Introduzione  (^)

  Le parole sono i tasselli per la costruzione di una argomentazione. Esse rappresentano concetti.
Nel corso del tempo può accadere che:
     -  alcune parole perdano il loro significato originario a seguito di trasformazioni nell'uso;
     -  alcune parole perdano qualsiasi significato (reale, sensato) a seguito di trasformazioni nella realtà a cui si applicavano e sono mantenute in uso solo per scopi che non hanno nulla a che vedere con una efficace e sincera comunicazione.

In entrambi i casi sarebbe più conveniente abbandonare il vocabolo e sostituirlo con qualcosa di più appropriato, funzionale, preciso.
  In ogni caso, un nuovo paradigma, capace di interpretare e di rappresentare una nuova realtà, richiede l'uso di nuovi termini.

Ciò equivale al lasciarsi alle spalle parole magiche e suadenti, utilizzate per mascherare e confondere la realtà, e far emergere vocaboli che permettano di padroneggiare la realtà in modo significativo.
  Sarebbe come passare dallo stadio dell'alchimia a quello della chimica, allorché alcuni termini vennero abbandonati, alcune pratiche vennero trasformate, alcuni obiettivi di ricerca modificati.

Alla fine, solo quando l'alchimia si sbarazzò di termini magici (ad es. flogisto), soprattutto attraverso l'attività di Lavoisier, riuscì a guadagnarsi lo status di scienza sotto il nome di chimica.
La condanna a morte e successiva esecuzione di Lavoisier da parte dei cosiddetti rivoluzionari Francesi (8 Maggio 1794) i quali dichiararono sfrontatamente che "la république n'a pas besoin de savants" [la repubblica non ha bisogno di scienziati], potrebbe essere quasi assunta come episodio emblematico della paura (da parte del nuovo potere, lo stato) della rivoluzionaria scienza chimica rispetto al magico mondo dell'alchimia.

I Giacobini e i loro seguaci e successivi imitatori non riuscirono a bloccare il progresso delle scienze fisiche, però furono in grado di introdurre ostacoli all'avanzamento delle scienze delle società e degli individui.
  È giunto il tempo di sconfiggerli anche in questo campo, liberando l'aria dei fumi mefitici e nocivi delle parole magiche e mistificatrici.

In questo scritto verranno esaminati solo alcuni termini e verranno avanzate delle proposte per l'uso di vocaboli ritenuti più appropriati.

 

Capitale  (^)

  Molte parole magiche e ingannevoli sono usate quasi esclusivamente nel campo economico. A causa di questa restrizione hanno assunto toni pesantemente negativi che trasmettono un atteggiamento negativo. Per questo motivo dovremmo tener presente che il posto di questi termini è nell'ambito dell'intero spettro delle scienze e che quindi il loro uso non dovrebbe essere ristretto alla sola economia.

  La parola 'capitale' deriva dal Latino caput = capo, testa. Come la testa nel corpo umano, intende generalmente designare qualcosa di importante, di preeminente, un fattore che gioca un ruolo chiave, essendo al centro o al principio.
Nel linguaggio corrente, oltre il campo economico, la parola viene ancora usata con questi riferimenti; la capitale di un paese è il centro politico dominante; una faccenda capitale è un problema molto importante, che deve essere affrontato urgentemente.

Contrariamente a ciò, nelle scienze sociali e particolarmente in economia, capitale è un termine di cui viene fatto un uso cattivo e improprio, che evoca l'immagine di figure obese mentre contano banconote con occhi avidi.
  Per evitare associazioni emotive che portano fuori strada, il significato etimologico originario del termine dovrebbe essere ristabilito anche nel campo economico, per cui 'il capitale' dovrebbe qualificare qualcosa di importante e centrale.

In sostanza, il termine capitale in economia dovrebbe fare riferimento al più importante fattore (di produzione) in un tempo e luogo specifici. Gli economisti classici, scrivendo in un'epoca in cui gli strumenti meccanici (ad es. il telaio meccanico) svolgevano un ruolo centrale, sostituendosi al lavoro artigianale, usarono il termine 'capitale' come sinonimo di 'capitale industriale', designando con questa parola gli strumenti meccanici di produzione (macchine, arnesi). Per questo motivo il capitalismo, o meglio il capitalismo industriale, rappresenta quel periodo storico in cui strumenti meccanici di produzione giunsero a dominare la vita sociale ed economica, sostituendo la mano esperta dell'artigiano. L'epoca del capitalismo può essere collocata storicamente, grosso modo, dalla fine del XVIII alla fine del XIX secolo.

  In un periodo successivo, con la sostituzione del capitalismo da parte dello statismo, un'altro fattore acquistò una importanza centrale e, come avvenuto in passato per il capitale industriale, ricevette la qualifica di capitale tout court. Questo nuovo fattore è il denaro, vale a dire il capitale finanziario.

  Il capitale finanziario è costituito di risorse monetarie impiegate nella produzione e distribuzione di beni e servizi
In questo ruolo, il capitale finanziario svolge una funzione centrale nella economia dello statismo; ecco perché, nell'epoca dello statismo, il controllo della moneta è più importante del controllo delle macchine e degli strumenti industriali. Sotto lo stato, il capitalismo finanziario domina il capitalismo industriale. Il capitale finanziario diventa così importante che un paese ricco, dotato di un territorio fertilissimo, può diventare una regione disastrata, almeno per un certo periodo, anche solo a causa di una amministrazione insensata della moneta da parte dello stato (come mostra la storia, dal grande crollo di Wall Street al collasso dell'Argentina).

  Al giorno d'oggi, nelle economie più avanzate delle regioni più avanzate, grazie anche alle possibilità offerte dalla tecnologia, stiamo già andando al di là dello statismo. Un nuovo fattore capitale sta apparendo sempre più sulla scena, fatto di aspetti intangibili che sono definiti come saper fare (know-how), creatività, esprit de finesse, informazione elettronica (digital information), arte della risoluzione di problemi (problem solving).

Il nuovo fattore capitale dell'era del post-statismo è il capitale virtuale, che rimpiazza e si impone sul capitale industriale e sul capitale finanziario.
  In sostanza, si potrebbe affermare che durante gli ultimi secoli vi sia stato un attore (l'essere umano) e tre fattori centrali di produzione, cioè capitale, successivi l'uno all'altro, e cioè:
     -  il capitale industriale (macchine): si fa riferimento alle risorse fisiche, in special modo a strumenti e arnesi impiegati nella produzione;
     -  il capitale finanziario (moneta): si fa riferimento alle risorse circolanti e in particolare alle disponibilità finanziarie;
     -  il capitale virtuale (mente): si fa riferimento alle risorse immateriali che hanno a che fare con la creatività e con la progettualità e che vengono incorporate in prodotti e servizi.

  Nella fase attuale stiamo assistendo all'emergere e al prevalere del capitale virtuale (il dominio della conoscenza, della comunicazione, del software, ecc.). Quanto più questo processo avanza, tanto più l'identificazione del capitale con le macchine e, soprattutto, con il denaro, verrà accantonata e superata e con essa, forse, anche l'uso ideologico del termine capitale.

   Inoltre, la fine delle monete e delle banconote in quanto entità tangibili e la loro sostituzione con tutta una serie di mezzi per il saldo delle transazioni, alternativi e particolari (salvadanai elettronici, buoni, permuta, ecc.) faranno sì che la figura dell'avido Scrooge, intento a contare sodi, diventi totalmente obsoleta, rendendo al tempo stesso piuttosto impraticabile il lavorio di torchiatura fiscale degli individui da parte dello stato. A quel punto, il termine capitale sarà diventato un vocabolo normale, di importanza più o meno capitale, secondo i casi.

 

Interesse  (^)

  L'etimologia della parola interesse (inter + esse) fa riferimento ad una relazione, vale a dire a qualcosa che esiste (esse) tra (inter) due o più entità.
La sostanza in essere tra le entità (qualcuno-qualcosa; qualcuno-qualcun'altro) è ciò che suscita sentimenti di partecipazione, simpatia, curiosità, vale a dire: interesse.

  All'interno del nuovo paradigma, gli interessi sono visti nella maniera seguente:
     -  gli interessi sono sempre personali. Non esistono interessi cosiddetti pubblici se non in quanto interessi personali, vale a dire interessi personali condivisi o, in altre parole, interessi personali in comune.
     -  gli interessi sono segni di vitalità. Una persona senza interessi non esiste se non come corpo senza vita; una persona che mostra scarso interesse nelle cose che fa è una persona scontenta e turbata.
     -  gli interessi sono buoni (positivi, creativi) o cattivi (negativi, distruttivi) non in base a colui che li manifesta (l'attore), ma in base all'azione (la sostanza dell'interesse) e al modo in cui viene espressa/portata a termine.

  Sulla base di queste precisazioni e facendo riferimento al nuovo paradigma, si suggerisce quanto segue:
     -  l'applicazione ristretta della parola 'interesse' (senza ulteriori qualificazioni) al campo economico, dovrebbe essere abbandonata a vantaggio di un uso che catturi nuovamente l'ampiezza e la ricchezza del significato etimologico del termine;
     -  l'espressione ingannevole di 'pubblico interesse' dovrebbe essere abolita e sostituita da concetti ricchi di significato quali 'interesse personale' e 'interesse personale comune';
     -  l'attenzione dovrebbe essere focalizzata sul contenuto dell'interesse e sul modo in cui esso viene espresso senza lasciarsi portare fuori strada da aspetti secondari o non rilevanti (i portatori di interessi, le prescrizioni legali, ecc.). Ad esempio, non è perché lo stato legalizza i bordelli o giustifica la pena capitale che l'essere un ruffiano o un boia diventano attività onorevoli a cui attribuire un alto pregiato interesse.

