Piero Gobetti

Economia parassita

(1924)

 



Nota

In questo scritto Gobetti elabora sul tema dello stato come mangiatoia generale, che Bastiat aveva già caratterizzato al meglio con la sua celebre frase. A questo banchetto a danno dei produttori partecipano il ceto burocratico (il brigantaggio romano) e la classe borghese (fautrice di dazi e drogata di sussidi). Da questa situazione se ne esce fuori solo quando nuove condizioni di maturità economica porteranno i produttori a mettere da parte i parassiti.

 


 

II concetto marxista della derivazione dei rapporti politici da fenomeni di natura economica va inteso e corretto in un senso che escluda ogni rigoroso determinismo e fissi invece connessioni di carattere irrazionale assai più complesse e vorrei dire misteriose. L'attività economica sarebbe la materia che cerca nella politica la sua forma; fenomeno rozzo e sfuggente che si tenta di conoscere attraverso leggi di approssimazione meccaniche e in cui l'opera del politico, mobile, sensibilissima, libera, si esercita come su un terreno di sperimento per sorprendere l'istante in cui riuscirà ad affermare il suo dominio spirituale.

Riesce perciò ricca di notevoli significati l'osservazione comune che l'opera del politico, volontà libera e indipendente, debba tuttavia incontrarsi con la presenza di condizioni obbiettive favorevoli, o, secondo la frase più generica degli idealisti, inserirsi nella storia. Anzi solo a questo punto si potrebbe riprendere con frutto il vecchio discorso della cultura che si richiede nel politico.

Queste pregiudiziali spiegano il nostro scetticismo verso le troppo abusate disquisizioni sulla crisi economica e sui modi di risolverla. Se la parola decisiva spetta, senza appello, al politico, l'indagine economica non ci darà lo specifico infallibile, ma appena dei punti di riferimento. Tutto il valore della tecnica si deve esaurire nel suo carattere di strumento e di coefficiente. L'uomo di Stato starà attento al consiglio dell'economista, ma lo subordinerà agli altri fattori storici. II merito di certa economia liberista consiste essenzialmente nella franca rinuncia al giudizio conclusivo: l'economista rimane fedele al suo limite scientifico, suggerisce criteri di buona amministrazione, espone i risultati della sua esperienza isolata e ristretta secondo ipotesi e astrazioni quasi matematiche, o secondo misure semplicemente descrittive. L'economista constata l'esistenza di un problema finanziario, burocratico, monetario, offre l'anatomia dei processi di produzione della ricchezza in un determinato momento storico: ma la sua osservazione resta sul terreno delle premesse e dei sintomi.

L'istituire tra questi fatti una gerarchia e una coordinazione è già il compito dello storico e del politico. L'osservatore realista studia come si comportano rispetto a questi sintomi e rispetto ai problemi le varie forze dell'equilibrio sociale. Ecco un esempio nel quale si può risolvere tutta la nostra indagine.

Il problema del pareggio del bilancio che è il punto più sensibile della crisi economica non può essere risolto con le riforme tecniche perché è un problema di contribuenti: e per chiare ragioni, se non altro psicologiche, si riferisce più alle spese che alle entrate. Non riesce difficile constatare attraverso i tormenti degli economisti l'esistenza di una più grave questione di coscienza tributaria.

Tra la storia inglese dei secoli XII-XIII e la storia nostra del dopo-guerra si trovano curiose analogie. La conquista normanna aveva necessariamente unito per i sacrifici della guerra vittoriosa re e vassalli: aveva rafforzato l'autorità statale, come la guerra europea la rafforza in Italia. I nobili scomparvero dinanzi al Re, divennero tenentes in capite: come negli anni passati la demagogia finanziaria ha reso incerti i diritti di proprietà dei cittadini.

Lo scutagium o l'auxilium dovuto dai nobili e dal clero non era di natura diversa dalle imposte che industria, commercio, proprietari e capitalisti pagarono per far vivere gli impiegati o per fornire di scuole le classi medie o di pensioni e sussidi le classi proletarie e militari privilegiate favorendo anche attraverso il fascismo le tendenze collabrazioniste. E se la situazione si annunciava in Italia già da trent'anni la guerra ne ha radicalmente capovolti gli effetti.

