Gian Piero de Bellis

Come (non) salvare lo stato e (non) vivere bastonati e scontenti

(Settembre 2011)

 


 

Gli stati, molti stati, stanno attraversando una crisi economica (buchi di bilancio), culturale (mancanza di idee) e morale (caduta verticale di autorevolezza) di proporzioni gigantesche. I governanti annaspano visibilmente nel vuoto delle loro proposte e nella melma crescente dei disastri da essi provocati. Una via d'uscita non sembra apparire all'orizzonte tranne la fine dello stato e la liberazione delle energie degli individui così a lungo manipolati, soffocati, sfruttati.

La constatazione di questa situazione ha portato un certo numero di persone a credere che il momento della resa dei conti per lo stato sia finalmente arrivato. Si aspetta a breve il crollo dello stato (identificato con il socialismo) sommerso dai debiti e dal peso dei suoi misfatti.

In passato, aspettative di crollo inevitabile e imminente erano coltivate da movimenti socialisti di stampo più o meno marxista che vedevano nelle crisi economiche ricorrenti il segno della instabilità del capitalismo e della necessità di una fuoriuscita da esso se si voleva promuovere lo sviluppo e il benessere per tutti. Se non che, superato il momento difficile, il processo di crescita economica riprendeva e tutto era rimandato alla prossima crisi che, si proclamava, sarebbe stata l'ultima e la definitiva.

La somiglianza tra queste due aspettative, quella dei simpatizzanti del socialismo per il crollo del capitalismo e quella attuale dei simpatizzanti del capitalismo per la fine del socialismo mi induce a fare una serie di considerazioni al riguardo.

La crisi del capitalismo. Le crisi economiche del passato, tra cui la crisi epocale del '29, non erano crisi del capitalismo. Il capitalismo era già morto con le avventure imperialistiche degli stati europei verso la fine del 19° secolo ed era stato poi definitivamente sepolto nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Per cui attendersi la fine di qualcosa di inesistente è stato un errore madornale che ha condannato il socialismo ad una esistenza miserevole e ad essere poi rimpiazzato, nella prima metà del 20° secolo, da movimenti e concezioni molto meno ingenui quali il fascismo, il nazionalsocialismo e il collettivismo russo. Con riferimento alla grande depressione degli anni ’30, quando storici ed economisti sostengono che Keynes ha salvato il capitalismo, essi commettono lo stesso errore non volendosi rendere conto che non si poteva salvare quello che non esisteva. Ciò che è stato veramente salvato, allora, è lo stato e con esso lo statismo, cioè l'ideologia statale a cui Keynes ha dato autorevolezza e vigore. Dopo Keynes e il New Deal, lo statismo è divenuta la premessa ideologica a cui fanno riferimento tutte le formazioni politiche, qualunque sia la loro denominazione.

La crisi del socialismo. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli stati hanno dato vita alla Guerra Fredda che l'economista Joseph Schumpeter ha qualificato come “una guerra tra un paese cosiddetto socialista ed un paese cosiddetto capitalista." (Capitalism Socialism and Democracy, 1947). Il far credere all'esistenza di due sistemi completamente opposti di organizzazione economica e sociale, mentre si trattava dello stesso sistema (lo statismo) in due fasi diverse del suo sviluppo (una più avanzata e una più arretrata), ha dato nuovo slancio e vigore allo statismo occidentale e ha fatto sorgere una corrente di pensiero, i neoconservatori, che non solo auspicavano ma anche operavano per un crollo del “socialismo”. Chiaramente anche in questo caso quello che essi si prefiggevano aveva poco senso in quanto volevano eliminare qualcosa che non esisteva da un pezzo. Il socialismo era già morto con la nascita della socialdemocrazia tedesca nel 1875 al congresso di Gotha e la sua entusiastica adesione alla ideologia statista. Poi, con l'approvazione ai crediti di guerra da parte del gruppo parlamentare socialdemocratico (1914) su di esso era stata posta la definitiva pietra tombale.

