Introduzione (^)

L’analisi della realtà materiale da parte dei ricercatori nelle scienze naturali (fisica, chimica, biologia, geologia, ecc.) ha fatto negli ultimi secoli notevoli progressi, passando da concetti privi di fondamenta (ad es. il flogisto) ad ipotesi testabili che hanno reso possibile una incredibile serie di ritrovati tecnologici e di progressi nel sapere.

Purtroppo lo stesso non si può dire con riferimento allo spazio fisico analizzato, raffigurato e pianificato dagli scienziati sociali. Fino ad ora, il modo in cui lo spazio (l’habitat) è stato interpretato e organizzato non ha praticamente nulla a che vedere con un approccio scientifico ma quasi interamente a che fare con la diffusione di miti coltivati (la democrazia come potere del popolo, lo stato come lo strumento insostituibile per garantire sicurezza e benessere, e così via) e la difesa dei meccanismi correnti di potere (politici, economici, culturali).

Appare quindi appropriato e necessario offrire una prospettiva differente che cerchi di svincolare l’attuale concezione culturale riguardante l’ambiente in cui viviamo (in particolare la terra o il territorio) da inutili restrizioni materiali e pure distorsioni mentali.

L’analisi sarà focalizzata essenzialmente sui seguenti aspetti:

            •    Territorio

            •    Territorialità

            •    Territorialismo

In particolare su che cosa essi sono, che cosa essi sono diventati e che cosa essi dovrebbero diventare una volta liberati dalla unione/sottomissione a un qualsiasi potere monopolistico e sfruttatore.

 

Territorio (^)

Il termine territorio deriva dal Latino terra e fa riferimento sia al globo terraqueo sia ad una sua specifica parte, una regione, o al materiale di cui essa si compone, cioè il suolo.

Un territorio è innanzitutto una realtà naturale e fisica, in altre parole un pezzo di terra abitato-occupato da qualche entità animata o inanimata. Quando le persone si stabiliscono su un territorio specifico, allora quel pezzo di terra diventa anche una realtà sociale.

Questo significa che un territorio è o un ambiente naturale esistente o un ambiente costruito o una commistione variabile di entrambi.

Definire come territorio un certo tratto di terra è dovuto anche al fatto che, di solito, esso contiene alcune caratteristiche naturali o artificiali omogenee che lo differenziano da altre estensioni di terra. A questo riguardo una città, una foresta, l’estuario di un fiume possono essere chiamati territori ed esaminati sulla base delle loro caratteristiche peculiari.

Tutti i territori visti come spazi omogenei non sono solo delimitati/distinti da tratti specifici ma sono anche connessi/collegabili ad altri territori, in molti casi a seguito dello sforzo e della ingegnosità di individui che hanno superato le barriere fisiche rappresentate da montagne, fiumi, mari. La ricerca e la scoperta di nuovi territori oltre le Colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra) o nel Far West americano o nei mari del Sud Pacifico è stato uno dei tratti distintivi dell’essere umano.

Inoltre un territorio è qualcosa di trasformabile all’interno di limiti molto ampi, ad esempio da deserto a terra coltivata e da foresta a suolo arido.

Il fatto di fare affidamento ad uno specifico pezzo di terra come luogo di abitazione e mezzo di sostentamento (coltivazione stazionaria invece di migrazioni ricorrenti) ha prodotto il tratto sociale chiamato territorialità.

 

Territorialità (^)

Sembra che gli esseri umani nella preistoria si muovessero di luogo in luogo alla ricerca di cibo (piante, animali). È solamente in una fase successiva che la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali furono scoperti e praticati da un numero crescente di persone.

Queste nuove tecniche di produzione del cibo trasformarono quelli che erano cacciatori o gruppi di cacciatori non territoriali in movimento in coltivatori o comunità di coltivatori sedentari su un territorio.