Il commune concilium regni (poi Parliamentum) nacque in Inghilterra non come istituto parlamentare, non come teatro di lotte politiche di partiti ma come strumento pratico diretto ad impedire le dilapidazioni a danno dei baroni. Questi si sentivano contribuenti, si sentivano Stato, classe politica, tanto che imposero al re un vero e proprio contratto bilaterale che fu il fundamentum libertatis Angliae in quanto consolido la vita economica del paese indipendentemente dalle ingerenze politiche. Il sistema bicamerale ebbe un senso profondo in Inghilterra perché la Camera dei Lords dovette esercitare una specifica funzione finanziaria, che venne poi cedendo alla Camera dei Comuni a mano a mano che la ricchezza affluiva alle classi medie intraprendenti. I conflitti costituzionali dal Reform bill del 1832 al Parliament bill del 1911 coincidendo con un progressivo allargamento del suffragio segnano l' assorbimento della funzione finanziaria nella più ampia funzione politica.

In Italia lo Statuto, che era stato per certi aspetti un frettoloso espediente piemontese nel '48, non risolse, ma fece appena balenare il problema. In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe della vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non era una esigenza, ma una formalità giuridica: il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta. Il Parlamento italiano, derivato, attraverso la Carta francese e la Costituzione belga, dal modello inglese esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione politica. E demagogico, parlamentaristico sin dal suo nascere perché è nato dalla rettorica, dall'inesperienza, dal mimetismo.

C'e un tentativo non mai interrotto nella legislazione italiana per far diventare la piccola proprietà un fatto universale, per costringere tutti a questa legge: le classi nullatenenti (primi gli impiegati) tendono a partecipare alla piccola proprietà attraverso il parassitismo a spese dello Stato. I socialisti italiani hanno aderito a questa politica cercando di ottenere per le classi proletarie la legislazione sociale. Giolitti ha avuto l’eroico cinismo di presentare come liberale questa politica di saccheggio dello Stato.
Sembrò che la guerra tendesse ad abolire la descritta mentalità dei piccoli proprietari meschini, anarchici e sfruttatori, col farli partecipare largamente allo sforza della Nazione attraverso le sottoscrizioni al prestito. Ma si trattò anche qui della gioia piccolo-borghese di carpire allo Stato il grasso interesse. È naturale che sia stato proprio Giolitti (il quale non ha mai creduto che l'Italia potesse diventare una Nazione produttrice e l'ha sempre amministrata con metodi piccoli borghesi) ad annullare i pochi effetti economici salutari della guerra con la politica finanziaria demagogica reclamata dal popolo unanime.

II problema della pubblica amministrazione era stato risolto in Inghilterra con la creazione di una burocrazia non numerosa ferreamente sottoposta alla direzione dei Lords insigniti di cariche direttive onorifiche. In Italia il problema della burocrazia non è più solubile dal momento che per fare gli Italiani abbiamo dovuto farli impiegati, e abbiamo abolito il brigantaggio soltanto trasportandolo a Roma.

Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti. Nel pensiero di Turati e di Miglioli l'Italia fu la nazione proletaria: il popolo poi doveva essere educato al parassitismo.

Le classi borghesi mancano di una coscienza capitalistica e liberistica, e cercano di difendersi, di non lasciarsi sopraffare partecipando esse pure all'accordo e facendosi pagare in dazi doganali e sussidi ciò che devono elargire in imposte. L'operaio e l'agricoltore non usano avvedersi di questo ultimo anello della catena per cui il beneficio iniziale torna a ricadere su di loro. Mancando di iniziativa coraggiosa hanno bisogno di delegare, anche a proprio danno, allo Stato la funzione di allontanar l'imprevisto e il pericolo.

Qui la crisi si riassume nelle scarse attitudini degli Italiani alI'autogoverno, che le fantasie anti-parlamentari favorite dal fascismo teorizzano nel modo più sconsolante e inconscio. Lo spettro del bilancio riesce l'indice di tormenti più laboriosi che soltanto la rivoluzione dei contribuenti riuscirà a coronare. Senonché con questi discorsi siamo addirittura nei limiti della profezia. Bisogna che nuove condizioni di maturità economica preparino le aristocrazie adatte (operai, intraprenditori agricoli, capitani d'industria, principi mercanti) a sostituire il governo degli impiegati di Colombino, di Rossoni e di Farinacci.

Solo con la coscienza di questi fini la rivolta antiburocratica e l'invocazione alle iniziative regionali potranno migliorare il nostro costume politico.

 

 


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