sfera personale;
  3. alcune misure (come quelle sottolineate precedentemente) sono messe in atto per agire nei confronti di coloro che non rispettano i punti 1 e 2.

Lo scenario che ne risulta è un sistema pluralistico di indicazioni e modelli comportamentali che è valido al di là dell’esistenza di presunte nazionalità statali o delle pretese territoriali statali in materia di legge. All'interno di questo scenario abbiamo le seguenti realtà:

La cosmopoli mondiale (principi universali)
La cosmopoli mondiale è composta da tutti gli abitanti del pianeta terra i quali regolano le loro relazioni attraverso principi universali che sono sempre esistiti anche quando essi rimanevano sullo sfondo.
Cicerone, vissuto nel primo secolo avanti Cristo, nel De Re Publica scrisse a questo proposito:

"C'è una legge vera, una giusta ragione, conforme alla natura, universale, immutabile, eterna, i cui comandi ci conducono all'attuazione del dovere, e i cui divieti ci tengono lontani dal male. Questa legge non può essere contraddetta da un'altra legge, e non può essere né derogata né abrogata. Né il senato né il popolo possono dispensarci dall'obbedire a questa legge universale di giustizia. Essa non ha bisogno di alcun espositore o interprete tranne la nostra coscienza. È la stessa a Roma e ad Atene, oggi e domani; in tutti i tempi e presso tutte le nazioni questa legge universale deve regnare sempre, eterna e imperitura. Colui che non la segue, fugge da sé stesso, e fa violenza alla vera natura umana." (Libro III)

In passato i principi universali erano definiti come Ius Gentium (Diritto delle Genti). Il giurista romano Gaius affermò: “Ius gentium is quod naturalis ratio inter omnes homines constituit.” (Gaius, I 9 D, de just.1, 1.) ["Il diritto delle genti consiste in quello che prescrive la ragione naturale tra tutti gli esseri umani"].

Principi universali sono emersi attraverso l'osservazione di valori e pratiche comuni e attraverso la riflessione sulla natura umana e su ciò che è richiesto per la preservazione della vita sulla terra. Una caratterizzazione dei principi universali è l'imperativo Kantiano: "Agisci unicamente seguendo quella massima che vorresti diventasse legge universale." (Immanuel Kant, Fundamental Principles of the Metaphysics of Morals, 1785)

Principi universali devono necessariamente essere seguiti quando una persona si rapporta all'umanità in generale, e cioè a individui di altre comunità e a coloro che sono al di fuori della sua cerchia ristretta.  Essi sono sempre osservati quando una persona vuole vivere e agire in maniera cosmopolita.

Le comunità volontarie (costumi di gruppo)
Le comunità volontarie (chiamate anche comunità elettive o intenzionali) sono le sole che meritano di essere chiamate comunità. La qualificazione ‘volontario’ mette l'accento su quello che dovrebbe essere una caratteristica essenziale di tutte le società, e cioè il fatto che le persone si sono liberamente associate e sono disposte a rispettare e a partecipare nell'affinamento delle norme (mores) della comunità di cui essi hanno deciso di diventare membri. Le norme di gruppo sono quindi una scelta libera e personale.

Alcuni costumi di gruppo potrebbero essere in contrasto con i principi universali, indicando, in alcuni casi, una certa arretratezza o rozzezza di una specifica comunità, ma questo non dovrebbe rappresentare un problema se i costumi e le regole ad essi legate sono praticati solo tra i membri di quella comunità.

Se una persona non condivide più i modi di vita della comunità di cui è membro, dovrebbe essere libero di staccarsene per unirsi ad un'altra comunità o per vivere una vita isolata, sviluppando solo un minimo di relazioni sociali. In questo caso, qualora venga a contatto con altre persone, egli seguirà ciò che è più appropriato, vale a dire o i principi universali o gli specifici costumi del gruppo.

Gli esseri viventi (regole personali)
Nella vita di ogni giorno ci sono una serie di situazioni in cui l'individuo può benissimo seguire regole personali senza che questo disturbi o offenda alcuno. Questa sfera di regole personali dovrebbe espandersi quanto più mettiamo l'accento sulla responsabilità, intraprendenza e attività individuali.