 

Profitto  (^)

  Profitto è una di quelle parole che sono maggiormente cariche di forti toni negativi, dal punto di vista emotivo.
Non dovrebbe essere così se consideriamo il termine nella sua etimologia: profitto deriva da pro + facio, vale a dire faccio (facio) qualcosa in favore (pro) di qualcuno (me stesso o qualcun'altro).

  A causa dell'ossessione per gli aspetti economici, che caratterizzava in precedenza il capitalismo e che, ancor più, domina attualmente lo statismo, il termine profitto viene usato quasi esclusivamente per designare guadagni monetari ottenuti attraverso la vendita di beni o servizi.
Inoltre, viene (quasi sempre) assunto in maniera implicita che il profitto dell'altra persona (di solito definito esorbitante) è in diretta relazione causale con le mie perdite, in quanto risultato di sfruttamento o di inganno.

  Questa visione della realtà sociale prevale anche quando non sussistono dati di fatto per sostenerla. Ciò perché nessuna distinzione viene operata tra differenti tipi di relazioni sociali.
   Le relazioni sociali possono essere viste come una serie di giochi. Questi diversi giochi possono essere disposti su di un continuum e venire caratterizzati come:

Giochi a somma positiva

Le regole del gioco consentono a tutti i partecipanti di conseguire un risultato positivo, se non immediatamente, almeno nel medio-lungo periodo. Questa è la situazione che si incontra nell'area dello scambio sociale libero (ad es. la comunicazione).

Giochi a somma zero

Le regole del gioco consentono solo ad uno dei due o più giocatori di conseguire un risultato positivo. Questa è la situazione che si incontra nei tornei ricreativi (scacchi, dama, carte, ecc.) o sportivi (pallacanestro, calcio, tennis, ecc.). Tuttavia, anche in questo caso, i giocatori, possono talvolta, ottenere entrambi qualcosa, ad esempio nel caso di un pareggio o per il fatto stesso di prender parte ad un evento sportivo importante.

  Potremmo definire i giochi a somma positiva come quelli in cui prevale la cooperazione e i giochi a somma zero come quelli in cui la competizione gioca un ruolo maggiore, senza per questo attribuire una preferenza morale all'uno o all'altro in quanto entrambi sono necessari per l'operare e il prosperare di individui e comunità.

   In generale, i giochi che hanno luogo tra produttori sono, soprattutto, giochi di competizione e quelli tra produttori e consumatori sono, soprattutto, giochi di cooperazione in quanto tutti i partecipanti dovrebbero ricavare un qualche vantaggio dal prenderne parte. In questo caso, la relazione produce, o dovrebbe produrre, perché il rapporto sia destinato a continuare, quello che in francese si chiama un "benefice partagé" (beneficio condiviso).

   L'insieme della realtà è composta da un misto di cooperazione e di competizione e, in molti casi, una competizione libera e leale (in altre parole, emulazione) costituisce uno stimolo e un progresso verso una cooperazione bella e fruttuosa (ad esempio, tra i componenti di una squadra). E, in questo caso, il beneficio risulterebbe maggiore per tutti (giocatori, spettatori, ecc.).

   Se si lascia che i giochi di cooperazione e di competizione abbiano luogo senza interferenze, le aree rispettive dei giochi a somma positiva e a somma zero dovrebbero occupare tanto spazio quanto richiesto dai bisogni e dagli interessi degli individui e delle comunità.
  L'opposto avviene quando appare sulla scena un potere monopolistico, ad esempio lo stato, in grado di assumere o assegnare posizioni monopolistiche (ad es. diritti esclusivi di sfruttamento). In questo caso, l'area dei giochi a somma zero arriva a coprire quasi tutto lo spazio e, sotto la protezione dello stato, i guadagni dei produttori crescono in rapporto diretto con i costi inflitti ai consumatori (ad es. prezzi elevati, qualità scadente, scelta ridotta, ecc.).

   Il pro-fitto diventa il mis-fatto, vale a dire il guadagno estorto da produttori inefficienti e arraffoni, sotto l'ombrello dello stato, nei confronti di consumatori sfiduciati e indifesi. Questa era ed è ancora la situazione in tutti gli stati in cui esistono monopoli controllati, assistiti o protetti dallo stato. In questo caso ha una sua giustificazione il sentimento e l'atteggiamento emotivo negativo che suscita la parola profitto.
Eppure, il termine ha ancora una funzione utile e dovrebbe perciò essere riportato al suo significato etimologico originario, di pari passo con la progressiva estinzione dello stato.

Nell'ambito del nuovo paradigma:
     -  la parola profitto dovrebbe perdere la sua semi-esclusiva applicazione al campo economico e dovrebbe essere utilizzato in tutte le situazioni in cui emerge qualcosa di positivo;
     -  la parola profitto, quando viene utilizzata nel campo economico (vale a dire nell'ambito non-monopolistico) dovrebbe perdere l'attuale automatica associazione con l'immagine di guadagni eccessivi e immeritati derivanti dallo sfruttamento di lavoratori o dall'inganno dei consumatori;
     -  la parola profitto, quando viene utilizzata in riferimento a pratiche monopolistiche, dovrebbe essere sostituita da termini più appropriati quali, ad esempio, rendite di posizione, soprattasse, sovraccarichi, espropri, requisizioni, ecc., o, quando necessario, da vocaboli chiari e semplici quali rubare, ingannare, sottrarre e così via.

  La rimozione di sensazioni emotive ingannevoli associate all'esistenza del profitto in quanto tale (tutto sommato, un risultato positivo) dovrebbe permettere al pensiero critico di concentrarsi sui punti essenziali della realtà, vale a dire come si è generato il profitto, e cioè se attraverso la produzione e vendita di armi o quella di arance e, nel caso delle arance, se esse erano gustose e saporite o aspre e immangiabili. Queste sono le vere domande che ci dobbiamo porre senza lasciarci sviare da un uso della parola profitto discutibile in quanto mistificante.

 

Mercato  (^)

  Una parola abusata e disprezzata per un lungo periodo e che, da parte di alcuni, viene recuperata con una carica positiva è la parola 'mercato'.
   In passato, il mercato, antropomorfizzato, è stato accusato di ogni sorta di atrocità (imperialismo, guerre, schiavitù, ecc.) che erano, nella realtà dei fatti, perpetrate da persone fisiche al potere contro esseri umani senza potere e perciò indifesi.

   L'attribuire la maggior parte del male all'avidità di persone che operavano nello scenario del mercato mondiale ha consentito di fabbricare ad arte la giustificazione 'morale' per l'intervento degli stati nazionali sul mercato al fine di addomesticare e controllare il 'mostro'.
   Infatti, lo stato, essendo una macchina di guerra, e seguendo una filosofia economica (il mercantilismo) basata sulla rivalità e sulla razzia, poteva vedere nel mercato soltanto una forza di competizione distruttiva, ignorando totalmente (o passando astutamente sotto silenzio) gli aspetti di cooperazione (tra produttori e consumatori che agiscono per il reciproco-personale profitto) e di emulazione (industrie che migliorano i loro prodotti gareggiando tra di loro).

   Inoltre, l'idea che lo stato può regolare il mercato per il cosiddetto bene 'pubblico' (vale a dire, bene comune) più e meglio dello stesso 'pubblico' (vale a dire, ogni individuo singolarmente o in associazione), è teoricamente risibile ed empiricamente mendace. Soprattutto se si considera il fatto che il mercato dominato dallo stato era, ed ancora è, in taluni casi, basato su monopoli statali (gas, elettricità, telefoni, radio, tv, trasporto aereo, ferrovie, servizi postali, etc.), subdolamente chiamati monopoli naturali o pubblici monopoli, come se la natura avesse qualcosa a che vedere o il pubblico avesse qualcosa da rallegrarsi a motivo di prezzi continuamente in crescita a causa della mancanza di concorrenza, conseguenza diretta del protezionismo e interventismo statali.

  La soppressione del libero mercato e l'imposizione del mercato controllato, ha permesso allo stato di giocare, in maniera più efficace, due ruoli basilari, indispensabili per la sua sopravvivenza:
     -  esattore fiscale. Lo stato ha bisogno di controllare l'economia per assicurarsi una determinata quota di entrate. La maggior parte di queste entrate derivano da un sovrapprezzo nella fase di acquisto di beni e servizi (IVA). Il controllo del mercato è quindi essenziale per lo stato in quanto esattore fiscale.
     -  distributore di favori. Il mercato posto sotto il controllo dello stato rappresenta la riserva di caccia per le imprese controllate o protette dallo stato. Nel corso della loro esistenza, queste imprese hanno funzionato come centri per la distribuzione di tutta una serie di favori (denaro, posti di lavoro, ecc.) per la cricca al potere e per i suoi manutengoli.

  Verso la fine del XX secolo, con i monopoli statali che, al pari di giganteschi dinosauri, marciavano verso l'estinzione (vale a dire la bancarotta), e con un insieme abnorme di regolamenti statali che strangolavano la libera iniziativa degli individui e conducevano la società verso la recessione e la depressione, l'idea di un mercato controllato dallo stato non trova più il favore unanime della stampa popolare.