Lo sviluppo della territorialità è stato il risultato logico e razionale del fare affidamento in maniera continuativa sullo stesso specifico territorio per tutte o per la maggior parte delle necessità della vita, materiali e psicologiche.   

Il dizionario Merriam-Webster offre, tra le altre, queste due definizioni di territorialità:

“2a: un attaccamento persistente ad un territorio specifico

2b: il modello di comportamento associato alla difesa di un territorio.”

La territorialità può quindi essere vista come il prodotto storico dell’uso e della cura protratti nel tempo di un territorio specifico, il che genera un senso di appartenenza a quel pezzo di terra e la volontà di difenderlo da intrusioni. 

Il fatto che la territorialità sia stata estranea all’essere umano preistorico significa che essa:

- non è parte del bagaglio genetico dell’individuo ma è un atteggiamento, peraltro del tutto ragionevole, che appare allorché si introducono specifiche pratiche agricole;

- è un atteggiamento appreso e dispiegato solo in presenza di quelle pratiche (coltivazione, allevamento) che si basano sull’uso continuo di un certo territorio.

Il fatto che la territorialità non sia un istinto umano universale ma un atteggiamento appreso come risposta a situazioni specifiche appare del tutto evidente se prendiamo in esame la realtà storica concernente milioni di persone che sono emigrate da un posto all’altro, o l’esistenza di popolazioni nomadi e di individui senza fissa dimora (si veda il caso esemplare del matematico Paul Erdos). 

Per persone stazionarie la territorialità è quindi un modo del tutto appropriato per trattare problemi concernenti la proprietà e la gestione di un territorio. Sfortunatamente, sulla base di passioni irrazionali e di pretese assurde, alcuni individui bramosi di potere hanno sviluppato uno stimolo patologico alla territorialità il cui risultato è lo sviluppo di ciò che è noto sotto il nome di territorialismo, un modo di pensare e di agire che è accettato al giorno d’oggi dalla maggior parte delle persone in maniera del tutto automatica.

 

Territorialismo (^)

Nel corso della storia il controllo di vaste porzioni di territorio è stato sinonimo di potere, tenendo conto che all’interno di quasi tutti i territori è possibile trovare risorse da sfruttare come persone (lavoro) e beni grezzi (suolo coltivabile, minerali, legname, ecc.).

Il primo prepotente che, avendo recintato un pezzo di terra, dichiarò che esso gli apparteneva, senza basare la sua pretesa sul fatto di avere lavorato e migliorato la terra, e nonostante ciò trovò un numero sufficiente di persone ingenue che gli credettero e accettarono quanto egli proclamava, questi è il vero iniziatore del territorialismo.

Nel corso dei secoli, tutti coloro che hanno mostrato una forte attrazione verso l’acquisizione di potere (re ambiziosi nel passato e politicanti prepotenti nel presente) hanno sviluppato una forte tendenza al territorialismo.

Il territorialismo è la pretesa di una sovranità monopolistica su un largo territorio o territori e nei confronti di tutti i suoi abitanti e risorse.

Questa pretesa avanzata da alcuni individui affamati di potere, generalmente in cambio di promesse (reali o illusorie) di garanzie di protezione dall’aggressione contro forze esterne, è stata riaffermata così tante volte che, nella mente di persone paurose e credulone, essa è divenuta, nel corso del tempo, una richiesta del tutto legittima e appropriata. Tuttavia essa rimane, anche ora, una pretesa inventata e imposta, mai accettata dalla totalità delle persone che vivono su un certo territorio e quindi causa di lotte violente, migrazioni forzate, tragedie personali.

Tre aspetti principali caratterizzano il territorialismo:

Il monopolio del potere: c’è un solo potere superiore, cioè un potere esclusivo, per ciascun territorio specifico;

La sottomissione delle persone: tutti coloro che vivono su quel territorio sono soggetti alle leggi del potere superiore e non possono spostare dal territorio (entrare-uscire) senza una autorizzazione scritta sotto forma di passaporto o visto;

La estrazione delle risorse: una quota notevole delle risorse personali è a disposizione del potere superiore (tassazione) e tutte le risorse naturali di una certa importanza (ad. es. gas, minerali, etc.) appartengono al potere superiore e sono date in concessione a gruppi e ad individui per lo sfruttamento in cambio di denaro.