Regole personali non sono solo quelle direttamente prodotte e accettate dal singolo individuo, ma anche quelle che emergono tra due persone e sono da esse condivise. Le persone toccate da regole che non coinvolgono gruppi esterni di persone sono i giudici legittimi riguardo a ciò che essi vogliono o non vogliono, e a ciò che è o non è nel loro interesse, e quindi rispetto alle regole personali che guidano la loro vita. Se essi si sbagliano, ne pagheranno le conseguenze e questo è chiamato apprendimento attraverso l'esperienza se essi riescono a modificare il loro comportamento in senso positivo.
Ad ogni modo, nella maggior parte dei casi le persone copieranno regole personali che hanno successo o adotteranno regole di gruppo vigenti in comunità floride, e questo è chiamato apprendimento per imitazione.

Da qualsiasi punto vediamo la cosa, l'esistenza di regole personali non imposte da un qualche potere esterno rappresenta la garanzia migliore per lo sviluppo di esseri umani validi. Quello che è stato detto fin qui ha bisogno di essere completato da alcune considerazioni sulla prevenzione e risoluzione comunitaria dei conflitti in modo da chiarire un po' meglio, in teoria e in pratica, le basi su cui poggiano le proposte qui formulate.

 

Verso la risoluzione comunitaria dei conflitti (^)

Le pratiche delineate, basate su una concezione differente e che portano ad uno scenario differente da quello attuale, sono qui definite con l'espressione: risoluzione comunitaria dei conflitti. Questa espressione vuole significare che rendere giustizia è un compito che richiede uno sforzo comune di individui in una comunità e che nessuno dovrebbe essere lasciato solo a risolvere problemi causati dal cattivo comportamento di altre persone, a meno che la controversia non possa essere facilmente risolta direttamente dalle parti.

Gli individui possono anche impiegare agenzie di protezione e queste agenzie sono quindi, in un certo qual modo, agenti della comunità al servizio diretto di un individuo ma, indirettamente, di assistenza all'intera comunità. Più specificamente, risoluzione comunitaria significa che lo scopo non è la punizione come sotto il controllo statale, ma la riparazione dei torti, il risarcimento dei danni, il ripristino, per quanto possibile, della situazione precedente al compimento dell'offesa.

Questo processo di risoluzione comunitaria ha effetti terapeutici su colui che ha offeso, il quale è confrontato con il male fatto e a cui è data l'opportunità di riabilitarsi e di diventare nuovamente un essere umano degno di rispetto. Ha anche un effetto benefico su colui che ha subito l'offesa nella misura in cui riduce la sua rabbia per quanto gli è accaduto ed elimina l’attuale sconforto per il modo burocratico e insoddisfacente in cui questi problemi sono trattati dallo stato.

Chiaramente la risoluzione comunitaria dei conflitti è incompatibile con uno stato monopolistico territoriale e con leggi nazionali imposte attraverso la polizia nazionale di stato e la giustizia nazionale di stato su tutti coloro che vivono in un territorio. Quelle leggi statali sono introdotte, modificate e applicate al fine di sostenere le ragioni del potere (ratione imperii) e non per asserire il potere della ragione (imperio rationis). Qualsiasi osservatore attento e critico della vita sociale realizzerebbe molto presto che gli individui non hanno bisogno della promulgazione di regole dettagliate di condotta sotto forma di leggi imposte a tutti ma della conoscenza di modelli di comportamento che saranno poi molto probabilmente osservati da coloro che vogliono prender parte alle relazioni sociali. L'aspetto centrale che dovrebbe caratterizzare questi modelli di comportamento è la reciprocità volontaria.