   È proprio adesso quindi che coloro che da molto tempo sono i difensori della libertà, coloro che hanno assistito con angoscia all'assalto del libero mercato da parte dello stato, vedendo in ciò, giustamente, un assalto alle libertà personali, proprio essi non dovrebbero commettere l'errore di fermarsi di fronte alla riscoperta del libero mercato (peraltro non ancora così libero come si vorrebbe far credere) ponendolo come il loro ultimo obiettivo. E questo essenzialmente per due ragioni:

      -  una ragione storica
         Nel corso della storia, re e governanti hanno, generalmente, favorito i mercanti e il loro commercio con lo scopo di riempire i loro forzieri. Lo stato e il mercato non sono termini antitetici. Infatti, mercantilismo è il nome attribuito alla ideologia economica dello stato. Lo stato, dunque, non è contro il mercato ma contro l'assenza di controllo e di possibilità di tassazione del mercato; vale a dire, contro ogni libero rapporto (transazione) in cui gli individui sono liberi di badare, senza interferenze, ai loro interessi, in quanto produttori e consumatori, in un processo che ha come fine la distribuzione e la moltiplicazione di benefici per tutti.
Per questo motivo, qualsiasi fenomeno vada nella direzione della libertà dovrebbe essere promosso, senza porre eccessivamente l'accento su un aspetto specifico, come sarebbe nel caso si privilegiasse esclusivamente il mercato.

      -  una ragione semantica
         Il termine mercato trova appropriata applicazione ad un tempo e ad una società basati essenzialmente su beni materiali, in cui le transazioni hanno luogo in un posto specifico, fosse esso la "piazza del mercato", o la "foire" (fiera), dove convergono i commercianti per mostrare e vendere le loro mercanzie. Il termine mercato appare molto meno appropriato ad un tempo e ad una società in cui i servizi prevalgono sulla merce, il software sull'hardware, la virtualità sulla materialità. In questa società, affermare che qualcuno ha acquistato un programma gestionale o un libro elettronico al mercato, suona piuttosto strano, mentre suona perfettamente naturale e appropriato quando l'acquisto fa riferimento a frutta e verdura.

  Prima e parallelamente al mercato, esistevano ed esistono varie altre maniere di caratterizzare il rapporto socio-economico. Nell'ambito del nuovo paradigma, occorrerebbe usare vocaboli che raffigurano azioni che esprimono l'intera gamma di transazioni, non adeguatamente colte dal termine 'mercato'. Questi termini che esprimono azioni/transazioni sono:

 - Scambio (Scambiare) Lo scambio coinvolge due persone o gruppi di persone specifiche. Il termine scambio dà l'idea della reciprocità e comprende ogni sorta di transazione (monetaria e non-monetaria, con buoni di pagamento, scambi di prestazioni, e così via).

 -  Condivisione (Condividere) La condivisione coinvolge parecchie persone, talvolta che non si conoscono tra di loro. In una società basata sulla conoscenza, il condividere sta diventando un dato di fatto molto comune ed esteso a parecchie persone. Ad esempio, le persone condividono il loro sapere in una molteplicità e varietà di modi (ad es. attraverso il Web) che, spesso, non viene affatto colta in tutta la sua importanza.

 -  Dono (Donare) Un numero considerevole di rapporti socio-economici (maggiore di quanto possiamo immaginare) si basa sul dare gratuitamente cioè sul donare. In questo caso, ciò che uno riceve (almeno in termini materiali e nel breve periodo) è meno di ciò che viene dato liberamente; al tempo stesso, l'effetto a livello personale e sociale è una gigantesca diffusione e moltiplicazione di simpatia e di volontà a fare il bene.

  Queste tre azioni/transazioni, dallo scambiare al donare, possono essere viste come su di un continuum, dal rispondere al comportamento altrui (scambiare = reciprocare il rapporto di scambio) allo stupire con il proprio comportamento (donare = iniziare il rapporto di dono).
In sostanza, pur conservando il termine 'mercato' in quanto vocabolo utile nell'ambito delle semplici transazioni economiche che hanno per oggetto beni materiali di uso corrente (alimenti, vestiti, ecc.) o materie prime (petrolio, carbone, ecc.), negli altri casi sarebbe più appropriato iniziare ad usare questi tre vocaboli: scambio, condivisione, dono. Anche perché, più li utilizziamo, più si diffonde e si presta attenzione alla realtà che essi rappresentano.

 

Lavoro - Occupazione  (^)

  Nel corso della storia, agricoltori, artigiani, mercanti, per quanto dure fossero le condizioni di vita, nondimeno erano indipendenti nella condotta delle loro attività. Anche gli apprendisti erano solo temporaneamente lavoratori dipendenti, giusto il periodo necessario per apprendere il mestiere prima di mettersi in proprio. I contadini coltivavano il loro campo e, quando si erano stancati di versare la decima o di eseguire alcuni lavori per il signore locale, potevano sempre raccogliere i loro beni e partire, di solito in direzione di una città. La rivoluzione urbana che ebbe luogo durante il Medio Evo testimonia il fatto che i signori feudali raramente furono in grado di richiamare indietro con la forza i contadini che avevano abbandonato i campi.

   È solo negli ultimi due secoli (XIX e XX) che le persone si sono trasferite, sempre più, da una attività indipendente ad un lavoro dipendente.
  Nei tempi moderni, sono emersi vasti complessi industriali e burocratici, occupati da un esercito di lavoratori in una situazione lavorativa che li ha portati a diventare, sempre più:
    -  dipendenti
   Assunzione, esecuzione del lavoro, licenziamento, in una parola, l'intera vita lavorativa dell'individuo è stata posta nelle mani del padrone. Anche dopo prodigiosi miglioramenti nelle condizioni lavorative, questa situazione di dipendenza non è scomparsa se non dove i lavoratori sono diventati partecipanti e soci nell'impresa.
    -  scoraggiati
   Una occupazione dipendente è diventata una occupazione da tenersi cara per tutta la vita, anche se ciò significava la fine di ogni speranza di un futuro migliore. Tutto ciò era il risultato di un sentimento di insicurezza e di una ancor più grande mancanza di fiducia nella propria capacità di autonomia.
    -  ottusi
   L'ottusità di un lavoro che è sempre lo stesso, ha intorpidito le facoltà mentali dell'essere umano. Ciò è ancora più vero quando un lavoro inutile e disfunzionale (ad es. il lavoro burocratico) viene profumatamente remunerato (ad es. alti funzionari dello stato). L'ottimo salario serve solo a coprire un lavoro assurdo ed insensato.

  In presenza di questa situazione, non è quindi sorprendente che individui che avevano perso l'abitudine di giocare un ruolo autonomo e di svolgere una attività indipendente, siano stati affascinati ed attratti da chiunque ponesse sulle proprie insegne le magiche parole: 'lavoro' ; 'occupazione' ; 'pieno impiego'.

  Questa situazione ha però subito un cambiamento verso la fine del XX secolo: lo stato, il maggiore produttore di dipendenza, scoraggiamento e ottusità, è in ritirata, e un nuova realtà si impone, fatta di milioni di computers e di robots che eseguono o aiutano nell'esecuzione delle funzioni più ripetitive e dei compiti meno creativi.

  A seguito di questi notevoli cambiamenti nella tecnologia, nei suoi usi sociali e nelle sue potenzialità, le parole 'lavoro' e 'occupazione' richiedono una totale revisione.
  Vi sono perciò notevoli differenze tra il vecchio e il nuovo paradigma, che devono essere sottolineate:
     -  il vecchio paradigma attribuiva notevole importanza alla sicurezza del posto di lavoro e alla delineazione precisa  delle mansioni; il nuovo paradigma mette in luce l'autonomia e la creatività;
     -  il vecchio paradigma assegnava un punteggio elevato ad una società con un elevato numero di persone occupate in un lavoro dipendente; il nuovo paradigma considera più avanzata e più civilizzata una società con un numero ridotto di persone relegate in lavori dipendenti e con la maggior parte degli individui impegnati in attività autonome.

  In sostanza, il nuovo paradigma richiede:
     -  la sostituzione del termine lavoro con il concetto di attività e con le immagini ad esso associate di iniziare, organizzare, essere coinvolti in attività.
     -  l'abbandono  definitivo della parola 'occupazione', questo vocabolo magico che ha riempito le bocche di innumerevoli rappresentanti politici e sindacali.

  Nella realtà, ciò che sta avvenendo nelle esperienze più stimolanti e più incoraggianti, è un passaggio continuo da un lavoro dipendente, spesso scoraggiante ed ottuso ad attività indipendenti, di solito creative ed interessanti.
Queste attività possono essere di tipo manuale o intellettuale o, meglio, potrebbero fondere in varia maniera questi due aspetti in quanto ciò sarebbe moralmente soddisfacente, mentalmente gratificante e fisicamente salutare per l'organismo umano.

   Inoltre, nessuno, a meno che lo desideri espressamente, dovrebbe essere bloccato, per tutta la vita, in una specifica mansione, in una stesa località, con tempi e metodi di lavoro imposti da un potere esterno. Al contrario, ognuno dovrebbe essere impegnato in attività varie durante il corso della sua vita, e in compiti vari durante il corso di una attività. Ad esempio, alcune mansioni dovrebbero essere eseguite da tutti, a turno, come in un gruppo di soci in cui, ad intervalli regolari, gli aderenti svolgono le funzioni necessarie per il normale funzionamento dell'associazione.