In sostanza pro-capitalisti e pro-socialisti si sono combattuti per decenni senza rendersi conto che stavano battagliando per la sopravvivenza di fantasmi e che l'unica vera realtà, viva e vegeta, era rappresentata dallo stato e dalla sua ideologia, lo statismo. L'ultimo fraintendimento in ordine di tempo si è avuto con il crollo dell'Unione Sovietica e la caduta del muro di Berlino, quando i neoconservatori pro-capitalisti hanno creduto e hanno sbandierato il fatto che il loro modello di capitalismo della libera impresa stava trionfando in tutto il mondo. In realtà quello che stava trionfando era lo statismo occidentale che aveva adesso il campo libero per affinare meglio le sue armi di controllo, manipolazione e direzione delle popolazioni ad esso soggette (i sudditi statali) liberandosi di compiti inutili che rappresentavano una zavorra per il dispiegamento del suo potere. A tal fine sono apparse sulla scena due figure che hanno operato il miracolo di salvare una ideologia decotta come lo statismo dando ad essa una nuova boccata di ossigeno.

Infatti negli anni settanta (1970) gli stati occidentali stavano attraversando una crisi notevole, con gli Usa impantanati nella guerra del Vietnam, lo choc petrolifero che faceva saltare i bilanci delle imprese e delle famiglie, l'inflazione crescente, il profondo malcontento delle masse dei lavoratori e gli stati che, come al solito, sperperavano allegramente le risorse di tutti. La risposta a tutto ciò si ebbe alla fine dello stesso decennio quando nel 1979 una certa Margareth Hilda Thatcher fu eletta primo ministro del Regno Unito e nel 1980 un certo Ronald Wilson Reagan divenne presidente degli Stati Uniti d'America. Queste due figure sono state poi celebrate da giornalisti e commentatori come coloro che hanno sconfitto il socialismo e che hanno rimesso in auge il capitalismo. Quello che è invece successo è che la Thatcher e Reagan sono riusciti a salvare lo stato, modernizzandolo e riportandolo ai suoi compiti essenziali e strategici (centralizzazione e controllo) abbandonando settori di gestione burocratica (ad es. le imprese nazionalizzate nel Regno Unito) e introducendo la concorrenza tra imprese dello stesso settore (ad es. società di telefonia). Così facendo essi hanno tamponato la crisi finanziaria dello stato, lasciando che i produttori producessero ricchezza e riservando allo stato l’unico compito che esso sa assolvere a perfezione e cioè quello di appropriarsi di quote più o meno grandi di ricchezza prodotta. Con la loro potente retorica la Thatcher e Reagan hanno dato nuova credibilità allo stato presentando con successo l'idea di uno stato minimo proprio nel momento in cui lo stato ripartiva nel controllare la vita e le risorse di tutti. Reagan ad esempio “ha controfirmato provvedimenti che hanno accresciuto le tasse federali durante tutti gli anni della sua presidenza tranne che il primo e l’ultimo anno.” (Will Bunch, Five Myths about Ronald Reagan's legacy, 2011).

E giungiamo ai giorni nostri. La crisi economica, culturale e morale degli anni '70 si ripresenta adesso, amplificata, con alcune costanti e almeno una variante. Esaminiamo brevemente ciò con particolare riferimento alla situazione italiana:

Costanti. Le costanti sono che i governanti statali, a corto di idee, devono trovare al più presto figure (una nuova Thatcher o un nuovo Reagan) che, pur attaccando verbalmente lo stato, ne saranno i salvatori almeno nel breve-medio periodo. È molto probabile che tali figure saranno reclutate tra coloro che stanno attualmente combattendo lo stato con tutte le loro forze (radicali, anarchici, ultralibertari, rivoluzionari arrabbiati, super-indignati, ecc.). Il salvataggio dello stato da parte di una figura proveniente da quelle fila richiede in ogni caso la messa in atto della solita collaudata strategia:

- Individuare falsi bersagli. Occorre innanzitutto spostare la critica e le recriminazioni dallo stato ad altri bersagli. Quali sono i possibili bersagli? La Chiesa in primo luogo, che occorre rappresentare come un potere straniero, malefico e tentacolare, dotato di ricchezze enormi e che gode di privilegi inaccettabili in una situazione in cui il popolo italiano patisce e soffre. E poi ci sono le Cooperative rosse, le sanguinarie che non pagano le tasse. E poi, perché no, anche le Banche a cominciare dalla Banca d'Italia che, si sostiene, succhia il sangue degli italiani attraverso il meccanismo del signoraggio. E infine, come dimenticare gli extra-comunitari che "tolgono il lavoro" agli italiani e "utilizzano a sbafo" tutti i servizi. Una imposta una–tantum per tutti loro non sarebbe forse una soluzione appropriata per riprendersi tutto quello che gli è stato concesso? (Che tutto ciò sia vero o falso non importa affatto, basta che faccia cassa).

