Gian Piero de Bellis

Il liberalismo illiberale

(Luglio 2017)

 


 

La differenza tra scienza e ideologia può essere fatta risalire al fatto che la prima si basa su un processo continuo di sperimentazione che accerti la veridicità delle affermazioni e ne affini la funzionalità pratico-cognitiva; la seconda invece mira innanzitutto al successo attraverso la sua diffusione e accettazione da parte di un numero crescente di persone; quando questo avviene gli ideologi e i loro seguaci evitano di mettersi in discussione per non compromettere la popolarità dell’ideologia stessa anche a costo di impedirne lo sviluppo e di comprometterne la futura funzionalità pratica.

L’ideologia liberale non fa eccezione. Anzi si può dire che, fin dall’inizio, essa ha sofferto di limitazioni e contraddizioni profonde che una applicazione del metodo sperimentale avrebbe potuto sanare. Invece questo non è avvenuto. Esaminiamo allora queste contraddizioni che hanno reso il liberalismo profondamente illiberale.

1. Per il monopolio politico
Uno dei pilastri del pensiero liberale è l’avversione per i monopoli. La nuova classe borghese, imprenditoriale e commerciale, per poter emergere pienamente aveva bisogno di libertà d’azione e aveva quindi necessità di fare piazza pulita di tutti i vincoli feudali e privilegi aristocratici. In Inghilterra i Puritani condussero la loro lotta nel Long Parliament contro i favoritismi economici, concessi dal re ai suoi sostenitori e cortigiani, al grido di “abbasso i monopoli”. Il massimo successo delle tendenze liberali fu rappresentato, ai suoi tempi, dalla abolizione delle Corn Laws che imponevano restrizioni e tasse all’importazione del grano (1846). La lodevole opposizione ai monopoli economici non deve però far passare sotto silenzio il fatto che i liberali sono stati i promotori del massimo dei monopoli, il monopolio politico dello stato nazionale al quale hanno affidato, in esclusiva, il potere di provvedere alla sicurezza interna ed esterna e di amministrare la giustizia. Così facendo, essi non si sono resi conto, o non hanno voluto rendersi conto, che creavano una entità la quale, sulla base del suo potere esclusivo di polizia e di sanzione giuridica, avrebbe allargato a dismisura la sua sfera di intervento. A nulla sono serviti i richiami di alcuni liberali (Gustave de Molinari, Paul-Emile de Puydt) di estendere alla sfera politica il rifiuto dei monopoli e di affidare i servizi di sicurezza e di giustizia alle scelte libere e volontarie degli individui. In una famosa seduta della Società di Economia di Parigi (Ottobre 1848), i liberali convenuti per discutere la proposta di Gustave de Molinari in tema di sicurezza (concorrenza tra diverse agenzie) riaffermarono la necessità assoluta del monopolio statale e rigettarono come assurda una idea che era invece del tutto coerente con i principi base del liberalismo. In epoca successiva, un liberale del calibro di von Mises, ha ribadito in termini perentori il monopolio politico dello stato affermando: “Per il liberale, lo stato è una assoluta necessità dal momento che i compiti più importanti spettano a lui: la protezione non solo della proprietà privata, ma anche della pace, in quanto in assenza di pace tutti i benefici della proprietà privata non possono essere colti.” (Liberalism, 1927)

2. Per il potere economico
Il pensiero liberale si è sviluppato in opposizione all’assolutismo regio. Questo è uno dei grandi meriti che va riconosciuto ai liberali classici. Uno di loro, Lord Acton, in una lettera del 5 Aprile 1887 al suo amico Mandell Creighton, ha scritto una frase che è diventata una pietra miliare nel bagaglio culturale dei liberali, e non solo: "Power tends to corrupt and absolute power corrupts absolutely.” (Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in maniera assoluta). Per questo i liberali hanno sviluppato l’idea della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) che dovrebbero controbilanciarsi tra di loro, evitando arbitri e soprusi. Ciò non sempre è avvenuto ma, almeno le intenzioni erano giuste e lodevoli; e se si fosse continuato sulla strada della distribuzione e diffusione dei poteri (sussidiarietà fino al livello degli individui) i liberali avrebbero contrastato in maniera radicale quanto paventato da Lord Acton. Ma ciò non è avvenuto. E c'è di più. Dopo Adam Smith non molto è stato detto e fatto dai liberali per quanto riguarda la concentrazione del potere economico, tranne che un affidarsi, in maniera miracolistica, al libero gioco della concorrenza. La qual cosa è plausibile e accettabile se non fosse per il fatto che coloro che dovrebbero promuoverla, e cioè i capitalisti e i fautori del capitalismo, che i liberali tengono in alta stima, sono stati, assai spesso, i primi a volersene sottrarre quando era in gioco la loro sopravvivenza economica. Infatti è avvenuto che, assai presto, il potere economico dei grandi capitalisti è entrato in simbiosi con il potere politico dello stato e si è, con esso, inestricabilmente legato. Ignorare ciò, come è stato fatto da molti liberali, e costruire una immaginaria contrapposizione tra stato (socialista) e mercato (capitalista), serve solo a gettare fumo negli occhi e a nascondere la realtà, che è quella di un potere economico che più si amplia, più si corrompe, proprio come sostenuto dal liberale Lord Acton. Basti solo pensare ai grandi gruppi bancari e all’immenso castello di carta straccia gestito dal capitalismo finanziario e che è strumento di corruttela nelle mani di mafie economiche e politiche di ogni tipo, in combutta tra di loro.