   Per cui, al di là del passaggio dal termine 'lavoro' al termine 'attività', una concezione di vita totalmente nuova dovrebbe apparire all'orizzonte, raffigurante un mondo nuovo che si sta già formando intorno a noi.

 

Anarchia  (^)

  Il termine 'anarchia' rappresenta l'apice delle parole magiche, un vocabolo a cui sono state attribuite le peggiori connotazioni, condivise da molti attratti o manipolati dalla ideologia dello statismo.

   Nel suo articolo del 1905, redatto per l'undicesima edizione dell'Enciclopedia Britannica, Piotr Kropotkin chiarisce fin dall'inizio la corretta etimologia della parola anarchia, e cioè an + arché = contro il dominio. Con questo termine si intende dunque trasmettere il senso di opposizione a un potere supremo che vuole controllare e costringere tutti e tutto, come è il caso di ogni governo di uno stato centralizzato. Questo diniego dell'oppressione significa un rifiuto ad essere sottoposto ad un centro di potere, esterno (non liberamente scelto) e totalizzante (dominante ogni aspetto del vivere).

   L'appellativo di anarchico potrebbe essere assegnato a tutti coloro che si sono battuti contro il potere, cioè il dominio, da Benjamin Franklin e il Mahatma Gandhi (contro il dominio Britannico) a Martin Luther King e Nelson Mandela (contro il dominio dell'uomo bianco), almeno durante il periodo in cui essi erano impegnati nella lotta. In molti casi, questi combattenti per la libertà furono davvero tacciati come anarchici e i loro nomi e profili erano negli archivi della polizia di stato, oltre ad essere visitatori regolari o ospiti permanenti delle prigioni statali.

  Basandosi, giustamente e correttamente, sul significato etimologico originario, molti studiosi hanno dato alla parola 'anarchia' una valenza estremamente positiva.

   Per Kant, l'anarchia è l'unione tra la libertà e le norme in assenza di costrizione (1798, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht).

   John Dewey, respingendo l'uso disonesto della parola come sinonimo di caos e assenza di ogni freno, afferma che "even the theoretical anarchist, whose philosophy commits him to the idea that state or government control is an unmitigated evil, believes that with the abolition of the political state other forms of social control would operate: indeed, his opposition to governmental regulation springs from his belief that other and to him more normal modes of control would operate with abolition of the state." ["anche il teorico dell'anarchia, la cui filosofia si basa sull'idea che il controllo da parte dello stato o del governo è una terribile calamità, ritiene che con l'abolizione del potere politico dello stato altre forme di controllo sociale inizierebbero ad operare: infatti, la sua opposizione ad una regolamentazione governativa deriva dal fatto di credere che, con l'abolizione dello stato, altri e, secondo lui, più normali modi di controllo diventerebbero operativi"] (1938, John Dewey, Experience and Education)

  Purtroppo, l'anarchico che, durante tutto il corso della sua vita, rimane coerente alle sue idee, è un ribelle destinato a fallire, almeno per quanto riguarda la politica, in quanto la politica ha a che fare con l'accaparramento e il mantenimento del potere e il vero anarchico non è per nulla interessato in una competizione in cui il premio finale è il potere, vale a dire il dominio su individui e comunità. Gli anarchici, non solo sono in opposizione al potere, essi non aspirano al potere. Se avessero successo in politica, verrebbero definiti patrioti o uomini di stato, e ciò significherebbe che essi hanno fallito, totalmente e senza giustificazioni, come anarchici. Questa è anche la ragione principale per la quale, nel gioco della politica, sono stati regolarmente isolati e schiacciati dal vecchio potere costituito che non sono riusciti a cancellare o dal nuovo potere trionfante che non sono riusciti a bloccare. Essi si trovavano coinvolti in un gioco a loro totalmente estraneo.

  La storia delle persone che sono vissute e si sono battute per l'anarchia, è un lungo racconto fatto di deportazioni, incarcerazioni, esecuzioni capitali. Una cronaca di violenze sofferte molto più che di violenze commesse. Per compilare una lista delle persone (re, capi di stato) uccise dagli anarchici, sarebbe sufficiente un piccolo pezzo di carta; per elencare i crimini (omicidi e genocidi) commessi dagli stati, parecchi volumi non basterebbero.

  Lo stato si è servito degli anarchici come un utile e provvidenziale capro espiatorio. Si trattava, per lo più, di esseri umani impotenti, isolati, di cui praticamente nessuno si sarebbe occupato o preoccupato nel momento dell'arresto o della condanna. Essi, e le loro presunte attività violente, costituivano inoltre la necessaria giustificazione per l'introduzione di ulteriori misure autoritarie (più polizia, più controlli, ecc.) che producevano l'illusione della sicurezza sotto le ali 'protettive' dello stato.

  Il fatto che il termine "anarchia" evochi tuttora violenza e disordine e il termine "stato" sia, anche dopo due guerre mondiali, incredibilmente associato all'idea di pace e ordine, può essere spiegato in vari modi quali, ad esempio:
     -  Provocazioni. Il movimento anarchico si basava su una libera, non ben definita, organizzazione (o mancanza di organizzazione). Ciò ha consentito allo stato di infiltrare il movimento con ogni sorta di informatori e sabotatori. Talvolta, atti di violenza sono stati istigati da questi agenti provocatori di modo che la polizia potesse intervenire e mostrare che lo stato era il vero garante dell'ordine e della sicurezza.
     -  Propaganda. Gli anarchici erano, per lo più, individui isolati, costretti a muoversi da un luogo all'altro, impossibilitati a controbattere le menzogne e le contraffazioni messe in opera dallo stato, il cui controllo dei mezzi di comunicazione crebbe parallelamente all'indebolimento nella diffusione delle idee anarchiche.
     -  Puerilità. Le persone ignoranti della pratica e dei fini dell'anarchismo esistevano non solo all'esterno del movimento anarchico ma anche al suo interno. Talvolta, anche coloro che si professavano anarchici propugnavano soluzioni che erano più in sintonia con un volgare egoismo che con una saggia auto-realizzazione. Altri che si unirono al movimento erano motivati da ragioni che nulla avevano a che fare con l'anarchia, spacconi che parlavano a vanvera di bombe e sangue, giusto per fare impressione, e che, in tal modo, facevano esattamente il gioco dello stato.

  La combinazione di questi tre aspetti, l'uno rinforzante l'altro, condusse quasi inevitabilmente alla scomparsa del movimento anarchico e all'ascesa dello statismo. Al tempo stesso, la parola "anarchia" divenne un epiteto minaccioso e ingiurioso, che si applicava a teppisti e violenti, senza che, praticamente, nessuno contestasse questo uso mendace del termine.
   Il vocabolo sembra perciò, adesso, almeno nel breve periodo, del tutto irrecuperabile.
   Per questa ragione, occorre utilizzare termini nuovi, o apparentemente nuovi, che pongono l'accento soprattutto sulla costruzione di qualcosa di nuovo più che sulla opposizione a qualcosa di detestabile.

  Nell'ambito del nuovo paradigma e con riferimento agli atteggiamenti e ai comportamenti degli individui, si potrebbero utilizzare i termini:
     -  libertario, sottolineando gli aspetti di libertà e di autonomia, vale a dire di auto-regolazione;
     -  cosmopolita, sottolineando il fatto di essere cittadino del mondo, che si sente a casa in qualsiasi luogo in cui si praticano la libertà e il rispetto per ogni essere umano.

  Con riferimento all'organizzazione di individui in comunità, e prendendo il termine arché con il significato di inizio/fonte, si potrebbero utilizzare i termini:
     -  poliarchia, sottolineando l'aspetto di varietà di realtà/entità che cooperano in tempi e luoghi differenti;
     -  panarchia, sottolineando l'aspetto di varietà di realtà/entità che competono nello stesso tempo e luogo.

In tal modo, il viaggio, personale e pacifico, al di là dello statismo, può essere condotto concentrando tutte le energie nel concepire/costruire il futuro più che nel recriminare/respingere il passato.

 

Destra - Sinistra  (^)

  La divisione destra-sinistra è uno dei tanti lasciti, inutili e obsoleti, del tempo della Rivoluzione Francese del 1789. Al tempo dell'Assemblea degli Stati Generali, per facilitare la conta dei voti riguardo all'opportunità o meno di mantenere il potere di veto da parte del re, la nobiltà (a favore del veto) si raggruppò alla destra del presidente dell'assemblea, mentre i componenti del Terzo Stato si collocarono alla sua sinistra. Come al solito, vinsero quelli al centro, con la loro proposta di compromesso che prevedeva di conservare il veto ancora per due anni.

   Da quel momento in poi, e da così modeste origini (la conta dei voti), la divisione destra-sinistra ha fatto presa in politica come modo rapido per caratterizzare e distinguere i conservatori e reazionari (destra) dai progressisti e rivoluzionari (sinistra).
   L'affermarsi di questa coppia di parole derivò anche dall'esistenza in alcune società Europee (ad es. la Francia del XIX secolo) di accesi contrasti tra idee e gruppi (ad es. Monarchici contro Repubblicani) in cui una parte rappresentava, o veniva presa a rappresentare, la tradizione e la conservazione (il passato) mentre l'altra impersonificava l'innovazione e il progresso (il futuro).

