Gian Piero de Bellis

Oltre l'uomo a una dimensione

(Settembre 2012)

 


 

Nel 1964 è apparso negli Stati Uniti un libro, che avrebbe avuto una notevole risonanza nel corso di tutto il decennio. Il suo titolo: One Dimensional Man (L'uomo a una dimensione). L'autore era un filosofo tedesco emigrato in America nel 1934, subito dopo l'ascesa al potere dei nazional socialisti. Il suo nome: Herbert Marcuse.
Il testo inizia con una frase che chiarisce subito il tema che sarà successivamente sviluppato, e cioè l'alienazione e l'omogeneizzazione degli individui nella società industriale avanzata:

A confortable, smooth, reasonable, democratic unfreedom prevails in advanced industrial civilization, a token of technical progress.” [Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica illibertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico.]

La tesi di Marcuse, riassunta e semplificata in poche righe, è che la società industriale degli anni '50 e in piena espansione all’inizio degli anni '60, stava producendo un essere umano fatto in serie; in questa società qualsiasi dissenso verso le forme e le strutture promosse dal potere (la democrazia di massa, la grande impresa, il lavoro dipendente, il consumo di beni materiali, ecc.) era visto come una reazione patologica, da curare ed estirpare. Il potere, attraverso l'uso dei mass media, stava in sostanza creando un universo totalitario in cui l'unico essere accettabile era l'uomo ad una dimensione, il cittadino modello, docile lavoratore e soddisfatto consumatore.

La formazione di un uomo ad una dimensione era anche l'obiettivo del potere nei paesi del cosiddetto socialismo reale e sulla base della stessa logica totalitaria. Con riferimento all’Unione Sovietica e ai suoi satelliti Marcuse rileva che per il gruppo dirigente  “la libertà è il modo di vita istituito dal regime comunista, e ogni altra forma trascendente di libertà è detta capitalistica, o revisionista, o appartiene al settarismo di sinistra.”
Quelli erano gli anni in cui in Ungheria emergeva la formula del Comunismo del Goulash che, tra le altre cose, poneva l'accento sul raggiungimento del benessere materiale, e nell'Unione Sovietica Kruscev parlava di sorpassare gli Stati Uniti anche per quanto riguarda la dotazione di beni di consumo.

In sostanza, pur con tutte le differenze, relative soprattutto al livello di sviluppo economico dei due blocchi, vi era una sostanziale somiglianza negli obiettivi che le persone al potere si prefiggevano in entrambi i sistemi economici: il benessere materiale come cloroformio per qualsiasi dissenso interno.
Al tempo stesso, verso l'esterno si ingigantivano i contrasti e le contrapposizioni (spesso del tutto fittizie o create ad arte) e questo serviva per compattare i due greggi (i popoli) sotto i due pastori (cioè sotto i due diversi apparati di potere).

In altre parole, una realtà sociale (lo pseudo-comunismo e lo pseudo-capitalismo) che diventava sempre più simile e in cui si costruiva l'uomo a una dimensione, era presentata come divisa in due forme radicalmente diverse e contrapposte. In entrambe, l'uomo ad una dimensione era manipolato per un appiattimento e una subordinazione acritica all'una o all'altra forma sociale.
Tutto ciò era facilmente accettabile e credibile per moltissime persone anche perché una visione dualistica della realtà costituisce un archetipo vecchio di secoli, presente già nel pensiero dei classici. Per Platone l'animo umano è diviso tra razionalità (aspetto positivo) e passioni (aspetto negativo). Tale dualismo lo si ritrova, accentuato al massimo, nel Manicheismo che raffigurava la realtà come nettamente separata in due aspetti (bene-male) in lotta acerrima tra di loro. Successivamente, con Cartesio viene introdotto nel pensiero moderno il dualismo corpo-mente; e con Marx l'intera storia dell'umanità è raffigurata come una lotta tra due classi di persone, gli sfruttati e gli sfruttatori.

