Gian Piero de Bellis

La fine del capitalismo

(Agosto 2013)

 


 

Nell’estate del 1989 comparve sulla rivista The National Interest un articolo, dal titolo The End of History?, che attrasse subito notevole interesse. In esso l’autore, Francis Fukuyama, avanzava l’ipotesi che, con il crollo del comunismo, si era giunti alla fine dei grandi conflitti ideologici e all’accettazione, pressoché universale, del liberalismo politico ed economico. Si produceva in tal modo una situazione che egli definiva, con  una espressione giornalisticamente accattivante, di fine della storia. Eventi storici si sarebbero verificati, come sempre, ma la storia intesa come scontri ideologici e fasi di passaggio da una visione del mondo ad un’altra (feudalesimo, capitalismo, comunismo) aveva raggiunto il suo compimento in quanto, con il dominio del liberalismo politico ed economico, si era giunti ad un tipo di organizzazione che condensava in sé tutto ciò che era umanamente conseguibile dal punto di vista politico ed economico. Nelle parole dell’autore, nella prefazione al libro (The End of History and the Last Man, 1992) che approfondisce il tema : “the ideal of liberal democracy could not be improved on.” [“l’ideale della democrazia liberale non era qualcosa passibile di ulteriori miglioramenti.”]

Molti, in occidente, hanno plaudito a quell’articolo, interpretandolo come la sanzione intellettuale del dominio politico della loro parte rispetto al resto del mondo e del  successo economico del capitalismo rispetto al socialismo. In sostanza, la fine della storia intesa come il trionfo del liberalismo e del capitalismo occidentale (la società liberal-democratica).

La tesi, per certi versi attraente in quanto ipotizza un mondo unificato da certi valori universali (ad es. il principio di libertà economica e di uguaglianza giuridica) è però criticabile perché offre una visione ancora del tutto ancorata alle ideologie e alle forme di organizzazione sociale dei secoli passati (il liberalismo, il capitalismo) come se l'essere umano fosse incapace di inventare e progredire verso qualcosa di nuovo. Infatti, pensare che il liberalismo e il capitalismo siano la realizzazione piena e conclusiva del valore eterno della libertà, non appare molto fondato.

Inoltre, con la fine dello stallo rappresentato dalla contrapposizione (in buona parte fittizia) tra capitalismo e socialismo, quello che sembra realizzarsi non è tanto la fine della storia e il trionfo del capitalismo quanto la fine del capitalismo e il trionfo della storia non più bloccata, nella sua dinamica, da ideologie politiche ed economiche superate.
Vediamo allora quali sono gli elementi a sostegno della tesi della fine del capitalismo.

In una conferenza tenuta all’Università americana Johns Hopkins nel 1967 lo storico Fernand Braudel ha affermato che “Il termine capitalismo, nel suo uso diffuso, data dall’inizio del XX secolo.” (La dynamique du capitalisme, 1985). E ha individuato la fonte della sua popolarizzazione nella apparizione, nel 1902, dell’opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus.

Quando compare il testo di Sombart, il Capitalismo Moderno è in piena trasformazione. Da capitalismo industriale (tipico dell'ottocento) sta diventando capitalismo finanziario, e in questo modo, sta perdendo il suo carattere tecnologicamente rivoluzionario ed economicamente progressista. Si potrebbe quindi affermare che, paradossalmente, quando il capitalismo era vivo e vegeto (XIX secolo) nessuno o quasi ha utilizzato quel termine per caratterizzare l'epoca in cui viveva; invece, quando il capitalismo ha iniziato a degenerare e si è poi estinto (XX secolo) tutti hanno fatto a gara nel qualificare con quel termine, spesso negativamente, la realtà sociale del loro tempo. Ma, si sa, i produttori di parole (gli intellettuali) hanno talvolta un secolo di ritardo rispetto ai produttori di fatti (gli imprenditori, gli inventori e i lavoratori).