   Accanto a questo contrasto che concerneva la forma istituzionale dello stato, una nuova contrapposizione faceva il suo ingresso sulla scena e cioè quella tra borghesia (imprenditori industriali) e proletariato (lavoratori manuali). Nella sfera politica, gli interessi di questi due gruppi sociali vennero assunti da partiti che si definirono di destra o di sinistra in base alla posizione dei seggi dei loro membri eletti al Parlamento.
   Nell'ambito di questa versione riveduta e aggiornata, la destra sosteneva i valori della libertà e del nazionalismo mentre la sinistra propugnava quelli dell'uguaglianza e dell'internazionalismo.

  Nel corso del XX secolo, l'uso delle categorie di destra e sinistra, a cui venivano associate queste caratteristiche contrastanti, vale a dire
     -  libertà contro uguaglianza
     -  nazionalismo contro internationalismo
  si è mostrato del tutto inadeguato.

  Infatti, la pretesa difesa della libertà della destra poteva benissimo includere il totalitarismo statale e, per quanto riguarda le faccende economiche, il tanto vantato liberismo (laissez-faire) accoglieva, con la maggiore naturalezza possibile, il più rigoroso protezionismo.

   Per quanto riguarda la sinistra, Stalin definì con disprezzo l'egualitarismo come "deviazione piccolo-borghese" per cui una accentuata disuaguaglianza nei salari divenne, proprio nella terra del 'socialismo reale', un dato di fatto essenziale nella vita dei lavoratori.

   Quanto al contrasto nazionalismo-internazionalismo, questo risultava, più che altro, un mito inventato a bella posta. Durante la prima metà del XX secolo, quasi tutti coloro che erano impegnati in politica esprimevano, nei fatti, posizioni nazionalistiche; la maschera del vantato internazionalismo finalmente cadde quando la maggior parte dei partiti socialisti in Europa abbracciarono la guerra e le politiche nazionaliste e i partiti comunisti teorizzarono il socialismo in un solo paese e il comunismo in versione nazionale.

  Emerge dunque chiaramente, da quanto detto, che la divisione destra-sinistra è, soprattutto ai giorni nostri, solo una sorta di gioco politico, un gioco delle parti privo di qualsiasi sostanza seria e coerente.
   In linea generale si può affermare che, per quanto riguarda gli aspetti più importanti dell'esistenza, la qualificazione destra-sinistra non ha alcun significato. Questo è vero soprattutto se si esaminano gli atteggiamenti e i comportamenti nei confronti della promozione della libertà e della conservazione della natura. La libertà e la natura non sono né di destra né di sinistra.

   Inoltre, le dinamiche sociali e i loro protagonisti (ad es. la cosiddetta globalizzazione, le migrazioni, gli organismi non governativi, ecc.) non possono essere esaminati e compresi in maniera sensata attraverso le lenti deformanti della divisione destra-sinistra.
   Infine, ciò che colpisce di più in tutta questa mascherata senza senso di destra e sinistra, è il fatto che, su molti aspetti della vita corrente, individui e uomini politici che dichiarano di essere su posizioni opposte, presentano gli stessi (falsi) rimedi, usando le stesse (mendaci) argomentazioni, impiegando la stessa (vuota) fraseologia. Talvolta, taluni di essi cambiano di collocazione politico, indossano un'altra maschera, e il gioco (o la burla) va avanti come se nulla fosse.

  Tutto ciò è reso possibile da una situazione in cui è consentito ad alcune persone (chiamate rappresentanti del popolo) di riunirsi un un'aula (chiamata parlamento) e viene data loro la facoltà di intromettersi nella vita di ogni essere umano e di prendere decisioni vincolanti per ognuno. Questo favorisce la formazione di due fazioni contrapposte, contendentesi il favore popolare, che si differenziano solo per i loro contrassegni esterni (destra, sinistra) ma che, ad un esame attento e approfondito, risultano indistinguibili per quanto riguarda tutto il resto (valori, idee, progetti, azioni, ecc.); tranne che, naturalmente, per il tentativo di accaparrare vantaggi per la propria parte.

    Attualmente, queste categorie stanno diventando sempre più prive di collegamento con la realtà; probabilmente, molto presto si raggiungerà un punto in cui le assurdità generate dal loro uso saranno così evidenti anche ai giornalisti e commentatori politici più sprovveduti che questi due vocaboli verranno di colpo abbandonati come se fossero un relitto del passato (come gli appellativi di Guelfo e Ghibellino).
   Dobbiamo accelerare questo processo.

Destra e sinistra sono e devono rimanere semplici vocaboli per indicare la posizione e la direzione di una entità materiale. Nel discorso politico ed etico, dobbiamo fare uso di termini che esprimono asserzioni molto più precise e robuste, che indicano ciò che si è deciso o si deciderà, ciò che si è fatto o ciò che si farà in riferimento ad un problema specifico.
   In questo caso, se sussistono differenze tra due posizioni, esse saranno reali e non fittizie.
   A quel punto potremo valutare le decisioni e le azioni sulla base di valori precisi e non sulla scorta di parole vuote.
   In tal modo l'alienazione verrà a cadere ed emergeranno decisioni ed azioni concrete associate a diritti e doveri reali.

  Già nel 1937, Ortega y Gasset, nel suo Prologo a "La rebelión de las masas," aveva espresso una delle migliori caratterizzazioni di cosa significhi accettare la divisione/qualificazione destra-sinistra: "Ser de la izquierda es, como ser de la derecha, una de las infinitas maneras que el hombre puede elegir para ser un imbécil: ambas, en efecto, son formas de la hemiplejia moral." ["Essere di destra o essere di sinistra vuol dire scegliere uno dei molti modi che si presentano ad una persona per essere un imbecille; entrambi sono, in realtà, forme di paralisi morale"].

 

Liberté - Egalité - Fraternité  (^)

  La Rivoluzione Francese ha posto sulle sue insegne e lasciato in eredità alle generazioni a venire, impresse nelle menti degli individui, tre magiche parole: Liberté, Egalité, Fraternité.
   Mentre si riconosce un valore eterno a queste tre parole, occorre però aggiungere che esse sono talvolta usate in modo convenzionale e ritualistico da persone che, in teoria, professano la loro adesione a tali valori senza che poi seguano, nella pratica, comportamenti coerenti con quei valori. Sarebbe allora meglio se termini più precisi venissero impiegati al fine di produrre gli stessi sentimenti, atteggiamenti e comportamenti legati a questi vocaboli ma in una maniera più chiara e più impegnativa.

Liberté (Libertà)
  In un famoso scritto, Montesquieu afferma che la libertà consiste "nel diritto di fare tutto ciò che la legge ci permette di fare".
Dal momento che il pensiero politico e giuridico del mondo occidentale è stato plasmato in maniera notevole dagli scritti di Montesquieu, la concezione che la libertà consista nell'agire entro i limiti della legge, dovrebbe essere presa ed esaminata in quanto essa rappresenta, tuttora, una interpretazione del termine ampiamente accettata.

   All'epoca di Montesquieu si utilizzava il termine 'legge' in riferimento, soprattutto, alla 'legge naturale' vale a dire ai diritti inviolabili e inalterabili dell'essere umano (la legge come espressione della ragione umana), piuttosto che in riferimento alla 'legge positiva' (la legge come espressione del potere statale).
  Da quei tempi lontani, le vicende politiche e giuridiche prodottesi in molte parti del mondo hanno spinto in direzione della democrazia rappresentativa, in cui individui eletti si riuniscono in un Parlamento per elaborare e promulgare leggi vincolanti per tutte le persone che vivono all'interno di un certo territorio, soggetti a una certa giurisdizione.

   A seguito di questo passaggio, da leggi 'naturali', derivanti da principi etici razionali e da consuetudini consolidate, a leggi 'positive', promulgate da rappresentanti eletti, la legge è diventata una materia plasmabile, legata ai desideri della maggioranza elettorale e alla volontà del potere politico in carica.
   All'interno di questo scenario, potrebbe accadere (come è accaduto) che vengano introdotte leggi che, senza alcun motivo razionale, recano danno a qualcuno, restringono indebitamente il campo di decisioni di qualcun altro, discriminano una minoranza, e tutto ciò non solo in nome della democrazia ma anche in nome della libertà.

  In presenza di un tale paradossale risultato, e al fine di salvaguardare il legame tra libertà e legge (cioè tra il godimento della libertà e il rispetto delle leggi), sarebbe consigliabile trasformare la concezione della libertà da un dovere passivo (obbedienza alle leggi) a un impegno attivo (produrre e amministrare le norme che permettono relazioni fluide e soddisfacenti fra individui).

  Per questo motivo, sarebbe appropriato sostituire il termine libertà con il termine autonomia (αυτοσ = sé; νομοσ = norma, regola).
  Autonomia significa che le regole sono:
     -  prodotte direttamente (ad es, come dai membri in un club)
     -  accettate personalmente (cioè, interiorizzate liberamente e volontariamente)
     -  amministrate collettivamente (ad es. come nel caso di una giuria)
  dalle stesse persone che sono toccate/coinvolte da queste regole.

  La libertà in quanto autonomia include anche la possibilità, da parte di un individuo o gruppo di individui, di staccarsi dalla comunità per formare una nuova comunità o per vivere in maniera indipendente da qualsiasi comunità qualora sussistano obiezioni insanabili alla accettazione delle regole esistenti o per qualsiasi altra ragione di ordine personale.

Egalité (Uguaglianza)
  In una società divisa in ordini rigidi e impermeabili, quale era la società Francese prima della Rivoluzione, il grido di uguaglianza (egalité) rappresentava un richiamo potente e del tutto giustificato.

