Gian Piero de Bellis

La botte piena e la moglie ubriaca

(Febbraio 2017)

 


 

C’è una espressione nella lingua italiana che è quanto mai colorita e significativa ed è la seguente: «volere la botte piena e la moglie ubriaca.» Essa è presente in molte lingue. Gli inglesi dicono: «Have one’s cake and eat it» e i francesi «Vouloir le beurre et l’argent du beurre »
Il significato è lo stesso e cioè aspirare ad avere, al tempo stesso, due cose contraddittorie.

Una realtà fatta di comportamenti e obiettivi che mal si conciliano tra di loro è ampiamente visibile e verificabile nell’ambito del sistema economico corrente, da taluni definito "capitalismo" (o economia mista) che è caratterizzato dalla presenza di imprese cosiddette "private" e di un settore statale cosiddetto "pubblico".

Dal momento che l'esistenza di questi comportamenti e obiettivi contraddittori è la causa di crisi ricorrenti e praticamente inevitabili è utile esaminare le realtà concrete e i modi in cui tutto ciò si manifesta ed elencare alcuni rimedi che sono stati escogitati al riguardo.

L’imprenditore capitalistico, che è sorto parallelamente agli stati nazionali, è guidato nel suo operare da tre esigenze e desideri:
- bassi salari pagati ai suoi dipendenti;
- basse tasse versate sui suoi profitti;
- bassa (o nulla) concorrenza fatta ai suoi prodotti (specialmente da parte di imprese estere).

Al tempo stesso egli coltiva altre esigenze e desideri:
- alti consumi privati (per poter smerciare i suoi prodotti)
- alte spese statali (per avere un ulteriore sbocco, diretto o indiretto, ai suoi prodotti)
- alto flusso di beni esportati (per contare anche sul mercato estero).

Queste esigenze-desideri, elencate qui in maniera molto sintetica e generale, sono più che umanamente comprensibili. Tuttavia, ad un esame anche superficiale, risultano, nella realtà pratica, del tutto inconciliabili tra di loro, almeno a livello complessivo. Vale a dire, non possono valere per tutti i capitalisti, e per questo sono la causa diretta di crisi ricorrenti, settoriali o regionali..
Esaminiamo brevemente la cosa.

Bassi salari - Alti consumi dei lavoratori
Fin dall’inizio dell’epoca industriale, un salario appena sufficiente a mantenere in vita il lavoratore è stata la regola, condensata addirittura in una legge, la legge bronzea dei salari. Tale legge affermava che ad un incremento dei salari sarebbe corrisposta una maggiore offerta di lavoro o l'introduzione di macchine sostitutive del lavoro, riportando quindi i salari al livello di sussistenza. Le lotte operaie hanno contrastato tale tendenza, vera o presunta che fosse, ma i salari non hanno quasi mai tenuto il passo allo straordinario incremento della produttività generato dalle applicazioni della tecnologia al processo produttivo. Tra gli industriali di una volta solo Henry Ford ha capito che se voleva vendere le sue auto doveva pagare salari tali da permettere anche ai suoi operai di acquistarle. Ma egli ha rappresentato l’eccezione e non la regola.

Basse tasse - Alte spese dello stato
Gli industriali si sono sempre battuti per basse tasse sulle imprese, cosa anche questa del tutto comprensibile e addirittura giustificabile, ma hanno favorito se non addirittura celebrato e incoraggiato qualsiasi spesa effettuata dallo stato. Nelle parole di Jay Cooke, uno dei massimi uomini d’affari dell’ottocento negli Stati Uniti: « a national debt, a national blessing » (un debito nazionale, una benedizione nazionale) (Matthew Josephson, 1934) Questo era ancor più vero se la spesa statale riguardava acquisti diretti di beni (ad es. commesse militari) o lavori appaltati dallo stato (strade, edilizia, ecc.) o finanziamenti di servizi (ad es. trasporti).
In tempi abbastanza recenti la figura preferita da molti simpatizzanti del capitalismo è stato il presidente Reagan che durante il suo mandato ha incrementando le spese statali (+ 60% in valore nominale) e ha raddoppiato il deficit federale (passato da 78,9 miliardi nel 1981 a 152,6 miliardi di dollari nel 1989).

Basse importazioni - Alte esportazioni
Lo sviluppo di un apparato industriale è stato caratterizzato e agevolato dalla nascita di un mercato nazionale. Gli imprenditori nazionali, tranne quando erano in grado di dominare il mercato mondiale per motivi tecnologici o di supremazia politica (come l’Inghilterra nel secolo XIX) sono sempre stati tendenzialmente protezionisti.
Fino alla fine della seconda guerra mondiale, il protezionismo attuato dagli stati e favorito dagli industriali ha dominato la scena economica. In Italia gli industriali sono stati forzati ad aprirsi alla concorrenza europea, tra mille ritrosie e paure, solo con la nascita dell’Unione Europea dei Pagamenti (1950) e poi del Mercato Comune Europeo (1958).

Le conseguenze
Idee e comportamenti contraddittori hanno come conseguenza l’emergere continuo di crisi. Lo sviluppo dell'industria capitalistica ha portato sì un benessere materiale generalizzato ma è stato caratterizzato anche, e sembra che sempre più lo sarà se non interverranno cambiamenti radicali, da:
  - sovrapproduzione delle imprese "private"
  - debiti del settore "pubblico"
  - squilibri commerciali.

Questi aspetti rappresentano caratteristiche intrinseche del sistema economico corrente che potrebbe essere definito come capitalstatismo o nazional-capitalismo o semplicemente statismo.