Detto ciò, è importante capire a cosa alludono molti studiosi quando utilizzano il termine capitalismo. E per questo occorre fare uso di due espressioni che risultano più appropriate. Esse sono:

  1. il modo di produzione capitalistico
  2. il modo di finanziamento capitalistico.   

Il modo di produzione capitalistico. Questa è l’espressione corrente nel XIX secolo, usata in particolare da Marx. Con “il modo di produzione capitalistico” si faceva riferimento alla parcellizzazione del lavoro (vedi la fabbrica di spilli descritta da Adam Smith), alla rigida divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e alla estesa meccanizzazione che riduceva l’operaio ad essere una appendice delle macchine. È contro questa mutilazione dell’essere umano che Adam Smith, Robert Owen, Karl Marx, e poi tutta una serie di scrittori e attivisti sociali, hanno levato la loro voce.
I risultati si vedranno ben presto in Europa con la riduzione della giornata lavorativa e poi, successivamente, negli Stati Uniti, con l’introduzione di tutta una serie di miglioramenti all’organizzazione lavorativa. Questi erano necessari per porre rimedio a  una situazione che, generando insoddisfazione presso gli operai, incideva negativamente sulla produttività del lavoro.
I cambiamenti apportati dall’introduzione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro (le “relazioni umane” e le “risorse umane”) hanno trasformato profondamente l’attività lavorativa. Con l’introduzione poi dell’automazione, a partire dalla seconda metà del XX secolo, il modo di produzione capitalistico ne esce del tutto rivoluzionato. Parlare ancora, agli inizi del XXI secolo, di un modo di produzione capitalistico (parcellizzazione del lavoro e meccanizzazione) a cui sarebbero associati i fenomeni di sfruttamento e di alienazione del lavoratore, non ha più senso se facciamo riferimento alle realtà più avanzate in cui computers e robot hanno un ruolo importante nella progettazione e nella produzione (Computer Assisted Design, Computer Assisted Manufacturing, Robotica). Se, come è prevedibile, questi strumenti e modi produttivi saranno universalmente adottati, è plausibile ipotizzare la fine definitiva del modo di produzione capitalistico. Là dove ciò non avverrà è più pertinente parlare di feudalesimo padronale che di permanenza nel capitalismo.

Il modo di finanziamento capitalistico. Il capitalismo, nella percezione corrente del capitale come denaro, significa che i capitalisti sono i fornitori di credito per le attività produttive. I fornitori di credito possono essere classificati in tre categorie:

  1. i ricchi: individui che sono riusciti, in qualche modo, ad accumulare una certa fortuna e la investono finanziando, per profitto, attività produttive proprie o di altri;
  2. le banche: società commerciali che raccolgono il risparmio e lo utilizzano, dietro il pagamento di un interesse, per finanziare attività economiche di vario tipo;
  3. la borsa: luogo in cui le imprese vendono quote del loro valore economico, generatrici di dividendi, in cambio di risorse finanziarie da investire nell’attività.

Nel corso degli ultimi decenni, e soprattutto a partire dall’inizio del XXI secolo, qualcosa di radicalmente nuovo sta avvenendo per quanto riguarda le necessità e i modi di  finanziamento delle attività economiche.

L'emergere del nuovo scenario economico e sociale che sancirà la fine definitiva del capitalismo non intende significare né la fine dell’imprenditore né quella del libero scambio. Anzi, è ipotizzabile che avverrà esattamente l'opposto, e cioè tutti o quasi saranno imprenditori in un mondo di liberi scambi. Questo risultato sarà reso possibile dal fatto che:

  1. gli strumenti di produzione stanno diventando sempre più digitali, condivisibili e sempre meno costosi; quindi, anche disponendo di risorse limitate, qualsiasi persona con idee geniali e capacità e volontà organizzative può diventare un maker (vedi Chris Anderson, Makers, 2012);
  2. i canali per effettuare gli scambi (culturali e commerciali) sono sempre più economici ed efficienti (globali, sempre funzionanti); quindi qualsiasi persona con idee geniali e capacità e volontà comunicative può diventare un trader.