   Ripreso dalla rivoluzione Russa e dai partiti comunisti europei sorti sulla sua scia, è purtroppo diventato un pretesto per un'opera colossale di massificazione e omogeneizzazione che si è dispiegata parallelamente all'accrescersi smisurato del divario tra la gente comune (in teoria al potere) e l'élite dominante (di fatto al governo).

  Per mostrare solo un esempio preso dalla sfera economica, durante l'epoca di Stalin, nell'Unione Sovietica, il 'paradiso' dei lavoratori comunisti, le remunerazioni degli amministratori d'impresa giunsero ad essere di ben 300 volte più elevate di quelle dei lavoratori manuali. L'uguaglianza, se possiamo usare questo termine, esisteva solo nella irregimentazione degli operai e nella riduzione di milioni di individui in una massa senza volto.
   A causa di questo uso distorto, la parola 'uguaglianza' porta ancora con sé il sapore sgradevole di esseri umani fatti l'uno identico all'altro, l'uniformità replicata all'infinito.

  Per andare al di là di questi aspetti negativi legati al termine 'uguaglianza' e recuperare i connotati positivi di imparzialità, giustizia, pari opportunità, e così via, sarebbe consigliabile utilizzare il termine equità che meglio denota e comunica l'idea di un comportamento sincero e onesto verso ogni singolo essere umano.

Fraternité (Fraternità)
  Nel corso della storia, gli individui si sono associati in gruppi di piccole o grandi dimensioni e hanno agito in cooperazione su base volontaria al fine di soccorrere e aiutare le persone in stato di bisogno (a seguito di calamità naturali, invalidità fisiche, ecc.). Parrocchie, cooperative di lavoro e di scambio, società di mutuo soccorso, associazioni civiche, benefattori e persone caritatevoli, questi sono alcuni dei canali attraverso cui si è espressa e promossa l'inclinazione, profondamente radicata negli esseri umani, per l'aiuto e l'assistenza.

   Malauguratamente, nel corso degli ultimi due secoli, gli stati nazionali sono riusciti a smantellare e distruggere forme e modi di reciproco aiuto e assistenza a livello locale e li hanno rimpiazzati (o hanno tentato di rimpiazzarli) con istituzioni gestite centralmente dallo stato.

  Il risultato è che:
     -  (a) il numero delle persone giudicate bisognose si è accresciuto enormemente in relazione diretta all'ammontare delle risorse destinate all'assistenza;
     -  (b) le persone che sono cadute nella rete assistenziale si sono, di solito, assuefatte al loro stato di dipendenza e sono diventate incapaci di venirne fuori.

  La crisi economica dello stato ha reso sempre più chiaro il fatto che queste istituzioni statali assistenziali non solo non operano per il bene reale e a lungo termine della persona, ma, in linea generale, aggravano il problema facendo sì che il bisogno di assistenza divenga un dato permanente.
   In tempi recenti, organizzazioni non governative, associazioni di volontari, gruppi caritatevoli, ed altri, hanno occupato sempre più il posto lasciato vacante dalle vuote promesse dello stato e stanno cercando di soddisfare concretamente domande di aiuto a cui lo stato ha dato solo risposte confuse e illusorie.

  Attraverso queste organizzazioni, la fraternità sta riapparendo sulla scena globale e l'espressione appropriata per definirla è avere cura (care).
Avere cura è fraternità in azione, espressa da individui ricchi di compassione e di competenza e avente per obiettivo il benessere della persona.

  La differenza tra avere cura e assistenzialismo statale è profonda e deriva soprattutto da questi due aspetti:
     -  avere cura è un impegno universale di ogni singolo essere umano in una comunità; non è il settore di intervento di qualche amministratore o la mansione lavorativa assegnata burocraticamente a qualche 'esperto';
     -  avere cura è un impegno personale in cui il rapporto tra chi dà e chi riceve genera per entrambi una qualche soddisfazione materiale e psicologica; e ciò è possibile se e solo se si intende far evolvere la situazione verso una conclusione positiva (ad es. la fine di una situazione stressante, la ricostruzione di una zona disastrata, un compimento sereno della vita, ecc.).

  Con l'aver cura, inteso come un impegno universale e personale, andiamo oltre lo stato assistenziale ( che è in realtà fare gli interessi dello stato, e cioè di quelli che occupano e usano lo stato come loro esclusiva riserva di caccia) e verso il benessere della persona, vale a dire la salute fisica e mentale di una personalità armoniosa, propria del nuovo paradigma.

 

Pubblico - Privato  (^)

  Una delle parole chiave, più ambiguamente e subdolamente usata all'interno del vecchio paradigma, è quella di 'pubblico' opposta al termine 'privato'.
In origine, pubblico e privato erano (e ancora sono) usati soprattutto per caratterizzare:
     -  una quantità numerica
        pubblico = molti
        privato = uno o pochi.

Quando la forza del numero venne ad essere considerata un valore in sé stesso, risultò naturale che coloro che detenevano il potere si appropriassero dell'aggettivo 'pubblico' per sottolineare il fatto che essi parlavano ed agivano in nome e per conto di un largo numero di persone (la maggioranza). A seguito di questa appropriazione, si formò una nuova relazione che attribuiva alla parola 'pubblico'
     -  uno stato giuridico
        pubblico = posseduto/controllato/amministrato dallo stato
        privato = posseduto/controllato/amministrato da altri soggetti.

Una volta formatesi queste associazioni mentali, fu facile far compiere un ulteriore passo, conferendo alla quantità numerica e allo stato giuridico
     -  una valenza etica
        pubblico = buono
        privato = cattivo (o potenzialmente cattivo).

  Attraverso questo processo di costruzione di associazioni mentali, il termine 'pubblico' è diventato un vocabolo magico, che, in pratica, ha sempre un valore positivo, in contrasto con il termine 'privato' assunto, nei fatti, come il polo negativo.

Per fare un esempio, una frase molto comune, pronunciata da quasi tutti, è: 'nell'interesse pubblico'. Se qualcosa viene considerata 'nell'interesse pubblico' significa, implicitamente, che è un qualcosa di superiore ed è o almeno dovrebbe essere accettata senza ulteriore discussione; ciò perché è nell'interesse dei molti o nell'interesse dello stato, il che è lo stesso, essendo lo stato l'espressione dei molti se non di tutti (almeno così si crede).

  Se effettuiamo una analisi un po' più approfondita, ci rendiamo conto ben presto che occorre sciogliere alcune delle associazioni verbali e mentali accettate supinamente, in cui il termine 'pubblico' collega due vocaboli in modo tale da suscitare atteggiamenti positivi e favorevoli.
Abbiamo, ad esempio, le seguenti associazioni:

   -  molti = pubblico = buono
L'equazione molti = pubblico = buono, è stata inculcata sottilmente nelle menti delle persone, in sintonia con la propaganda massiccia da parte degli stati più potenti tendente a lodare e glorificare le vaste dimensioni e le grandi quantità (il cosiddetto potere del numero).

    Ma anche ad un osservatore superficiale dovrebbe apparire subito chiaro che, in linea di principio e di fatto, il potere del numero (dimensioni, quantità) non dovrebbe avere nulla a che vedere con gli aggettivi pubblico o privato e, certamente, nulla a che fare con le qualifiche buono o cattivo.
    L'attribuire, in maniera quasi automatica, etichette positive o negative al pubblico o al privato in quanto espressione di numeri (cioè, i molti, la maggioranza) potrebbe condurre noi (o il potere statale) a posizioni abominevoli quali, ad esempio, il giustificare o il passare sotto silenzio una 'pubblica' folla impegnata a linciare un 'privato' individuo o le uccisioni e i massacri 'pubblici' da parte dello stato (guerra, terrorismo, esecuzioni capitali) in risposta ad un atto di violenza commesso da un 'privato'.

In entrambi i casi siamo in presenza di individui che commettono violenza e in quanto individui (né pubblici né privati) essi devono rendere conto dei loro atti.

   -  stato = pubblico = buono
L'equazione stato = pubblico = buono è una mossa propagandistica disonesta (ma assolutamente necessaria) attuata dal potere statale per promuovere l'identificazione tra le persone e lo stato. Perché ciò avvenga, la società deve essere sostituita dallo stato e lo stato deve pretendere di essere l'unica vera organizzazione sociale (vale a dire 'pubblica'); tutto quello che è al di fuori dello stato è privato, vale a dire di parte, non generale e quindi, non 'nell'interesse pubblico'.

    Questa appropriazione della parola 'pubblico' da parte dello stato (e dei suoi corpi amministrativi) ha prodotto e continua a produrre dei risultati paradossali se non assurdi. Ad esempio, quando il governo dello stato cerca di imporre leggi idiote e ingiuste (ad es. divieti attinenti la sfera personale, discriminazioni razziali, ecc.), invariabilmente lo fa affermando che esse sono 'nell'interesse pubblico' mentre il vero pubblico (vale a dire, coloro direttamente interessati dalla legge) ha idee totalmente differenti o varie riguardo ai propri interessi. In questo caso lo stato (vale a dire burocrati e politicanti a livello centrale e locale) pretendono di essere il 'pubblico' più dello stesse pubblico.