Il territorialismo ha assunto nella storia due forme principali: micro e macro. Lasciando da parte il micro-territorialismo delle città-stato dell’antica Grecia e il macro-territorialismo dell’Impero Romano, concentriamoci brevemente su due realtà più vicine a noi: il micro-territorialismo del Medio Evo e il macro-territorialismo dell’epoca contemporanea.

 

Micro-territorialismo (feudalesimo) (^)

L’importanza del territorio come la fonte più rilevante e diretta di potere appare molto chiaramente durante il Medio Evo quando, di solito, colui che controllava il maggior numero di territori era il re ed egli ricompensava l’obbedienza e i servizi resigli da altri individui assegnando loro vasti domini terrieri. Nel corso del tempo questi territori si trasformarono in feudi ereditari.

Il signore feudale divenne quindi alla fine l’unico proprietario di un territorio e dei suoi abitanti, ridotti alla condizione di servi. Il solo modo per costoro di essere liberi consisteva nell’abbandonare il territorio e di fuggire; altrimenti essi erano soggetti a una serie di obblighi lavorativi, di pagamenti e di vincoli che caratterizzavano la loro posizione come quella di appendici servili della terra.

L’espressione: Nulle terre sans seigneur (Nessuna terra senza signore) che intendeva indicare che tutte le concessioni terriere dovevano essere in relazione a servizi forniti al re, potrebbe essere anche intesa come il desiderio, da parte dei detentori del potere, che tutti i territori avessero un padrone. Questo avrebbe rappresentato, già in epoca medioevale, l’universalizzazione del territorialismo.

Per fortuna esistevano porzioni di territorio, dove la nascente classe dei mercanti e degli artigiani si congregavano, che erano al di fuori della sfera di controllo dei signori feudali. Questi spazi divennero i nuclei originari delle libere città che attrassero tutti coloro che volevano condurre una vita sottratta ai vincoli del territorialismo (cioè alla sottomissione ad un padrone territoriale). Per cui, al fine di liberarsi, molti servi abbandonarono i domini feudali e iniziarono una nuova vita sciolti da tutti i fardelli in un nuovo ambiente urbano.

Tuttavia, nel corso del tempo, le città fiorenti divennero i nuovi centri di potere territoriale, cercando in una prima fase di esercitare il controllo sul contado rurale circostante, e poi, divenute città capitali, estendendo le loro pretese a territori sempre più lontani. Alla fine, i governanti che vivevano in alcune città capitali (Madrid, Amsterdam, Lisbona, Londra, Parigi, Berlino) iniziarono a coltivare l’idea che il mondo intero fosse loro terreno di conquista.

All’interno di questo nuovo scenario, qualsiasi espressione di micro-territorialismo, sia che fosse l’antico signore feudale trasformato in nobile possidente terriero o il sovrano di piccoli pricipati, divenne un rimasuglio impotente del passato e fu sostituita dalla nuova realtà del macro-territorialismo sotto l’egida dello stato centrale.

 

Macro-territorialismo (statismo) (^)

La nascita del moderno stato territoriale può essere vista come la realizzazione delle ambizioni del signore feudale più forte che è riuscito a conquistare, annettere o riunire un vasto insieme di territori e i suoi abitanti ai suoi possessi originari.

Lo statismo territoriale è stato visto come una continuazione diretta del feudalesimo territoriale. Henry Sumner Maine ha notato che “la sovranità territoriale - la concezione che lega la sovranità con il possesso di una limitata porzione della superficie della terra, è stato un risultato specifico, seppure tardivo, del feudalesimo. Questo lo si poteva prevedere a priori, dal momento che è stato il feudalesimo che, per primo, ha associato strettamente doveri personali, e di conseguenza diritti della persona, alla proprietà della terra.” (Ancient Law, capitolo IV)

In altre parole, lo statismo non è altro che feudalesimo su scala maggiore.