L'utilizzo e l’affermazione di una visione dualistica della realtà sono dovuti a vari motivi quali, ad esempio:

  • la comprensione: l'essere umano riesce a comprendere più facilmente la realtà quando essa viene semplificata in categorie contrapposte: bianco-nero; caldo-freddo, alto-basso, ecc.
  • la comunicazione: una realtà semplificata in due categorie contrapposte è molto più facilmente comunicabile, soprattutto quando si ha a che fare con persone poco preparate a cogliere le sfumature;
  • la decisione: se esistono solo due possibili scelte riguardo ad un problema, la presa di decisioni è possibile con un dispendio esiguo (o minore) di energie.

Per questi motivi di ordine psicologico ed economico, l'utilizzo di categorie semplici e contrapposte ha avuto ed ha tuttora una fortuna notevole nell'ambito, ad esempio, della comunicazione di massa, giornalistica e politica. Anzi si può dire che la comunicazione dei mass media e la politica dei partiti sono entrambe basate sulla costruzione (e assai spesso sulla invenzione) di categorie contrapposte che talvolta non hanno alcun riscontro nella realtà dei fatti ma che servono a generare interesse e seguito (di lettori, di sostenitori).
La conseguenza inevitabile che produce questo schema dualistico che domina l'interpretazione della realtà sociale è che le persone sono collocate (che lo vogliano o no) o finiscono, quasi tutte, per collocarsi (per convinzioni o per pigrizia mentale) sotto una delle due categorie. Rifiutarsi di aderire ad uno dei due campi al giorno d'oggi verrebbe avvertito come un non esistere in quanto essere sociale. In sostanza sarebbe come se, ai tempi della rivalità Coppi-Bartali, una persona che non avesse parteggiato, più o meno apertamente, per l'uno o per l'altro, avrebbe indicato, quasi in maniera implicita, di non essere interessata al ciclismo.

Il problema che sorge però dall'esistenza di una realtà fatta di categorie semplificate contrapposte è la fine pura e semplice del progresso sociale. Chiariamo questo punto.
Nel secolo passato il formidabile progresso tecnologico che ha migliorato incredibilmente la vita di moltissimi abitanti della terra ha fatto credere a molti che la società stessa (cioè gli individui e le loro relazioni sociali) migliorassero di continuo mentre quello che migliorava era solo il loro tenore di vita. Infatti, a parte la tendenza verso una maggiore dotazione di beni materiali sulla base di una tecnologia sempre più produttiva, il secolo XX è stato caratterizzato da una serie di atti organizzati di barbarie (e quindi di regresso morale e sociale) che non ha la pari, per ampiezza e durata, in nessuna fase storica precedente. (Si veda: http://necrometrics.com/20c5m.htm )
Questo è dovuto al fatto che si è verificata una divaricazione enorme tra scienza e tecnologia da una parte e le cosiddette scienze sociali e il vivere civile dall'altra.
Questa divaricazione si è manifestata come:

  • costruzione vs conservazione: la scienza progredisce sulla base di tutto quello che di proficuo e geniale le scoperte del passato hanno da offrire. Nella famosa formulazione attribuita a Newton: “Ho potuto vedere più lontano perché sono sulle spalle di giganti”, riferendosi, con la parola “giganti”, a tutti gli scienziati-ricercatori che lo avevano preceduto. Nel caso invece delle scienze sociali, l’intellettuale è attratto, per vari motivi, da un ideologo del passato, cade o si pone sotto il suo tallone (influsso) e non fa altro che riciclare (conservare, commentare, propagandare) idee vecchie di secoli o di decenni.
  • combinazione vs. contrapposizione: la scienza procede per incroci creativi, superando steccati (ad es. tra fisica e chimica, tra ingegneria e biologia, ecc). Nella felice e dissacrante formulazione di Matt Ridley, le idee hanno un sesso e si accoppiano in maniera libera e creativa. Nel caso del pensiero sociale che è succube delle ideologie politiche, le idee sono poste in clausura e si evita qualsiasi possibile contaminazione chiamata “deviazione” (da cui il peccato orribile di deviazionismo) o contagio con idee della parte “avversa” (di cui spesso si ignora o si stravolge il pensiero).