    Un altro esempio assurdo dell'uso della parola 'pubblico' è nella sfera economica. Prendiamo, ad esempio, una compagnia che impiega migliaia di persone, le cui azioni sono possedute da centinaia di migliaia di individui, che produce beni o servizi per milioni di consumatori in tutto il mondo e i cui prodotti fanno parte della vita o del modo di vivere di milioni di individui, direttamente o indirettamente. E, in contrasto, prendiamo una organizzazione segreta composta da un ristrettissimo numero di persone, che agisce all'interno e per conto dello stato. Attualmente, in base alle definizioni correnti, dovremmo definire la prima una entità privata e la seconda una entità pubblica. Chiaramente, questo non è solo stupido o ridicolo; è evidentemente assurdo.

Inoltre, per fare un altro esempio, quando una impresa viene denazionalizzata e le azioni sono acquistate da centinaia di migliaia di individui, questa viene chiamata una 'privatizzazione'; in realtà, ora l'impresa appartiene a un notevole numero di azionisti invece di essere il feudo personale di una ristretta cerchia di burocrati e politicanti.

  In presenza di questa situazione, occorre presentare alcune proposte che evitino di farci cadere nelle più macroscopiche assurdità e che suggeriscano un uso più preciso dei termini.
Ciò che appare prioritario è l'esigenza di eliminare dalle parole 'pubblico' e 'privato' intonazioni emotive indebite (ad es. buono-cattivo; positivo-negativo); inoltre dovremmo far emergere e impiegare definizioni più appropriate.
  Qui sotto avanziamo alcuni suggerimenti e presentiamo alcune proposte.

Pubblico
   -  Si potrebbe usare la parola 'pubblico' preferibilmente solo in riferimento a cose e luoghi, con il significato di aperti-accessibili a tutti (ad es. un parco è un ritrovo pubblico; una sala cinematografica è un luogo pubblico, accessibile a tutti dietro pagamento di un biglietto d'ingresso).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'pubblico' con termini più precisi (ad es. gruppo, comunità, folla, spettatori, ecc.) quando si fa riferimento a esseri umani.
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'pubblico' con i termini 'collettivo/i' ; 'di massa' quando si fa riferimento a parecchi individui ed è importante sottolineare l'aspetto di grande quantità numerica dell'insieme (ad es. trasporto collettivo in contrasto con trasporto individuale).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'pubblico' con il termine 'comune/i' quando si fa riferimento a caratteristiche condivise da uno specifico gruppo di persone (ad es. interessi comuni, cioè interessi che alcuni individui hanno in comune).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'pubblico' con i termini 'stato/statale' ; 'regione/regionale' ; 'municipio/municipale' quando si fa riferimento ad attività, decisioni, proprietà di questi enti di potere politico e amministrativo.

Privato
   -  Si potrebbe usare la parola 'privato' preferibilmente solo in riferimento a cose e luoghi con il significato di riservato-ristretto (accesso, disponibilità, ecc.) a individui o gruppi specifici (ad es. una casa è un luogo privato, per i membri della famiglia e i loro ospiti).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'privato' con termini più precisi (ad es. uomo, donna, persona, individuo) quando si fa riferimento a esseri umani.  Questo vuol dire che non esistono 'individui privati' a meno che non si intenda usare il termine 'privato' nel senso antico e originario di persona esclusa (da alcuni diritti di base, da incarichi e prebende statali, dal godimento di certi beni e servizi, ecc.) o ritirata (dalla vita sociale).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'privato' con i termini 'personale' ; 'individuale' ; 'singolo/a' quando si fa riferimento a un oggetto specifico che si rapporta ad una persona specifica (ad es. personal computer, proprietà individuale o singola, ecc.).
   -  Si potrebbe sostituire la parola 'privato' con i termini 'gruppo' ; 'impresa' (o altre definizioni ancora più precise ed appropriate) quando si fa riferimento ad una entità composta da parecchi individui (ad es. proprietà di gruppo, proprietà di impresa, ecc.).

In generale, dato il carattere vago, ambiguo e il potere di manipolazione dei due aggettivi 'pubblico e 'privato' dovremmo cercare di usarli con moderazione e dovremmo sottoporre ad esame critico chiunque li utilizzi in maniera inappropriata e inaccurata.

 

Radici - Identità - Nazionalità  (^)

  In un mondo popolato da molte persone scoraggiate e passive che eseguono, alle dipendenze di un padrone, sempre la stessa noiosa mansione, taluni bisogni profondi di sicurezza e di appartenenza a un gruppo sono stati suscitati e incanalati da due parole che hanno avuto un largo richiamo e che ancora esercitano un richiamo positivo.
Queste parole sono: radici e identità.

  Con riferimento agli esseri umani, radici significa sostanzialmente avere un solido terreno (fisico, culturale) a cui una persona è fermamente ancorata. All'opposto, il non avere radici, l'essere sradicato ('déraciné') era ed è considerata una situazione sgradevole e miserevole, pari al fluttuare senza meta, in una condizione di malessere psicologico.
Non avere radici è equiparato al non avere identità, all'essere un fantasma senza volto, senza un preciso passato e un sicuro futuro. Nella attuale realtà dei fatti, avere una identità è diventato sinonimo di esistere.
   Tutto ciò appare a prima vista accettabile.
Un esame più attento e più critico di questi due termini porta alla luce aspetti meno invitanti.
  Ad esempio, l'immagine, presa dalla natura, dell'avere radici dovrebbe significare che, al pari di un albero, una persona è legata al suolo, incapace di muoversi. Per cui, l'assimilare l'essere umano a una entità vegetale fissa, non sembra affatto un complimento.

  Per quanto poi concerne l'identità, la parola deriva dal Latino "idem" che vuol dire 'lo stesso' o "identidem" che significa 'ripetutamente', 'nello stesso modo'. In riferimento a un essere umano queste caratteristiche non sembrano raffigurare tratti particolarmente piacevoli e interessanti.
In realtà, l'essere umano sano è una persona in divenire, che ricopre vari ruoli in sintonia e in armonia con un ambiente in continua evoluzione. Una delle caratteristiche di base di un individuo che vive e si sviluppa è la sua capacità di adattarsi e ciò richiede una conveniente flessibilità e non una congelante identità.

   Ma, il malessere reale connesso con questi due termini, radici e identità, e la ragione principale che suggerisce la loro cancellazione dal vocabolario delle scienze sociali, deriva dalla loro associazione con la parola 'nazionalità'.
  Il termine nazionalità, nella sua etimologia, significa semplicemente che una persona è nata in un certo luogo. Niente di più, niente di meno, e certamente niente per cui valga la pena di lottare o morire.
La nazionalità diventa qualcosa di sgradevole quando ad essa vengono appiccicate le parole 'radici' e 'identità' con implicazioni e risonanze mistiche.

  Il tentativo di attribuire radici alle persone (cioè di fissarle al suolo) e di assegnare ad esse una identità fissa (personale, culturale, ecc.) trovò il suo compimento attraverso l'ascesa, in una posizione dominante, dello stato nazionale.
Da quel momento in poi, il termine 'radici' venne associato con lo sforzo di assorbire e diffondere la cultura dominante dello stato nazionale (la patria) e il termine 'identità' divenne sinonimo di identità nazionale.
  Una serie di cambiamenti, vale a dire imposizioni e restrizioni, vennero introdotti, attraverso i quali i concetti di radici, identità e nazionalità vennero glorificati e codificati. Ad esempio:

Radici
  Nella prima metà del XX secolo alcuni stati (l'Italia fascista, l'Unione Sovietica comunista) introdussero misure per radicare le persone al suolo, come al tempo del feudalesimo, emettendo passaporti interni che restringevano il movimento delle persone dalle campagne alle città.
Oltre a ciò, in quasi tutti gli stati, l'introduzione del passaporto sanzionò distinzioni di tipo burocratico e giuridico tra persone nate in paesi differenti, rendendo così più difficile, e quindi di fatto scoraggiandolo, il movimento e il mescolamento di individui diversi, ancorando le persone al luogo in cui era capitato loro di nascere. Tutto ciò in netto contrasto con il secolo XIX e l'inizio del secolo XX quando si verificarono vaste migrazioni, soprattutto tra l'Europa e le Americhe.
Al giorno d'oggi, in alcuni paesi (ad es. la Francia) l'essere sempre in movimento, senza fissa dimora, equivale ancora ad essere un non-cittadino, vale a dire una persona senza diritti e, in genere, qualcuno da guardare con profondo sospetto.

Identità
  Al fine di ancorare e controllare un individuo, lo stato ha bisogno di identificarlo con precisione; per questo motivo, le carte di identità e tutta una congerie di altri documenti vennero inventati per registrare ogni singola persona soggetta al potere dello stato centrale. In alcuni paesi (ad es. l'Italia) tutti sono tenuti a portare con sé un documento di identificazione altrimenti possono essere fermati e trattenuti dalla polizia di stato anche se non hanno commesso nulla.  Il non avere una identità (l'apolide) o l'avere molte identità (la persona cosmopolita) o l'avere una identità che non si accorda con l'identità nazionale imposta o accettata dallo stato, sono situazioni che causano problemi per il malcapitato (soprattutto in periodi di insicurezza e di frenesia nazionalistica).
  L'identità è inoltre forzata sugli individui da un sistema di indottrinamento culturale, allorché la cricca al potere impone a tutti la stessa lingua e le stesse leggi. Nella realtà dei fatti, l'identità nazionale è una identità posticcia e costruita, ottenuta schiacciando le culture locali; non è affatto un legame reale che unisce persone che vivono l'una accanto all'altra.