Nel passaggio dal feudalesimo allo statismo, alcuni dei vassalli feudali al servizio del re divennero gli alti gradi della burocrazia statale e i servi feudali divennero tutti sudditi statali, a parte una serie di altri cambiamenti significativi riguardanti il rafforzamento del territorialismo che andremo ad esaminare.

La Pace di Westphalia (1648) che pose termine alla Guerra dei Trenta Anni e i trattati che ne seguirono gettarono le basi per l’emergere del sistema degli stati territoriali, ognuno sovrano su un territorio specifico e nei confronti di tutti i suoi abitanti.

Questo fatto rappresenta un allontanamento significativo dalla concezione medioevale nella quale il re era essenzialmente il sovrano del suo popolo. Come indicato da Henry Sumner Maine, anche quando occupavano le terre note al giorno d’oggi con il nome di Francia “i capi Merovingi, discendenti di Clovis, non erano re di Francia, essi erano re dei Franchi.” (Ancient Law, capitolo IV). Una conferma di questo fatto è che il potere e la giurisdizione dei re medioevali non si applicavano agli stranieri, ad esempio ai mercanti itineranti che avevano la loro lex mercatoria.

Sotto il tipo di territorialismo imposto dallo stato moderno, nazionale e democratico, non ci sono più servi della gleba (i rurali) e uomini liberi (i mercanti, gli artigiani e gli abitanti delle città) ma tutti sono o diventano soggetti dello stato (cioè subordinati ai governanti dello stato territoriale), anche gli stranieri che vivono su uno specifico territorio.

L’impulso maggiore al territorialismo statale risultò poi dall’associazione del concetto di nazione con la realtà del territorio. Fino all’apparizione dell’idea di nazione e dell’ideologia del nazionalismo la pretesa di una sovranità territoriale monopolistica da parte di un re su una vasta estensione di terra poggiava sempre su basi instabili e poteva benissimo essere considerata nulla da un potente rivale o messa in dubbio dall’autorità della Chiesa. Fu solo quando le masse entrarono sulla scena sotto il nome di nazioni che nacque il moderno territorialismo. Nazionalismo e territorialismo dovrebbero essere visti come le due facce della stessa medaglia, e il nazionalismo va considerato come una ideologia profondamente territoriale.

Dopo la metà del XIX secolo, con l’unificazione dell’Italia (1861) e della Germania (1871), l’idea che ogni nazione (cioè ogni gruppo nazionale) aveva il diritto di possedere un territorio specifico (la patria) divenne un credo profondamente radicato, indiscusso e indiscutibile.

La Prima Guerra Mondiale e le vicende che ne seguirono sanzionarono il territorialismo statale nella maniera più marcata, come il diritto assoluto ed esclusivo dei governanti statali di dominare un territorio specifico e qualunque cosa esso includesse, senza interferenze esterne di alcun tipo o la presenza al suo interno di una qualunque altra entità autonoma. In altre parole, sovranità piena e illimitata all’interno dei confini dello stato.

I caratteri distintivi del macro-territorialismo statale sono quindi:

il monopolio della sovranità territoriale: lo stato territoriale è, innanzitutto, un monopolista. Per i governanti statali e per i loro seguaci, uno stato all’interno dello stato è una idea inconcepibile e questo perché essi vedono nello stato un potere territoriale (il loro) e non una organizzazione sociale al servizio di membri liberi e volontari. Solo alcuni diritti di extraterritorialità sono concessi ai rappresentanti degli altri stati attraverso la reciproca finzione che fa sì che ogni sede diplomatica si trovi su un pezzetto di terra attribuito all’altro stato.

