Gian Piero de Bellis

Sulla proprietà

(Luglio 2012)

 


 

Qualsiasi discussione sulla proprietà o, come dicono alcuni, il diritto di proprietà, sembra sfociare sempre o in profonde divisioni o in ancor più profondi malintesi. Io credo che questo avvenga per tre motivi principali:

a) ignoranza: moltissime persone che discutono sulla proprietà facendo riferimento a concezioni del passato come il liberalismo, il marxismo e l'anarchismo, hanno una conoscenza del tutto superficiale, e solitamente di seconda o di terza mano, di quello che gli esponenti principali di queste concezioni hanno detto a proposito del tema.

b) malafede: questa scarsa conoscenza, ottenuta attraverso divulgatori e giornalisti di parte che talvolta non hanno fatto, neanche loro, il benché minimo sforzo di documentarsi alle fonti, porta ad accettare tutta una serie di idee convenzionali che altro non sono che il supporto di comodo, per politicanti e affaristi di tutti i colori, per dare una patina di rispettabilità culturale ad interessi tutt'altro che rispettabili.

c) intellettualismo: l'ignoranza e la malafede vengono poi mascherati con un linguaggio da intellettuali, facendo ricorso a tutta una serie di ragionamenti astratti che sono solo il fumo dell'aria fritta con cui si cerca di nascondere un vuoto sostanziale di conoscenze. In sostanza, invece di far riferimento alle proprie esperienze personali, di come ci si comporterebbe in casi concreti in relazione al tema della proprietà (ad es. di un bene mobile, di un terreno, di un edificio storico, di un bosco, ecc.), si tirano fuori parole magiche che rimandano a mondi fantasiosi abitati da esseri umani inventati.

Se questa è la situazione attuale, allora sarebbe bene chiarire alcuni aspetti che potrebbero ridurre l'ignoranza, evidenziare la malafede, e accantonare, forse, l'intellettualismo.

 

La riduzione dell'ignoranza

Tutte le concezioni del passato (liberalismo, marxismo, anarchismo) hanno, per quanto possa sembrare strano, profondi punti di contatto riguardo a parecchi temi, e soprattutto, riguardo al tema “proprietà”. In effetti, gli esponenti di queste tre concezioni, sorte come reazione al parassitismo dell'aristocrazia e all'autoritarismo del potere, vedevano nei soggetti produttivi i punti di riferimento obbligati per la nascita della proprietà. Non va dimenticato che uno dei cardini comuni del pensiero economico dei classici (Smith, Ricardo, Marx) è la teoria del valore-lavoro. Il valore economico (che è un concetto diverso dall'utilità di un bene) deriva, per essi, essenzialmente, dal lavoro. Ne consegue, sulla base della loro impostazione, che il valore economico generato attraverso il processo produttivo sarebbe dovuto diventare, in gran parte, di proprietà del lavoratore, in quanto fattore centrale della produzione (gli altri sono la terra e il capitale).

Per Locke, se esiste in natura un bene a cui l'individuo applica per primo il suo sforzo lavorativo, quel bene e i frutti che ne derivano diventano sua proprietà. In sostanza, alle origini del liberalismo vi è una chiara sottolineatura del collegamento tra attività e proprietà.

E a ben leggere Marx, non sembra proprio che egli abbia obiezioni di sorta rispetto a questa posizione. Anche per Marx il legame attività-proprietà è un punto cardinale. La sua critica si rivolge infatti ai ceti possidenti che, con la connivenza e l'approvazione del Parlamento di cui essi erano parte dominante, hanno espropriato le terre di proprietà comune degli abitanti delle campagne. Questo è avvenuto con atti del Parlamento e non attraverso attività produttive di alcun genere. Certamente, questo furto di proporzioni incalcolabili ha avuto risultati positivi in termini di crescita della produzione agricola e poi di avvio della Rivoluzione Industriale. Ma esso era e rimane, sempre e comunque, un furto.

Quindi è un dato di fatto che i possidenti inglesi hanno messo sotto i piedi il concetto di proprietà come aveva fatto, precedentemente, il re Enrico VIII espropriando i beni dei monasteri. Nel Manifesto dei Comunisti Marx risponde all'accusa di voler abolire la proprietà facendo notare che, ai suoi tempi, la proprietà privata era già stata abolita per la maggioranza della popolazione lavorativa. Ed egli fa questa constatazione senza alcuna sfumatura moralistica in quanto per lui la borghesia, come classe rivoluzionaria, aveva fatto bene a compiere gli espropri perché ciò aveva permesso che la società avanzasse verso un futuro di progresso (incremento della produzione di beni). E a tale riguardo Marx ribadisce il fatto che “tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo mutamento storico, a una continua trasformazione storica.” “La Rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale a favore della proprietà borghese.” E “ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.”