Questa generalizzazione del maker-trader (fare-scambiare) sarà resa possibile anche  da una modifica profonda dei canali di finanziamento dei progetti e delle attività che trasformerà  radicalmente le tre figure sopra elencate:

  1. I ricchi. La ricchezza che deriva dall'impegno e dalla creatività di un individuo (e non da privilegi ottenuti dal potere) è un segno positivo del funzionamento di una società in quanto premia il merito. Questi sono i ricchi che, conoscendo il valore della volontà e della creatività personali, sono disponibili (come i mecenati di una volta) a finanziare nuovi progetti, senza la pretesa e l'assillo di un ritorno economico immediato.
  2. Le banche. L’esistenza di una rete mondiale che permette di gestire autonomamente salvadanai elettronici operanti con monete virtuali, sta riducendo progressivamente la necessità delle banche come sedi dei depositi delle persone. L’introduzione di monete alternative circolanti su Internet, minerà sempre più la funzione delle banche, già attualmente scosse da crisi di liquidità derivanti da cattiva gestione delle risorse finanziarie. In sostanza, la banca, come istituto di raccolta e collocazione del risparmio, potrebbe essere notevolmente ridimensionata o addirittura scomparire in futuro.
  3. La borsa. Nel corso degli ultimi anni, coloro che avevano un progetto interessante e volevano un finanziamento, si sono rivolti direttamente alle persone comuni chiedendo un micro-finanziamento in cambio, ad esempio, di una unità del bene una volta prodotto o di micro-partecipazioni nell’impresa. Questo è il crowdfunding che potrebbe, in un futuro non molto lontano, rimpiazzare la borsa e immettere milioni di persone nel circuito economico come finanziatori diretti di progetti.     

Per fare solo un esempio del tipo di società che potrebbe fiorire nel corso del XXI secolo, una volta, nei secoli passati, un autore aveva bisogno di un signore (laico o ecclesiastico) che finanziasse la stampa dei suoi scritti ed era limitato riguardo a ciò che poteva esprimere dal fatto di non scontentare il potente. Poi sono sorti stampatori e case editrici che pubblicavano opere che potevano riscuotere un certo interesse culturale e commerciale presso il grande pubblico e il limite era rappresentato dalle aspettative commerciali dell'editore. Adesso l’autore può auto-pubblicarsi elettronicamente (quasi a costo zero) e rivolgersi ad una nicchia di lettori o ad un largo pubblico senza alcun filtro culturale o commerciale. In questo modo idee e progetti anti-convenzionali hanno maggior possibilità di vedere la luce del giorno.
Insomma, dal desktop publishing (stampanti laser) al desktop producing (stampanti 3D).

In sostanza, noi stiamo già vivendo in una società post-capitalistica, a imprenditoria e scambi potenzialmente universalizzati. Ma molti, per pigrizia o per abitudine, sono rimasti fermi alle categorie mentali del passato e parlano ancora di società capitalistica nell'ambito dello stato-nazione, e utilizzano categorie obsolete quali imprese nazionali, prodotti stranieri e prodotto interno lordo.  
Per marcare chiaramente il cambiamento sarebbe necessario sostituire il termine capitalismo con uno ben più adatto ai tempi. Von Mises nei suoi scritti aveva introdotto due vocaboli interessanti:

  1. prasseologia : scienza dell’azione
  2. catallassi : scienza degli scambi

Eppure questi vocaboli non hanno avuto il successo che avrebbero meritato.
Rimane comunque da chiedersi: perché restare attaccati, nel XXI secolo, ad un vecchio termine popolarizzato da un socialista della cattedra (Werner Sombart) e gettato nel discredito da un liberale cattedratico (Maynard Keynes)?
Forse perché rassicura ancora la mente umana, soprattutto quella vuota di nuove idee e timorosa di nuove esperienze?

A voi la risposta.

 


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