la delimitazione di confini territoriali: lo stato territoriale si basa sulla restrizione dei movimenti delle persone (entrata e uscita). I confini sono elementi essenziali per l’esistenza dello stato territoriale. Anche al giorno d’oggi, la soppressione di alcuni posti di confine significa solo che si consente una certa libertà di movimento su un’area territoriale più vasta ma non che i confini statali sono stati aboliti.

l’imposizione di identità territoriali: lo stato territoriale può sopravvivere solo attraverso la perpetuazione di una cultura omogenea imposta a tutti da parte del gruppo nazionale dominante. Per questo motivo lo stato territoriale è totalmente determinato a dettare/coltivare una mono-cultura e cioè la stessa identità culturale per tutti coloro che vivono su un territorio, rigettando qualsiasi varietà culturale di un certo peso.

Questi tre aspetti interrelati del territorialismo hanno generato una serie di atti e fatti obbrobriosi che sono l’osceno marchio di fabbrica dello statismo territoriale e che adesso andremo ad analizzare brevemente. 

 

Le colpe/errori del territorialismo (monopolizzare territori) (^)

Il territorialismo, vale a dire: un territorio immenso - un padrone onnipotente, è stata la forma esclusiva di governo nei tempi moderni perché, nella sua semplicità e chiarezza, poteva essere presentato e apparire in maniera plausibile come quella meglio adatta a garantire (o imporre) l’ordine.

Tuttavia, se diamo uno sguardo anche superficiale agli avvenimenti del secolo passato, quando il territorialismo statale era in pieno vigore, non possiamo fare a meno di notare l’esistenza di livelli di disordine (ad esempio ripetuti massacri di esseri umani effettuati dietro comando dei governanti degli stati territoriali) su una scala mai vista a memoria d’uomo. Questo fatto non può essere attribuito in maniera semplicistica all’introduzione di strumenti più efficienti di sterminio; coltelli e mazze (ad es. in Ruanda) sono risultate essere anch’esse armi efficaci per commettere un genocidio nel tentativo di affermare l’esclusivo dominio territoriale.

In presenza di questa realtà storica, l’attrattiva e l’accettazione correnti del territorialismo possono essere spiegate solo attraverso l’esistenza di una propaganda massiccia da parte dei governanti e dei loro servitori intellettuali che è riuscita a far credere alle persone che il territorialismo poggia su basi scientifiche incontrovertibili. Le fondamenta culturali del territorialismo sono rappresentate, al contrario, da invenzioni fabbricate ad arte sotto forma di:

Istinto inesistente. L’istinto territoriale, sostenuto ad esempio da Robert Ardrey nel suo libro The Territorial Imperative, non è affatto un istinto in quanto non è presente in tutti gli esseri umani; altrimenti non ci spiegheremmo l’esistenza di viaggiatori vagabondi, di lavoratori migranti, e di tutti quegli individui che non posseggono un pezzo di terra e non sono attaccati ad alcun luogo specifico (come coloro che vivono tutta la loro vita in appartamenti affittati o in case mobili). L’istinto territoriale è forse confuso con le aspettative razionali di una persona che non vuole intrusi che disturbino la pace della sua casa (in affitto o di proprietà) o di un agricoltore che coltiva un pezzo di terra pacificamente acquisita e dichiara che essa e i frutti del suo lavoro sono sua proprietà. Ma questo ha a che fare con una razionalità e una correttezza di base e non con un istinto di base che innato non è.