Se prendiamo la logica come l'arte e la scienza del ragionamento e la civica come l'arte e la scienza delle relazioni sociali, allora potremmo dire che quello che la coerenza è alla logica, la reciprocità volontaria è alla civica. Senza coerenza non c'è argomentazione sostanziale (vale a dire, razionale). Senza reciprocità non c'è comportamento e interazione sostanziale (vale a dire, razionale). La sola condizione alla reciprocità è che tutti gli atti di comportamento (l'atto originale e quello che segue in contraccambio) siano entrambi volontariamente accettati e non imposti contro l'altrui volontà.

Riferendosi alla reciprocità, è corretto affermare che qualsiasi sistema di regole che decreti la superiorità di coloro che amministrano il sistema (ad es. permettendo loro di commettere violenze in nome del re o della patria), e che non li vincoli alle stesse regole imposte a tutti, è un sistema fondamentalmente ingiusto e marcio fin nel midollo. E questo è esattamente la base dello statismo e il modo in cui i governanti statali si comportano, assegnando allo stato (vale a dire a sé stessi) il monopolio della violenza.

Freud affermò nel 1915 allo scoppio della Prima Guerra Mondiale: "Il singolo cittadino può convincersi in questa guerra con una punta di orrore di quello che avrebbe solo occasionalmente attraversato i suoi pensieri in tempo di pace - che lo stato ha proibito all'individuo di compiere cattive azioni, non perché desidera abolirle, ma perché vuole esercitarne il monopolio come fa per il sale e i tabacchi." (Sigmund Freud, Pensieri correnti sulla guerra e sulla morte, 1915).

Al giorno d'oggi non c'è Chiesa o religione (che sono, tra l'altro, realtà basate sull'adesione volontaria) che richieda un tipo di obbedienza così unilaterale e si basi su principi così incoerenti, se non lo stato con la sua dogmatica ideologia chiamata statismo. La mancanza di reciprocità che esiste nelle relazioni tra la persona comune e i governanti statali rappresenta il vertice dell'irrazionalità e dell'immoralità. I governanti statali non si sentono obbligati dallo stesso codice morale e dagli stessi doveri (non uccidere, non rubare, non mentire, ecc.) che vincolano tutti noi.

La cosiddetta "ragion di stato" o "l'interesse nazionale" giustificano tutte le malefatte e altro ancora. C'è un filo morale forte che lega razionalità e reciprocità che è totalmente assente nelle leggi e nel comportamento dello stato (cioè, nelle leggi dei potenti di stato e nel loro comportamento). Questa connessione è espressa attraverso affermazioni comuni come: "Do ut des" [Do e ricevo] o precetti morali quali: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te".

Qualsiasi norma per essere accettata dalla ragione deve essere basata sulla reciprocità volontaria, la quale, a sua volta, è il risultato di un convincimento interiore su ciò che è giusto e proprio, unito ad un comportamento coerente con quelle convinzioni. Le fonti dell'ordine sono quindi la reciprocità e la volontarietà:

reciprocità come espressione di giustizia (equità)

volontarietà come espressione di libertà (autonomia)

In passato Proudhon ha equiparato l'anarchia alla libertà e ha dichiarato che: "L'anarchia è la madre, non la figlia dell'ordine." In altre parole, la Libertà è la madre dell'Ordine e la massima eccellenza dal punto di vista sociale era da ricercarsi nell’emergere dell'ordine dalla libertà. In questa visione ci deve essere una buona parte di verità considerando che, dovunque le persone sono libere di esercitare le loro attività e di professare le loro convinzioni, sicurezza e armonia prevalgono. Al contrario, maggiori le leggi e i regolamenti che restringono il libero flusso delle attività e dei movimenti, maggiori sono gli attriti e le ingiustizie, in altre parole, il disordine e l'insicurezza.

Lo statismo è un sistema criminogeno per il semplice fatto che il crimine dà agli apparati dello stato (la polizia, la magistratura) e alle corporazioni legate allo stato (avvocati, notai, commercialisti) il motivo per esistere, sopravvivere, guadagnare, prosperare ed estendere all'infinito la loro esistenza.
Una volta che ci siamo resi conto di ciò siamo già sulla strada della cura e della responsabilità personale, e cioè incamminati verso la prevenzione e risoluzione comunitaria dei conflitti.