Quello che Marx rimprovera davvero alla borghesia è di pensare che il suo esproprio è definitivo e che l'emergere di nuovi proprietari è soltanto una macchinazione ai suoi danni, che va totalmente evitata. In sostanza la borghesia vuole arrestare il progresso storico, e questo è per Marx il massimo dei delitti.
Per Marx infatti non si può fermare la storia (come vorrebbero i reazionari). La tappa successiva, nella sua concezione rivoluzionaria, sarebbe consistita nella fine della proprietà borghese, che è la proprietà di un ristretto numero di persone. Alla fine siamo catapultati in un mondo di libere attività e di liberi scambi in cui il lavoro dipendente è scomparso e con esso lo sfruttamento e la miseria derivanti dalla mancanza di proprietà, che era stata accaparrata da un gruppo esiguo di monopolisti borghesi.

In sostanza, Marx può essere visto come uno dei massimi sostenitori della proprietà, estesa soprattutto a coloro che erano, ai suoi tempi, proprietari solo della loro forza-lavoro. Questa universalizzazione della proprietà significa, per Marx, la riappropriazione, da parte di ciascun produttore, della sua essenza umana, l'emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani, e la fine dell'alienazione e dello sviluppo abnorme di un solo senso, il senso dell'avere. (Manoscritti economico-filosofici del '44)

Lo stesso discorso vale, grosso modo, anche per Proudhon di cui molti conoscono solo la frase “La proprietà è il furto” mentre ignorano o fanno finta di ignorare l'altra sua espressione “La proprietà è la libertà”. Il problema infatti è sempre quello posto fin dall'origine da Locke: la proprietà come privilegio e rapina (furto) o la proprietà come frutto del proprio lavoro (libertà).

Anche Bakunin (esponente del collettivismo anarchico) collegava ciò che un individuo riceveva come compenso (e diventava dunque sua proprietà) al contributo lavorativo che la persona aveva fornito. Quindi, anche nel caso del collettivismo anarchico, non si auspicava affatto una redistribuzione da chi aveva, perché aveva prodotto qualcosa, a chi non aveva, perché non si era impegnato in alcunché di produttivo.

Se questa è la realtà, se cioè vi è un filo comune, rappresentato dalla proprietà derivante dall'attività produttiva (lavoro), che lega queste concezioni (liberalismo, marxismo, anarchismo), allora come è possibile che ci siano tanti contrasti e così accese contrapposizioni?
A mio avviso questo è spiegabile perché i sostenitori delle posizioni contrapposte non sono, in realtà, né liberali né marxisti né anarchici ma un miscuglio variegato di finti liberali, marxisti inventati e pseudo-anarchici, e tutti assieme si sono costruiti una ideologia di comodo che ha anch'essa un filo conduttore comune, ma che è di segno del tutto opposto a quello appena esaminato (attività-proprietà).

 

Lo smascheramento dell'imbroglio

Le classi possidenti del passato e i grandi proprietari del presente, in molti casi, hanno avuto accesso alla proprietà attraverso un connubio affaristico con il ceto politico. Negli Stati Uniti la funzione delle lobbies è stata ed è quella di lubrificare gli ingranaggi della politica per ottenere rendite di posizione che hanno portato all'acquisto di enormi fortune (proprietà). Scriveva Richard Heffner a proposito della Gilded Age (fine 1860-fine 1890): “Sebbene gli uomini d'affari spendessero vaste somme per comprarsi gli uomini politici più disponibili, i loro investimenti pagarono enormi dividendi sotto forma di assistenza governativa ad una espansione industriale continua.” (A Documentary History of the United State, 1952).

In Italia le banche e le grandi imprese hanno avuto rapporti intimi con il potere politico per scambi continui di favori, sovvenzioni, appoggi.

In sostanza, quasi dappertutto, la proprietà non è quella che volevano i liberali (Locke), i marxisti (Marx) e gli anarchici (Proudhon), cioè la proprietà come libertà che scaturisce da libere attività, ma la proprietà come furto che proviene da vincoli e privilegi politici, a seguito dei legami tra il ceto affaristico e il ceto politico. Questa proprietà ha poi bisogno dello stato per essere protetta. Adam Smith era perfettamente consapevole di ciò quando scrive: “Civil Government, so far as it is instituted for the protection of property, is in reality instituted for the defence of the rich against the poor, or of those who have some property against those who have none at all.” (“Il governo, nella misura in cui è istituito per la protezione della proprietà, è in realtà istituito per la difesa del ricco contro il povero, o di coloro che hanno qualche proprietà contro quelli che non ne hanno affatto.”) (Adam Smith, The Wealth of Nations, Libro V, Capitolo I, Parte II.)

Questa proprietà-imbroglio può emergere come realtà sociale solo in quanto è, per l'appunto, garantita e protetta attraverso la legge e la forza dello stato, a differenza della proprietà-attività che è una realtà razionale, cioè un fatto sociale evidente, insito nella natura delle cose (io produco qualcosa – io ne sono il proprietario).