Mito inventato. L’idea ampiamente diffusa che ogni nazione ha un suo territorio è un mito potente ma nondimeno inventato composta da due realtà, quella di un gruppo nazionale e quella di una terra madre. In realtà noi siamo innanzitutto individui distinti e non creature di un gregge nazionale; inoltre, quasi ogni persona che vive sulla terra è il risultato di migrazioni di massa e di estesi incroci genetici. Da tutto ciò emerge la realtà vera delle affinità culturali che sono il prodotto dello sviluppo umano e che portano gli individui alla formazione e alla scelta tra una molteplicità di gruppi sociali che hanno sempre meno a che fare con il radicamento territoriale e di certo nulla a che vedere con gli sciocchi miti della Nazione e del sacro suolo della Patria. Il mito sta adesso andando in pezzi perché, con le attuali tecnologie della comunicazione, si può essere in contatto constante e associarsi con molti individui senza bisogno di una prossimità fisica territoriale. Questo fatto apre ad un mondo fatto di comunità virtuali volontariamente scelte e di gruppi basati su affinità tra i membri, oltre lo stato territoriale. 

Storia imprecisa. L’idea, di stampo feudale, che ogni pezzo di terra debba avere un padrone è stata riaffermata in tempi abbastanza recenti attraverso una favola chiamata The Tragedy of the Commons (La tragedia delle terre comuni) in cui l’autore, Garrett Hardin, sostiene la tesi del territorialismo universale, e cioè che ogni pezzo di terra debba avere un unico proprietario (l'individuo o lo stato), per paura che, in caso contrario, esso sia sfruttato eccessivamente da tutti. Comunque, il racconto di Hardin, come sarà mostrato più avanti, è un modo molto impreciso, per non dire di più, di presentare la realtà storica delle terre comuni e porta ad un modo di risolvere problemi di gestione territoriale del tutto illusorio e ingannevole.

Poiché queste concezioni del tutto prive di fondamenta hanno trovato terreno fertile presso persone con interessi subdoli o con menti manipolabili, noi tutti siamo bloccati con un sistema di organizzazione territoriale (il territorialismo statale) che ha prodotto una serie abominevole di disastri su tutti i fronti (morale, sociale, culturale, ecologico, economico, ecc.).

Le colpe/errori dello statismo sono il sotto-prodotto inevitabile delle caratteristiche distintive che derivano dal territorialismo:

Il monopolio della sovranità territoriale: guerre e imperialismi. In un mondo caratterizzato da poteri territoriali monopolistici, la corsa all’accaparramento di territori da annettere e da dominare è stata la preoccupazione di ogni governante statale, compatibilmente con la sua forza militare. Le parole d’ordine Lebensraum (lo spazio vitale di Hitler) e Un posto al sole (le colonie africane di Mussolini) sono state solo le espressioni più grossolane del modo di pensare e di agire di qualsiasi potere territoriale. Le guerre e gli imperialismi sono quindi le pulsioni intrinseche ai governanti degli stati territoriali, sia occupando territori (come in Africa, in Asia e nelle Americhe) che lottando per sfere di influenza politica (come durante il periodo della Guerra Fredda e successivamente). Per coloro che si attengono alla realtà e alla concezione della sovranità territoriale monopolistica vi è quasi una sorta di “horror vacui” di modo che, all’interno di un sistema di stati territoriali, i governanti si sentono obbligati per diritto a occupare una postazione prima che arrivino altri e facciano lo stesso. Questa logica si applica al giorno d’oggi soprattutto all’interno dello stato territoriale (data la scomparsa nei fatti di territori senza stato) con l’assorbimento, attraverso la tassazione e l’accaparramento di prebende, di risorse locali da parte di briganti-governanti nazionali. Nelle situazioni più vergognose questa logica criminale porta a “guerre civili” più o meno violente che sono al giorno d’oggi, in molti casi, l’orrenda carta d’identità dello stato territoriale (si vedano i casi di Palestina, ex-Jugoslavia, Kossovo, Cecenia, Ruanda, Sri Lanka, Yemen, Sierra Leone, Somalia, Timor Est, Darfur, e molti altri ancora).  