In sostanza, la società e le scienze sociali sono ingessate in una camicia di forza fatta di contrapposizioni politico-ideologiche che sono funzionali al gruppo attualmente al potere o a quello che gli succederà. Chiaramente si tratta di una contrapposizione fittizia in quanto, una volta raggiunto il potere, le pratiche per la conservazione del potere sono praticamente simili e cioè: indottrinare i cittadini, manipolare l'opinione pubblica e distribuire favori alla propria cricca di parassiti spremendo con tutti i mezzi i produttori.
Eppure questa è solo una parte della storia.
In passato, anche una filosofia come quella cinese, che si basava sul dualismo di ying e yang, sottolineava la complementarietà e prefigurava il superamento di queste categorie attraverso la tensione verso una unificazione continua di una realtà in eterno divenire.
L'economista Frédéric Bastiat ha dato ad una raccolta di suoi scritti il titolo di Harmonies Économiques a indicare la sostanziale concordanza di interessi tra i produttori. Kropotkin in Mutual Aid ha posto l'accento sulla cooperazione come fattore di evoluzione. Lo stesso Marx, che pure appare come il campione dei contrasti, è arrivato a concepire e auspicare una società senza lotte di classe in cui “il libero sviluppo di ognuno è condizione del libero sviluppo di tutti.” (Manifesto, 1848)

Ma tutto ciò si è rivelato pura utopia perché il potere, qualsiasi potere, si forma e si mantiene attraverso divisioni e contrapposizioni. Per questo, l'essere umano manipolato e culturalmente appiattito, in sostanza l'uomo a una dimensione, è il prodotto necessario per far perpetuare il sistema di dominio.

Allora, come se ne viene fuori da questa situazione?
Io penso che se ne possa venire fuori solo individualmente e cioè attraverso l'impegno personale di ognuno volto a rendersi conto di quanto sia miserabile essere un uomo ad una dimensione, occupato a grufolare nel suo porcile, limitato nel suo grugnire nazionale, e che guarda di malocchio i maiali del porcile accanto. Molto più interessante e attraente invece dovrebbe apparire, a ciascuno di noi, la persona che padroneggia o mastica alcune lingue (poliglotta), che è stata a contatto e si trova a suo agio con varie espressioni culturali (policulturale), che esprime capacità e abilità in campi differenti (polivalente). E questa potrebbe essere la realtà corrente, per tutti, se non ci fosse lo stato nazionale che manipola, soffoca, sfrutta e, così facendo, genera divisioni e contrapposizioni.

Per questo, parlare nel secolo XXI di identità culturale nazionale non ha molto senso. La cultura è l'evoluzione e l'insieme, multiplo e dinamico, delle esperienze dell'individuo, condivise liberamente e volontariamente con altri individui. Nell’era di Internet le persone alfabetizzate stanno tutte diventando sempre più multiculturali, cosmopolite, dei mestizi, frutto di incroci multipli. E quanto più lo diventano, tanto più sono preparate a farla finita, giorno dopo giorno, con l'alienazione e la sottomissione e ad accettare il nuovo, il diverso, il futuro. E soprattutto sono pronte a rifiutare le dicotomie programmate e imposte dal potere. Come ha scritto Theodor Adorno, “la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.” (Minima Moralia, 1951)

Blaise Pascal ha espresso in maniera estremamente chiara la voglia di complessità e di varietà che dovrebbe essere propria di ognuno di noi quando ha scritto: “Una persona non mostra la sua grandezza fermandosi ad un estremo, ma toccando al tempo stesso entrambi gli estremi, e occupando tutto lo spazio intermedio.” (Pensées, 1669)

 

 


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