Gian Piero de Bellis
Finché c'è odio c'è speranza (per lo stato)
(Settembre 2013)
In un saggio a cui stava lavorando nei mesi precedenti la sua morte (1918),
lo scrittore e critico sociale Randolph Bourne fa una affermazione, riguardo
all'entità “stato”, che ribalta completamente il pensiero convenzionale,
da Hobbes ai giorni nostri.
Infatti, mentre Hobbes vedeva nello stato lo strumento per far cessare “bellum
omnium contra omnes”, Randolph Bourne, sulla base dell'esperienza della
prima guerra mondiale appena conclusa, individua nello stato l'entità scatenante
le guerre in quanto “la guerra è la salute dello stato.” (“war
is the health of the state.”)
Per Bourne infatti la guerra “mette in movimento attraverso la società quelle forze irresistibili che spingono all'uniformità, alla cooperazione passionale con il governo tendente a forzare all'obbedienza i gruppi minoritari e coloro a cui manca uno spiccato senso del gregge.”
All'inizio della Grande Guerra, Sigmund Freud aveva anche lui smascherato la tesi hobbesiana dello stato come strumento per mettere sotto freno la violenza istintiva degli esseri umani. Scriveva infatti Freud che “il singolo cittadino può rendersi conto con orrore, nel corso di questa guerra, di un fatto su cui solo occasionalmente rifletterebbe in tempo di pace, e che cioè lo stato ha vietato all'individuo di compiere azioni violente non perché vuole abolire il male ma perché vuole esercitarne il monopolio, come fa per il sale e i tabacchi. Uno stato in guerra si permette tutte le nefandezze, tutti gli atti di inaudita violenza, che squalificherebbero l'individuo in quanto essere umano.” (Thoughts for the Times on War and Death, 1915)
E a metà del secolo scorso (1954), lo storico inglese A.J. P Taylor ribadiva anche lui il superamento della tesi fallace di Hobbes nella maniera più chiara possibile quando, all'inizio della sua opera The Struggle for Mastery in Europe 1848-1918 scriveva: “Nello stato di natura immaginato da Hobbes, la violenza era la sola legge, e la vita era 'ripugnante, brutale e breve'. Sebbene gli individui non abbiano mai sperimentato questo stato di natura, le Grandi Potenze europee sono sempre vissute in questo modo.”
Un altro storico, Charles Tilly, ha elaborato in un suo testo abbastanza recente (Coercion, Capital, and European States, 1990) e in altri scritti (War making and state making as organized crime, 1985) la tesi che “gli stati hanno fatto la guerra e la guerra ha generato gli stati” (“war made states, and viceversa”).
Una delle rappresentazioni più geniali di questa esigenza statale di fare la guerra per continuare a esistere la si trova nel romanzo di George Orwell 1984. L'aspetto interessante messo in luce da Orwell è il fatto che, per spingere le persone alla guerra, bisogna suscitare in esse l'odio per un nemico più o meno inventato. Per questo, nella società Orwelliana era stata istituita la settimana dell'odio e promosso l'amore per la guerra, presentata come la vera Pace. Uno degli assiomi del Ministero della Verità era infatti : La Guerra è Pace (War is Peace).
Senza odio non è possibile mobilitare le persone per la guerra. Il nemico
può cambiare, ma l'odio deve rimanere. Formidabile è il modo in cui Orwell
descrive la dinamica dell'odio permanente e del nemico mutevole (“l'odio
continuava esattamente come prima, ma l'obiettivo da combattere era cambiato”
- 1984). Scrive infatti Orwell:
“Il sesto giorno della Settimana dell'Odio, dopo le processioni, i discorsi,
le grida, i canti, le bandiere, i cartelloni, i film, …. al momento in
cui l'orgasmo stava raggiungendo il suo apice e l'odio generale contro l'Eurasia
ribolliva a un tale grado di delirio che la folla avrebbe potuto mettere
le mani sui duemila criminali di guerra eurasiani che avrebbero dovuto essere
impiccati pubblicamente l'ultimo giorno della manifestazione … proprio allora
era stato annunciato che, dopo tutto, l'Oceania non era in guerra con l'Eurasia
ma con l'Estasia. L'Eurasia era infatti una alleata.” (1984)
Nel 1935 un generale americano (Smedley D. Butler) che di guerra se ne intendeva essendo stato al tempo della sua morte, il più decorato marine della storia americana, scrisse un pamphlet dal titolo rivelatore: La guerra è un Racket, in cui gettava piena luce sulle politiche militariste di banchieri e affaristi.