La delimitazione di confini territoriali: divisioni e segregazioni. Gli stati territoriali sono ossessionati dal bisogno di tracciare confini che, in molti casi (come in Africa) sono linee di demarcazione inventate per la convenienza del potere occupante. La fissazione di confini da parte del territorialismo statale ha portato a tragedie di indicibile orrore, come ad esempio la migrazione di massa e i massacri seguiti alla partizione dell’India. L’esistenza degli stati territoriali ha rappresentato un dato fondamentale alla base dello sterminio di sei milioni di Ebrei che non avevano dove rifugiarsi in quanto le frontiere di tutti gli stati erano loro precluse (tranne casi limitati di individui e piccoli gruppi). All’interno, la delimitazione di confini ha dato come risultato che i Nativi d’America fossero confinati nelle riserve, la popolazione nera nelle shantytowns (ad es. Soweto) e gli Ebrei ed altri indesiderabili come gli immigrati, nei ghetti. Uno dei segni più osceni del territorialismo è stato il Muro di Berlino e il filo spinato lungo la frontiera ungherese che divideva l’Europa in due blocchi, Orientale e Occidentale. Al giorno d’oggi alcuni degli stessi Europei che si opponevano alla mancanza di libertà di movimento del comunismo di stato hanno costruito la Fortezza Europa le cui forze militari, pattugliando terra e mare, stanno riproponendo la stessa politica con la stessa immorale noncuranza e la stessa idiota arroganza. 

L’imposizione di identità territoriali: etnocentrismo e omogeneizzazione. Il territorialismo statale può sopravvivere solo attraverso la manipolazione dei cervelli e l’imposizione di identità territoriali idiote, e cioè la perpetuazione di idee fasulle di differenziazioni artificiali instillate fin dalla prima infanzia nelle menti degli individui. Questo significa la manifattura di idioti seriali di massa (marionette nazionali identiche) su una scala mai raggiunta in passato. Uno dei crimini morali più odiosi commessi dai padroni territoriali statali è la distruzione delle culture locali (la varietà reale), l’invenzione di culture nazionali (la diversità fasulla), il tutto con la distruzione del cosmopolitismo. Gli ebrei pacifici e a-territoriali sterminati nei campi di concentramento sono ancora una volta il segno di quello che abbiamo perso a causa del territorialismo. Al loro posto abbiamo adesso i governanti ultraterritorialisti dello stato di Israele e i loro seguaci, pronti a bombardare, torturare e rinchiudere in ghetti uomini, donne e bambini al fine di garantirsi un controllo e un uso esclusivo del territorio. 

Non è quindi esagerato affermare che l’ideologia e la pratica del territorialismo hanno prodotto mostri (i predatori criminali degli stati territoriali) che hanno commesso atti mostruosi che replicano di continuo e si sentono legittimati a farlo fino a quando il territorialismo sarà la maniera comunemente accettata di gestione politica e sociale.

Per tutti questi motivi dobbiamo riconoscere, infine, che il territorialismo è un modo davvero assurdo per i gruppi sociali di regolare, organizzare e gestire sé stessi ed è totalmente inadatto per affrontare problemi di natura territoriale. Chiaramente l’esistenza di una realtà territoriale richiede strumenti teorici e pratici per affrontare quella realtà ma non nella maniera semplicistica e abominevole avanzata e attuata di fautori e seguaci del territorialismo.

Esaminiamo allora quali sono le esigenze e gli strumenti che potrebbero essere impiegati per amministrare territori invece di monopolizzarli.

 

Le ragioni/funzioni della territorialità (amministrare territori) (^)

Il vivere in un certo territorio, sviluppare un attaccamento sentimentale ad esso, ricavare da esso le risorse per vivere, tutto questo e molto altro ancora è alla base di quello che qui si chiama territorialità. Come precedentemente sottolineato, la territorialità non è un istinto innato ma un tratto appreso a seguito di determinate esperienze di vita in relazione a un determinato territorio. Comportamenti territoriali correttamente intesi dovrebbero portare ad amministrare territori per il loro uso, godimento e cura, in maniera onesta, piacevole ed efficiente.

