Vincenzo Grossi

Sul concetto di società

(Marzo 2014)

 


 

La società è essenzialmente una possibilità di relazioni persistenti ed organizzate sistematicamente. Una "possibilità" perché nulla attesta come incontrovertibile la supposta natura "sociale" dell'essere umano e sappiamo che la vita può essere vissuta al di fuori di qualsiasi società. Parlo di relazioni persistenti perché non sono sufficienti delle relazioni estemporanee ed incidentali a costituire un fenomeno sociale, ma debbono costituirsi in modalità riconoscibili tendenti alla loro conservazione e strutturazione. La persistenza diventa quindi causa ed effetto della strutturazione organizzata delle relazioni sociali. Solo relazioni costanti assumono fisionomia sociale e non di semplice pluralità di esistenze individuali.

Ma la società è anche tante altre cose: apparenza fenomenica, modello psichico per speculazioni etiche, economiche e politiche, organizzazione formale di "persone" nel senso di ruoli personali ovvero maschere funzionali da indossare da parte degli individui per interagire e relazionarsi tra loro.

Riguardo il loro rapporto con gli ambienti che le ospitano, le società sono un po' come i liquidi che assumono la forma dei contenitori: la società contadina era il liquido contenuto nell'economia contadina di sussistenza e tutto ciò che quella società produsse in termini culturali era la risposta funzionale a quella forma di economia, dai riti ai valori, le morali, le religioni e le varie divisioni del lavoro. Basti pensare al rapporto di mezzadria che in Italia fino al 1974, data di fine della stipula di questi contratti, cementava un certo tipo di società e di famiglia. Con la fine della mezzadria, cioè di quei contratti di sfruttamento del lavoro grazie alla proprietà dei terreni, una sorta di affitto al 50% di rendita divisa, stabiliva una netta situazione di subalternità tra proprietari e mezzadri, congelando di fatto qualsiasi aspirazione di elevazione "sociale".

Si parla di circa 5.000 tipi diversi di società apparsi nella storia e sembra evidente che il fenomeno della globalizzazione stia riducendone drammaticamente la loro varietà. Però se è vero che la globalizzazione distrugge la varietà tra le società sembra anche introdurre varietà all'interno delle società, con tutti i fenomeni di incontro tra etnie diverse o di società non legate al territorio ma tramite comunicazioni telematiche. È noto che solo dalla varietà può nascere ed evolversi qualsiasi forma di sopravvivenza, ben vengano quindi tutte le possibili novità nella formazione delle nuove società.

L'individuo, nella quasi totalità dei casi, nasce in una società ed è quindi portato ad assumere come "naturale e necessaria" l'organizzazione sociale. In realtà il primo impatto è di totale rifiuto di un mondo esterno ed indipendente da noi, e solo in età matura si riconosce il principio di reciprocità che consiste nell'accettare per essere accettati, nel riconoscere gli altri e le loro istanze per essere da essi riconosciuti con le nostre. Questo passaggio resta però molto vago e basta niente per perdere questa prospettiva sociale in favore della più immediata e gratificante prospettiva egoistica infantile. La socialità è cioè un faticoso cammino verso gli altri costellato di indicazioni contrarie, divieti di accesso, segnali di pericolo, perennemente in salita e senza piazzole dove riposarsi. Questo se si accetta l'altro in modo paritario. Viceversa se l'altro è visto come oggetto animato da usare solo per i propri scopi, allora la strada verso gli altri può essere agevolmente seguita con poche e spregiudicate regole di comportamento.

Non è pensabile una società interamente abitata da individui "onesti", "autentici" nel loro stare al mondo, del primo tipo per intenderci; ed infatti tutte le organizzazioni sociali, mediante strade etiche e politiche hanno da sempre cercato di scoraggiare e contenere la disonestà a livelli sopportabili per la società, livelli cioè nei quali convenisse ancora la convivenza sociale piuttosto che la fuga verso la completa asocialità.

La "pace sociale" è quello stato di guerra fredda tra individui in costante competizione per l'accesso alle risorse. Individui che sono disposti ad accettare evidenti sperequazioni di ogni genere pur di non rischiare, in un conflitto dagli esiti sicuramente disastrosi per tutti, quel poco che sono riusciti ad ottenere in una vita intera.

Non esistono società sane o malate, ma solo società cagionevoli di salute in costante via di guarigione.

La domanda è: se non esiste una cura definitiva e risolutrice per le malattie sociali è giusto continuare a rivolgersi ai medici, ovvero ai tecnici dell'etica e della politica, per curare questi mali perseguendo l'utopia di rimuovre le cause scatenanti o è invece preferibile iniziare a fare a meno di farmaci ed analisi e curare da soli le proprie relazioni sociali man mano che si formano, contrattare cercando reciproca convenienza nel mondo del possibile?

Perché agire dall'alto e in larga scala come avviene con la promulgazione di leggi e regolamenti, avrebbe un senso se esistesse la possibilità della "legge migliore", quella che funziona sempre e non scontenta nessuno. Ma non essendo possibile dar vita a questa chimera non è meglio favorire o solo rendere possibili le nascite di accomodamenti locali, individuali, tra pari, contratti che, potendo essere messi sempre in discussione, non favoriscano furbi e traditori ma che per durare obbligano i contraenti all'onesta, perché solo contratti reciprocamente vantaggiosi potrebbero durare a lungo?

 


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