Nel corso degli anni abbiamo avuto il passaggio dalla distruzione creativa (Joseph Schumpeter e la sostituzione di vecchi modi di produrre con forme sempre più efficienti) alla distruzione necessaria (John Maynard Keynes e la creazione di sprechi e attività parassitarie - scavare e riempire buche - per non inceppare la produzione e il mercato).

La distruzione creativa è necessaria e augurabile se viviamo in una società caratterizzata da una diffusa indigenza perché permette di produrre di più e meglio per soddisfare bisogni essenziali insoddisfatti.
La distruzione necessaria è indispensabile allorché viviamo in una società opulenta (bisogni di base ampiamente soddisfatti) e vogliamo rimanere all’interno dello stesso paradigma politico ed economico, vale a dire salvaguardare il potere del complesso statale-affaristico.

Stato nazionale e capitalismo affaristico sono infatti la faccia politica e la faccia economica della stessa medaglia.
Senza lo stato (la spesa del welfare-warfare e i trasferimenti statali) il capitalismo non potrebbe sopravvivere. Senza l’imprenditore-capitalista che sovraintende alla produzione e fa affari, lo stato non potrebbe continuare ad esistere (prestiti per il finanziamento del debito statale).
Per questo gli esponenti del capitalstatismo (uomini politici e uomini d’affari) hanno inventato e messo in atto taluni rimedi volti a mantenere in vita il sistema.

I rimedi insani del capitalstatismo
Lo stato in quanto comitato d’affari del feudalesimo industriale (Thurman Arnold) e finanziario è intervenuto e interviene di continuo per salvare, per quanto è possibile, il sistema economico attuale dalle sue insanabili contraddizioni. Questo è avvenuto attraverso:

- la moltiplicazione di sprechi e distruzioni sotto varie forme (incentivazione di consumi abnormi, salari per impieghi parassitari, enormi spese per armamenti e personale burocratico, interventi militari ricorrenti, ecc. ecc.)
- la redistribuzione assistenziale-paternalistica per creare una massa enorme di consumatori atta ad assorbire una massa crescente di produzione. In tempi passati ciò ha portato alla creazione del welfare state da parte del conservatore Bismarck (Germania) e del liberale Lloyd George (Inghilterra). In tempi moderni abbiamo il quantitative easing e si parla di helicopter money e di reddito di cittadinanza.
- il controllo dei mercati e gli aiuti alla produzione, all’esportazione e alla finanza per far sì che le imprese e le banche nazionali rimangano a galla. Tutti o quasi tutti gli stati, sotto qualsiasi governo di qualsiasi tendenza politica, sono intervenuti come stampella di imprese decotte e di banche sovraesposte e destinate al fallimento, dai casi più noti della Cina e dell’Italia a quelli meno noti della Germania e della Svizzera.

Questi rimedi, immorali e perversi, che hanno caratterizzato l'epoca del welfare-warfare state, hanno permesso e permettono forse di attenuare, per un certo periodo, talune contraddizioni del capitalstatismo, salvo poi, per forza di cose, ripiombare successivamente in crisi sempre più durature e profonde.
Quando molte persone avranno preso coscienza di ciò e non vorranno più rimanere intrappolate nelle vecchie faziose dicotomie (capitalismo-socialismo, stato-mercato), solo a quel punto essi capiranno che gli strumenti della tecnologia possono essere usati, pienamente ed efficacemente, per costruire un futuro diverso.

I rimedi auspicabili del post-capitalstatismo
Ancora non è chiaro come sarà definito il sistema organizzativo sociale ed economico che emergerà dal superamento pieno del capitalstatismo. Quello che è evidente è che le contraddizioni sopra elencate vanno assolutamente eliminate. Il nuovo paradigma potrebbe presentare allora, tra le altre, le seguenti caratteristiche:

- diffusione delle possibilità di attività e di profitto per tutti attraverso la piena attuazione del laissez-faire laissez-passer;
- riduzione massiccia e continua del tempo di lavoro (robotizzazione della produzione);
- imprenditoria dei produttori (diffusione di laboratori di produzione su domanda);
- superamento progressivo degli sprechi, del parassitismo e dell’obsolescenza programmata;
- sviluppo delle attività di assistenza e cura delle persone e dell'ambiente;
- fine del potere dello stato di tassare e spendere a suo piacimento e nascita di agenzie di servizi in concorrenza tra di loro e scelte dalle persone in maniera libera e volontaria.

A quel punto il welfare-warfare state del capitalstatismo sarà cosa del passato.
Come già a suo tempo rimarcato:

« La società che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori, consegna l'intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo. »

 


 

Suggerimenti di lettura

(1923) Thorstein Veblen, Absentee Ownership, Beacon Press, Boston, 1967

(1933) Bertrand de Jouvenel, La crise du capitalisme américaine, Gallimard, Paris

(1934) Matthew Josephson, The Robber Barons. The great American capitalists, 1861-1901, Harcourt, New York

(1937) Thurman Arnold, The Folklore of Capitalism, Yale University Press, New Haven

(1966) Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly capital. An Essay on the American Economic and Social Order [Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1968]

(1965) Estes Kefauver, In a Few Hands. Monopoly power in America, Penguin, Harmondsworth, 1966

(1967) Report from Iron Mountain on the Possibility and Desirability of Peace, Penguin Books, Harmondsworth, 1968

(1967) John Kenneth Galbraith, The New Industrial State [Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino, 1968]

(1973) James O' Connor, The Fiscal Crisis of the State, St. Martin's Press, New York

(1980) Alvin Toffler, The Third Wave, Pan Books, London, 1981

(2002) Shoshana Zuboff and James Maxmin, The Support Economy, Penguin Books, London, 2004

 


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