- Soddisfare bassi istinti. La critica e l'attacco a falsi bersagli è possibile solo in quanto le facoltà razionali dell'individuo e la sua capacità di selezionare e di vagliare criticamente l'informazione sono attualmente quasi inesistenti nella massa scolarizzata dallo stato. Per cui importante è continuare a controllare i mezzi di comunicazione e di formazione e far passare, attraverso di essi, messaggi che stimolino i più bassi istinti presentati come i sentimenti più nobili: quindi la rabbia contro alcune persone e organizzazioni non statali diviene sacrosanta indignazione, l'invidia diventa richiesta legittima di uguaglianza (tutti ugualmente schiavi e tutti ugualmente tartassati), la delazione, atto civile e meritorio; lo sciovinismo e il razzismo, manifestazioni di amor di patria e amor di società. E via di questo passo.

- Creare belle illusioni. Le illusioni da creare sono quelle che il potere dello stato, rinnovato nel pensiero e nell'azione, è finalmente capace di risolvere i problemi di tutti. La capacità di illusione è grandissima nella maggior parte delle persone, se solo si sanno utilizzare le parole appropriate al momento opportuno. In Italia per venti anni Berlusconi ha illuso la maggioranza degli italiani nel nome di una rivoluzione liberale e Bossi nel nome di un cambiamento in senso federale. Quindi basta poco per prendere in giro gli italiani. Un nuovo Reagan saprà utilizzare, ad esempio, un vocabolario stile Rothbard in cui la parola proprietà privata sarà messa sapientemente in luce. A quel punto i governanti statali si venderanno, letteralmente, mari e monti (che a loro non appartengono) per ripianare il buco dello stato (che essi hanno generato), ricevendo il plauso di molti che vedranno in ciò un ritirarsi dello stato. Purtroppo, come il crollo dell'Unione Sovietica non ha significato in Russia la scomparsa delle mafie statali e parastatali, così è bene non farsi troppe illusioni sulla fine delle cosche e sulla emancipazione dei servi allorché, nel loro vocabolario, i padroni di stato incominciassero a usare in maniera elogiativa l’espressione “proprietà privata”.

In sostanza, coloro che danno lo stato già per spacciato non si rendono conto che:

1. Lo stato ha ancora parecchie carte da giocare e quindi le notizie sulla sua morte imminente sono grandemente esagerate. Spalmando i debiti su tutti in tutta Europa (emissione di eurobonds), spremendo categorie e istituzioni a cui è rimasto ancora qualcosa da espropriare, vendendosi la Torre di Pisa e il Colosseo (oltre a tutto il resto), lo stato ha ancora un margine di manovra da non sottovalutare. Dopo di che, raschiato il fondo del barile, allora sarà, probabilmente, veramente la fine.

2. Uno stato, comunque, non si estingue definitivamente se altre realtà organizzative non sono pronte, con i loro progetti alternativi già avviati, ad occuparne lo spazio. E qui le note sono piuttosto dolenti. Non c'è in Italia e nel resto d'Europa, nessun movimento o rete di individui ben organizzati e di vasta portata che abbia messo in cantiere progetti seri per una realtà post-statale e post-territoriale (almeno per ora).

Variante. Detto ciò, bisogna però riconoscere che c'è una variante importante che sconvolge tutto e fa sì che non sembri possibile una ripetizione dello scenario degli anni '70 quando lo stato a sovranità monopolistica territoriale riuscì, attraverso la Thatcher e Reagan, a darsi altri 30-40 anni di vita. E la variante è costituita da Internet e dalla possibilità, per molti individui che elaborano nuove idee, di farle circolare in maniera istantanea e a livello globale. Questo fa sì che i tempi di comunicazione siano notevolmente raccorciati e le possibilità di contagio di idee, micidiali per la sopravvivenza dello stato, notevolmente rafforzate. Ciò mi rende abbastanza fiducioso sul fatto che lo stato finirà tra i ferrivecchi della storia invece di trascinare tutti in una decadenza senza fine. Ma perché questo accada realmente, l'impegno, lo spirito critico, l’assenza di preconcetti, la progettualità e l'energia di tutti coloro che desiderano la liberazione sono, non solo necessari, ma assolutamente indispensabili.

 

 


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