Nazionalità
  Soggetta allo stato nazionale, una persona dall'istante della nascita fino alla morte, è assegnata ad una categoria (Inglese, Francese, Italiano, ecc.) dalla quale non è facile sfuggire.  Questa etichetta assegnata ed imposta è come il marchio impresso dal proprietario agli animali della sua mandria, per tenerli meglio sotto controllo all'interno di un dato steccato (le frontiere stabilite).
  Inoltre, con l'essere assegnati ad una categoria ristretta invece del far parte del genere umano nel suo complesso, fa sì che il destino della categoria a cui si appartiene, volenti o nolenti, diventi anche il proprio destino, nel bene e nel male (progresso, decadenza, distruzione).
  Per fare un parallelo storico, in alcuni paesi, durante il Medio Evo, agli individui veniva imposta la stessa fede religiosa del signore nel cui territorio e sotto il cui dominio essi si trovavano a venire al mondo (cuius regio, eius religio); ora, alle persone, generalmente, viene assegnata, in maniera automatica, la nazionalità dello stato nel cui territorio essi si trovano a nascere, con tutte le obbligazioni e costrizioni che ne derivano; una situazione non certo diversa da quella del Medio Evo.
E, nel corso della storia, alcune persone, senza spostarsi dal loro luogo di nascita, si sono trovate a cambiare nazionalità (in alcuni casi più di una volta) solo perché un nuovo potere statale si era intromesso nella loro vita. Forse, future generazioni, riflettendo su tali fatti, considereranno la sfera di libertà personale degli individui sotto lo stato nazionale alla pari con la libertà che godevano i servi sotto il regime feudale, e cioè, molto ridotta nei fatti.
  In un mondo fatto di stati nazionali, la nazionalità, basata su radici assegnate e fisse e su identità culturali ascritte e imposte, ha avuto come risultato, pressoché inevitabile, di congelare le persone in gruppi rivali (indigeni - stranieri) dando vita a conflitti e distruzioni senza senso. Queste assurde differenze, prodotte ad arte, devono scomparire, portandosi via con esse i vocaboli 'radici' e 'identità' nella loro applicazione ad esseri umani.

  Il nuovo mondo e il nuovo paradigma presentano molte differenze sostanziali rispetto al passato. Riguardo ai termini che si stanno esaminando, i principali cambiamenti mentali e comportamentali che vengono qui proposti sono i seguenti:

   - da radici fisse a semi freschi
      Una persona non è una pianta attaccata al suolo per ordine dello stato nazionale. La libertà di ognuno, in quanto cittadino del mondo, di trasferirsi e stabilirsi in qualsiasi località della terra dovrebbe avere come uniche limitazioni i desideri della persona o gli aspetti pratici della logistica.
       Se vogliamo davvero rappresentare l'idea che l'essere umano assorbe dall'ambiente sostanze vitali (naturali, culturali) e le utilizza per il suo sviluppo, l'immagine di 'semi' potrebbe essere molto più appropriata che non quella di 'radici'.  Gli esseri umani potrebbero quindi essere visti come semi robusti che si sviluppano in qualsiasi terreno, posto che esso sia ricco di risorse nutritive adatte, e fin tanto che gli esseri umani mantengono la freschezza e il vigore proprio di un seme.

   - da una identità imposta (mono cultura nazionale) a modelli culturali inter-fertilizzanti (insiemi culturali trans-nazionali)
      Se esaminiamo alcune personalità interessanti, vediamo che esse sono di casa in varie corti d'Europa (Voltaire), che si esprimono in varie sfere culturali (Leonardo), che trasformano il loro stile durante le diverse fasi della loro vita artistica (Picasso), impersonando molti caratteri della più varia natura (Laurence Olivier).
Assegnare ad essi un'unica identità equivarrebbe a privare essi stessi (e il mondo) del loro valore e della loro ricchezza. È solo il burocrate che ha sempre la stessa faccia e la stessa immutabile identità, a casa e al lavoro, durante il corso della sua intera esistenza.
Nel nuovo paradigma (come nella realtà vera) non esiste una identità imposta perché non esiste una cultura nazionale; nei fatti, esistono solo culture che si sviluppano da una pluralità di contributi provenienti da individui in luoghi prossimi o molto lontani, che vivono attualmente o sono vissuti molto tempo fa.
   Se proprio vogliamo rappresentare l'immagine di un qualcosa riconoscibile, familiare ma non fisso per sempre, il termine configurazione (pattern), al posto di identità, sarebbe molto più appropriato.

   - da una nazionalità ascritta ad una multinazionalità asserita
      La nazionalità non è e non dovrebbe essere qualcosa che una persona si trova imposta alla nascita, tranne che non sia una semplice nota di registro che segna il luogo e la data in cui è accaduto l'evento. Nulla di più.
      Per questa ragione, nel nuovo paradigma, il concetto di nazionalità quale è stato prodotto e imposto con la violenza da parte dello stato, non ha alcuna ragione di esistere.
      Noi abbiamo tutti un solo paese: il mondo.
      Per sottolineare la rottura con il passato e conoscendo l'odio suscitato e alimentato dagli stati nei confronti delle società multinazionali, noi potremmo dire che noi tutti siamo 'multinazionali' (o 'trans-nazionali'), volendo con ciò significare che siamo il risultato del mescolarsi di molti gruppi e di molte culture, da varie località, fin dall'inizio dei tempi.

     Quindi, nel nuovo paradigma, tutto il vecchio bagaglio, stantio e puzzolente, fatto di parole magiche che qualificavano un pezzo di terra come patria, madrepatria, fatherland, nazione, o che facevano riferimento a gruppi di individui con gli appellativi di nazionali o stranieri, tutto questo armamentario perde ogni significato empirico ed ogni richiamo emotivo.
  I concetti essenziali e sensati da impiegare sono quelli di regione geografica e di luogo di nascita; e, con riferimento agli esseri umani, le semplici parole di persona (per sonum = l'avere voce) e di individuo (un essere unico, non parcellizzato).
  In periodi non molto remoti, in alcune parti del mondo occidentale, qualsiasi persona appartenente al vicino villaggio veniva considerata come uno straniero, un essere strano, come tutto ciò proveniente dal di fuori (extraneus). Al giorno d'oggi, per la persona multiculturale, cosmopolita, di ampie vedute, quale è l'attuale cittadino, viaggiatore e navigatore di questo mondo, non esistono più stranieri, almeno non in maniera permanente. Lo straniero è (o potrebbe essere) solo colui con cui non abbiamo familiarità, colui che non conosciamo ancora, fino al momento in cui ne facciamo conoscenza.
  Per quanto riguarda la nazione, ciò che si riteneva unisse e legasse le persone era, essenzialmente, il fatto di essere nati nella stessa regione, di parlare la stessa lingua, e di essere soggetti alla stessa giurisdizione. Una condizione estremamente statica (sempre lo stesso luogo), molto limitativa (esprimersi in una sola lingua) e totalmente artificiale (essere soggetti alla stessa giurisdizione), che anche la persona più ingenua e ignorante del XXI secolo troverà sempre meno congeniale.
  All'opposto di tutto ciò, le comunità si formano basandosi su ciò che gli individui hanno in comune (interessi, atteggiamenti, comportamenti) e l'appartenenza ad esse è frutto di libere scelte non di iscrizioni obbligatorie.
  L'esempio migliore di comunità è quella degli scienziati e ricercatori. Per essi, attraverso i secoli, il luogo di nascita o la madrelingua non hanno mai rappresentato delle barriere. Nei fatti, maggiori erano le loro nozioni riguardanti questo mondo e meno essi si sentivano vincolati da una qualsiasi nazione.
La scienza non ha patria e parla un linguaggio universale; lo scienziato si sente a casa sua ovunque si promuova la ricerca del sapere, e comunica in tutte le lingue, per coloro che sono interessati a prestare attenzione, ad ascoltare e a partecipare. E questo è anche il caso dell'essere umano polivalente, multiculturale, poliglotta, a cui fa riferimento il nuovo paradigma.

 

Considerazioni generali  (^)

  Nel corso del tempo il linguaggio si trasforma; di alcuni termini si modifica l'uso e il significato.
Nonostante ciò, i valori originari e perenni sopravvivono inalterati e resistono anche agli assalti più furiosi.
Infatti, è accaduto che in un mondo dominato dagli stati nazionali, la guerra è stata contrabbandata come pace, l'ignoranza come conoscenza, e la servitù come libertà. Ma, fin dall'inizio della storia, è chiaro, nella nostra mente e nel nostro cuore, che cosa sono la pace, la conoscenza, la libertà.

  Ad ogni modo, per rendere il discorso più chiaro, e per evitare che l'uso e il significato delle parole sia sottoposto a indebite manipolazioni con lo scopo di manipolare esseri umani, dovremmo, in generale, attenerci ad una semplice precauzione: quando utilizziamo vocaboli che fanno riferimento alla vita pratica delle persone, dovremmo cercare di attualizzarli e renderli operativi.

  Attualizzare e rendere operativi i termini significa tradurli in atti e operazioni concrete, per vedere come si ripercuotono nella realtà dei fatti.
Per fare un esempio, se gli stati parlano di libertà mentre introducono ogni sorta di controlli e di restrizioni al movimento delle persone, sappiamo a quale libertà essi facciano riferimento, la libertà di essere schiavi.
Attraverso l'attualizzazione e l'operalizzazione risulterebbe quindi molto più difficile impiegare un termine come un candelotto fumogeno dietro al quale celare sia l'altrui inganno manipolatore che le nostre ingannevoli illusioni.