Moltissimi continuano a cadere in questo imbroglio della proprietà degenere, che esiste solo in quanto diritto riconosciuto dallo stato. Se questa fosse l'origine e la caratteristica essenziale della proprietà (essere sanzionata dallo stato) allora tutte le proprietà sarebbero in una situazione di totale precarietà in quanto soggette sempre ad un eventuale esproprio per legge. Eppure questa è la posizione dei finti liberali (lo stato garantisce la proprietà) e dei finti marxisti (lo stato assicura la redistribuzione della proprietà). Chiaramente, la proprietà a cui essi fanno riferimento è la proprietà come furto.

Infatti sono un furto, perpetrato dai liberali alla Mario Monti (premiato dalla fondazione Hayek in quanto liberale doc per l'anno 2005) i miliardi che lo stato distribuisce ai grandi gruppi economici e bancari. A questa pratica del furto si sono associati i marxisti fasulli del socialismo cialtrone dei ceti improduttivi, i quali vogliono godere anche loro di fette consistenti della torta. Quindi aiuti a pioggia anche a piccole mafie locali (i forestali, i portaborse, i frequentatori di corsi finanziati dalle regioni, ecc.) e corporazioni nazionali (i giornalisti, i cineasti, gli operatori turistici, ecc.) nel migliore stile della spartizione camorristica del bottino.
La possibile fine di questi furti, come quelli compiuti dai latifondisti inglesi in passato, è vista molto male da tutti i ceti parassitari che strepitano contro i presunti tagli alla spesa sociale.

Ma quale spesa sociale? Qui è ancora tutto un magna magna colossale dei parassiti statali e para-statali e una spremitura continua dei produttori e delle categorie più deboli (anziani, lavoratori immigrati) attraverso aumenti dell'IVA (+ 3 punti in Spagna), del prelievo fiscale sulla casa (IMU in Italia), delle accise sulla benzina e via di questo passo.

In italia i finti liberali alla Mario Tonti, i socialisti inventati del PD targato Goldman Sachs e gli pseudo-anarchici foraggiati o manipolati dalla polizia di stato, stanno distruggendo i ceti produttivi e la proprietà derivante dalla libera attività.

Purtroppo, un contributo perché tutto ciò avvenga è dato non solo da coloro che parlano, a sproposito di ultraliberalismo, ma anche da quelli che imprecano contro il comunismo e si inventano posizioni falsamente contrapposte, mentre la sola vera contrapposizione è tra produttori e parassiti, qualunque sia la loro concezione di riferimento o meglio l'imbroglio di concezione a cui questi contafrottole imbroglioni dicono di fare riferimento.

 

La fine dell'intellettualismo Lo smascheramento dell'imbroglio può quindi avvenire solamente se:

(a) smettiamo di parlare di concezioni di cui sappiamo poco o nulla, sulla scia di pensieri convenzionali che ci hanno introdotto nel cervello ai tempi della scuola di stato e che ci martellano ogni giorno (per paura che il cervello possa riprendere a funzionare autonomamente) attraverso i mezzi di comunicazione del regime;
(b) torniamo a parlare di problemi concreti e gettiamo alle ortiche tutto il frasario ideologico pseudo-intellettuale.

A quel punto dovrebbe risultare chiaro e immediato per tutti capire che:

- non ci sono pasti gratis (ci possono essere pasti offerti dalla generosità di qualcuno, ma non ci sono pasti gratis) e che
- la proprietà si ottiene solo attraverso l'attività produttiva (ci può essere una proprietà che scaturisce da un dono, ma non certo una proprietà derivante da furto o da esproprio).

L'invito sincero è allora quello di smetterla di parlare di liberali, comunisti, anarchici o altre categorie simili che, al giorno d'oggi, sono solo un imbroglio colossale a danno dei creduloni e a profitto dei furboni.
In realtà, se vogliamo semplificare le cose e andare al nocciolo della questione, ci sono solo, come già detto, sfruttatori e sfruttati, tartassatori e tartassati, profittatori e produttori.
Una volta che avremo capito questo saremmo sulla buona strada per finirla con tutte le contrapposizioni inventate e saremmo finalmente pronti ad unirci con tutti i produttori contro tutti i parassiti, al di là di qualsiasi etichetta, vera o fasulla che sia.

Se continuiamo invece con le nostre affabulazioni senza fondamenta, non lamentiamoci poi se i parassiti di questo mondo saranno ancora lì, nei secoli a venire. I furbi, cioè quelli che meglio adattano la situazione alle loro esigenze, anche a scapito degli altri, saranno sempre destinati a prevaricare sugli ingenui che abboccano agli ami di tutte le castronerie. Solo diventando più intelligenti, cioè collegando (inter-lego) le idee produttive e agendo con i portatori di queste idee (i produttori) è possibile rifondare la proprietà come espressione e risultato della libera attività.

 


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