Gian Piero de Bellis

Vendere … e Venderemo

(Novembre 2013)

 


 

Il 10 Giugno 1940, Benito Mussolini, dal famoso balcone di Piazza Venezia, in occasione della dichiarazione di guerra alle potenze “plutocratiche” di Francia e Gran Bretagna, pronunciò, davanti ad una massa festante e vociante, le famosissime parole: Vincere … e Vinceremo.
Questo messaggio delirante faceva il paio con quell’altro, riprodotto a caratteri cubitali sui muri d’Italia: Credere, Obbedire, Combattere.

Fortunatamente quei tempi e quelle parole d’ordine, vanagloriose e insensate, sono finiti da un pezzo.
Nella società contemporanea che è stata definita come Società Opulenta (The Affluent Society, John Kenneth Galbraith, 1958) o come Società Burocratica dei Consumi (Société bureaucratique de consommation, Henri Lefebvre, 1968), altri messaggi hanno preso il posto, certamente meno insensati, ma ancora, umanamente, del tutto inadeguati.
E questa loro inadeguatezza deriva dal fatto di fare riferimento quasi esclusivamente all’aspetto economico, vedendo l’essere umano come una macchina economica volta principalmente alla produzione e al consumo di beni materiali.

I governanti che, a partire dalla seconda metà del secolo XX, sono stati installati al vertice degli stati, hanno infatti sostituito i messaggi bellicisti con slogan consumisti.
È come se il Vincere … e Vinceremo di mussoliniana memoria, sia stato rimpiazzato da un più prosaico: Vendere … e Venderemo. E sui teleschermi e sui giornali, l’esortazione che ricorre, in maniera più o meno sotterranea, può essere riassunta nelle parole d’ordine: Lavorare, Consumare, Votare.

Lo sviluppo tecnologico, a partire dalla Rivoluzione Industriale, ha permesso di risolvere molti problemi dal lato della produzione, ma ha creato altri problemi, se così possiamo chiamarli, sul lato del consumo. L’economia gira (per usare una banale espressione giornalistica) solo se i consumi crescenti assorbono una produzione crescente. I consumi poi permettono allo stato di tagliarsi una fetta consistente della torta economica attraverso il prelievo fiscale su ogni bene e servizio oggetto di acquisto (fin oltre il 20%, un pizzo da capogiro).

Ecco allora che il compito principale dello stato moderno non è più quello di proteggere l’individuo da atti violenti (negli Stati Uniti già nel 1972 le agenzie private di sicurezza impiegavano più personale di tutte le forze di polizia locali, statali e federali) ma di massaggiare l’economia stimolando i consumi in tutti i modi possibili e immaginabili, con le parole e le azioni.

È rimasta famosa, ad esempio, la visita di George W. Bush senior all'inizio degli anni '90 ai grandi magazzini Macy's per comprare un paio di calzini. Con quel gesto, in una fase di crisi economica, una delle tante, il presidente americano intendeva dare il buon esempio ai suoi concittadini e invitarli a spendere. Altrettanto famosa è divenuta la frase della “socialista” statalista Martine Aubry ("il faut relancer la consommation") che, verso la fine dello stesso decennio, individuava nello stimolo consumistico la via per uscire dall’ennesima crisi economica.

Per rilanciare i consumi il modo più semplice è stampare denaro e distribuirlo, nei tempi e modi più appropriati, perché venga poi speso in acquisti. Il pagare le persone per scavare e riempire buche era la trovata keynesiana per far arrivare nelle tasche della gente denari da impiegare in consumi. A questo ha fatto seguito, con l’invenzione del welfare state, l’assegno settimanale o mensile che giungeva a casa degli assistiti, soldi che permettevano alle imprese di avere consumatori assicurati e allo stato di generare servi obbedienti, incapaci di iniziativa. In futuro tutto ciò sarà forse sostituito dal “reddito di cittadinanza” che istituzionalizza il ruolo delle persone come fidati consumatori e fidati sudditi.

Questa comunanza di interessi tra moltissime imprese (produzione di massa) e lo stato (controllo delle masse), ha rappresentato il pilastro su cui si è retta la società dei consumi, burocraticamente amministrata.
Il dramma di questa società deriva

  1. dal suo stesso successo nel produrre beni in quantità straordinaria, e
  2. dalla incapacità delle persone di uscire da uno schema mentale e comportamentale incentrato sul lavoro dipendente e sui consumi.

La conseguenza è il torpore mentale e l’obesità fisica, che, per i padroni nella società burocratica dei consumi, sono esiti formidabili perché incentivano ulteriori consumi (vedi, ad esempio, l'industria della salute) ed ulteriore dipendenza.

Stando così le cose, qualsiasi discorso che si focalizza ancora e quasi esclusivamente sull’economia per uscire dalla crisi culturale e sociale in cui ci troviamo, è un discorso del tutto funzionale al mantenimento del sistema attuale.

Produrre e consumare sono due tra le tante attività di cui si compone l’esistenza umana e, attualmente, non certo le più importanti considerato che molte produzioni sono automatizzate e molti consumi non sono affatto necessari. Se invece tutto ruota ancora intorno a produzione e consumo (con l’aggiunta del votare di tanto in tanto i propri padroni), non saremmo molto diversi dai protagonisti del film di Marco Ferreri, La grande abbuffata (1972) votati all’autodistruzione attraverso l’ingurgitamento di una quantità abnorme di cibo.

A quel punto ben si adatterebbe a noi e alle persone con cui interagiamo in questa società l’epitaffio:

Vivere e Morire da Porci

 


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