E nel 1967, un rapporto, uscito anonimo (Rapporto da Iron Mountain sulla possibilità e desiderabilità della pace) metteva in luce le funzioni psicologiche, sociali ed economiche della guerra.
Eppure, nonostante tutte queste denunce precise e devastanti, poco o nulla
è davvero cambiato nel comportamento violento del potere statale che continua
a coprire le sue nefandezze con un linguaggio buono solo per gli ingenui
inveterati.
Citiamo ancora George Orwell:
“Villaggi privi di qualsiasi difesa sono bombardati dall'aviazione militare,
gli abitanti dispersi nelle campagne, il bestiame ucciso, le abitazioni
in legno bruciate con pallottole incendiarie: questa è chiamata pacificazione.
Milioni di contadini sono espropriati delle loro terre ed espulsi, potendo
recuperare solo alcune masserizie: questo si chiama trasferimento della
popolazione o rettificazione delle frontiere. Le persone sono imprigionate
per anni senza processo o uccise con una pallottola alla nuca o mandate
a morire in qualche campo di concentramento: questo si chiama eliminazione
di elementi inaffidabili.” (Politics
and the English Language, 1946)
E, uno potrebbe aggiungere, lo stato semina il terrore uccidendo civili
innocenti e questo lo chiama lotta al terrorismo.
Tutto ciò è reso possibile dal fatto che il potere statale riesce ancora
a illudere la maggioranza della popolazione che solo lo stato può garantire
la sicurezza delle persone.
E sulle ali di questa colossale illusione, i gruppi affaristici legati allo
stato (il complesso militare-industriale) e i ceti parassitari dipendenti
da esso, continuano a vegetare e a prosperare.
Cosa bisognerebbe fare allora per mettere in crisi questa illusione e fuoriuscire finalmente dallo stato?
Molto probabilmente occorre estinguere un aspetto che mette le persone
in condizioni di giustificare (se non addirittura volere) la guerra e di
giustificare (se non addirittura esaltare) lo stato che fa la guerra.
Questo aspetto è l'odio.
Infatti, finché c'è odio c'è guerra e finché c'è
guerra c'è speranza per lo stato e la sua sopravvivenza.
L'organizzazione sociale moderna, basata sui partiti (formazioni di parte)
e sulle contrapposizioni di parte (destra-sinistra), è geneticamente portata
a produrre se non odio almeno una profonda continua avversione per una più
o meno inventata controparte. Inventata in quanto, assai spesso, le
due parti "avverse" hanno atteggiamenti e comportamenti estremamente simili
tra di loro.
Anche una concezione come il marxismo, che aveva come obiettivo finale l'estinzione
dello stato dei padroni, è poi diventata un puntello per la formazione
di stati padronali dittatoriali proprio perché uno dei suoi cardini è la
contrapposizione (l'odio di classe) che è un aspetto essenziale dell'armamentario
dello stato.
Purtroppo, fino a quando molti di noi vedranno nelle vicende storiche solo una serie di nemici da odiare e da abbattere (socialisti, comunisti, liberali, capitalisti, fascisti, anarchici, islamici, ebrei, cattolici, protestanti, ecc. ecc.), il potere, che si chiami stato o altro, sarà componente essenziale della vita di tutti, come un Grande Fratello che, con la scusa di proteggere tutti, tutti deve controllare.
La fuoriuscita dallo stato necessita quindi l'elaborazione di una teoria e la attuazione di una pratica in cui l'odio non ha posto, il nemico non esiste e nessuno pensa che ci siano soluzioni miracolose applicabili a tutti. Ci possono essere aspetti della realtà che non piacciono e persone intolleranti che si vogliono evitare o ridurre alla ragione; ci possono essere valori più o meno universali che dovrebbero essere salvaguardati e promossi. Ma dobbiamo renderci conto che non ci sono né gruppi di nemici da combattere (gli stranieri, gli ebrei, gli islamici, gli americani, i russi, ecc.), né ricette mirabolanti da prescrivere (il capitalismo, il socialismo, l'anarchismo) valide per tutti, dappertutto.
Infatti, nessuna fuoriuscita dallo stato è possibile per coloro che vedono nemici dappertutto perché questo atteggiamento mentale è uno dei pilastri culturali dello statismo e quindi ne favorisce la sopravvivenza.
Forse, solo riducendo le nostre attese e i nostri obiettivi a misura umana, senza grandi concezioni ideologiche salvifiche, saremo davvero capaci di realizzare nelle nostre vite il grande progetto di diventare davvero semplici esseri umani.[Home] [Top] [Sussurri & Grida]