3. Per la disuguaglianza sociale
Il pensiero liberale, mano a mano che si imponeva come ideologia dominante, prima di essere rimpiazzato dall’ideologia falsamente egualitaria del socialismo, si è curato poco o nulla delle disuguaglianze sociali. I liberali non si sono mai posti la domanda se le disuguaglianze fossero anche il prodotto di una assenza di libertà e di una persistenza di privilegi. Essi hanno accettato le disuguaglianze come un portato naturale, anche quando era il frutto di collusioni tra potere politico e potere economico. La soluzione da loro prospettata è stata solo nei termini di un assistenzialismo personale dall’alto, lodevole sotto certi aspetti ma non adeguato e coerente con principi che avrebbero richiesto un atteggiamento e un comportamento ben più radicali. L’assistenzialismo personale è stato poi rimpiazzato, in Inghilterra, dall’assistenzialismo statale e cioè dal welfare state del liberale Lloyd George prima e del liberale Lord Beveridge poi. In tal modo, tutte le iniziative autonome e volontaristiche di mutuo soccorso sorte dal basso sono state soppiantate. Ciò ha, in un certo qual modo, perpetuato le disuguaglianze di potere tra il padronato politico ed economico ed una massa di assistiti continuamente dipendenti per la loro sopravvivenza dall’elargizione di sussidi.
Anche ora i liberali continuano a vedere le disuguaglianze come un segno di successo del sistema capitalistico della libera impresa, contro l’odiato egalitarismo. Essi non fanno alcuna distinzione tra l’egalitarismo come omogeneizzazione e massificazione e l’uguaglianza (di opportunità e di trattamento) intesa come equità e assenza di privilegi (piena libertà di attività e di movimento per tutti). Anzi, essi promuovono la prima (massificazione) presentandola come sana integrazione nella società nazionale e rigettano la seconda (uguaglianza di opportunità e di trattamento) perché non risponde affatto ai loro interessi. Interessi che di liberale, nel senso originario della parola (promozione della libertà) non hanno più nulla a che fare.
Una vera libertà di azione e di movimento porterebbe le persone a promuovere meglio e in maniera più oculata il loro interesse di lungo periodo e questo genererebbe un effetto di equa diffusione dei benefici. Per cui sparirebbero disequilibri di potere politico e sacche di miseria economica, come è naturale che sia se davvero si lasciasse libero corso alle scelte degli individui e delle loro comunità volontarie.

In sostanza, qualsiasi ideologia che ha successo e raccoglie frutti in termini di potere politico ed economico, finisce, quasi inesorabilmente, per trasformarsi in una concezione rigida al servizio dei padroni. Il liberalismo non fa eccezione. Per questo, al di là di salvarne il messaggio originale di anelito e di pratica della libertà, non molto d’altro si può recuperare. Insistere in un atteggiamento celebrativo e nostalgico dei bei tempi andati (ad es. lo stato liberale, lo stato minimo) equivale ad assumere droghe soporifiche o a indossare occhiali deformanti di un bel colore rosa che non contribuiscono affatto alla costruzione del futuro. E questo sarebbe qualcosa di estremamente negativo per sé e per le comunità volontarie a cui ci si potrebbe associare una volta che lo stato, qualunque sia l’ideologia sulla cui base esso ancora sopravvive, sarà un relitto del passato.

 


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