A questo fine, diritti di proprietà per l’accesso e l’uso della terra sono stati sviluppati e perfezionati nel corso dei secoli emergendo, come è il caso delle norme sociali, da pratiche ricorrenti accettate e condivise da individui e da comunità. Solo persone estremamente ingenue e ignoranti possono ancora credere che diritti di proprietà sono stati originariamente inventati e introdotti dallo stato o da un qualche potere superiore.

Nella realtà dei fatti, lo stato, al pari di qualsiasi potere monopolistico apparso sulla scena, ha solo codificato in leggi i diritti di proprietà del gruppo sociale dominante e, innanzitutto, garantito diritti di proprietà a sé stesso (attraverso annessioni, espropriazioni, requisizioni, ecc.) e ai suoi sostenitori (ad esempio, attraverso le recinzioni di spazi comuni) rendendo possibile una notevole concentrazione nella proprietà della terra. Infatti, come messo in luce da von Mises: “In nessun luogo e circostanza la proprietà della terra su larga scala ha avuto origine attraverso il funzionamento del meccanismo economico. Essa è il risultato di uno sforzo militare e politico. Basata sulla violenza, la grande proprietà terriera è stata sostenuta dalla violenza e solo dalla violenza.” “Le grandi fortune terriere non sono nate a seguito della superiorità della proprietà di grandi dimensioni ma attraverso l’annessione violenta compiuta al di fuori della sfera dello scambio.” (Socialism, 1936).

In Europa, ad esempio, il moderno stato territoriale con la sua classe di proprietari terrieri è il risultato della espropriazione delle proprietà della Chiesa (accumulate nei secoli attraverso donativi) e delle terre comuni su scala fenomenale.

Questi semplici fatti storici dovrebbe essere sufficienti per convincerci che, al fine di garantire e proteggere davvero diritti di proprietà individuali e comuni, dobbiamo andare al di là di qualsiasi potere territoriale monopolistico e ciò significa, al giorno d’oggi, andare al di là del territorialismo statale.

Mentre il monopolizzare territori costituisce un modo semplice ma altamente inefficace e ingannevole di offrire una risposta ad una realtà complessa (la varietà dei territori e i vari modi di accesso e di uso del suolo), l’amministrare territori, come ogni attività e processo di gestione, richiede una varietà di soluzioni in relazione alla pluralità delle situazioni e delle esigenze.

Possiamo distinguere tra tre tipi principali di diritti di proprietà e di accesso alla terra sulla base di tre modi differenti di relazionarsi e di gestire i territori:

Individuale (Persona). Diritti individuali di proprietà emergono dal lavoro effettuato da una persona su un terreno non occupato. Questa è la concezione liberale classica espressa da Locke nel Second Treatise of Government (1690). Si fa qui riferimento a porzioni di suolo moderatamente grandi o relativamente piccole coltivate da un agricoltore o a superfici costruite (un appartamento, una casa) occupate da una persona o dalla sua famiglia. Nel caso di proprietà individuali molto grandi (ad esempio, centinaia di ettari di terra) la situazione dovrebbe essere esaminata nello specifico. Se la terra era inutilizzata e inutilizzabile anche dal punto di vista paesaggistico-ricreativo e colui che l’ha occupata ha saputo metterla a frutto (investendo risorse e impiegando lavoratori), la proprietà che ne deriva dovrebbe essere accettata e protetta (almeno fino a quando la situazione rimane la stessa). Invece, se la terra è stata appropriata con la forza (esproprio violento) o con l’imbroglio giuridico (inganno statale) siamo ancora nell’ambito inaccettabile del territorialismo statale sotto la veste, non molto differente e sempre molto sgradevole, del territorialismo padronale. Questo equivarrebbe a ciò che Albert Nock ha definito “la preoccupazione statale di convertire la proprietà ottenuta attraverso il lavoro in proprietà ottenuta attraverso la legge.” Infatti “una distribuzione legale della proprietà è la ragione per la quale lo stato fu inventato.” (Anarchist’s Progress, 1927). La diffusione di diritti personali di proprietà ha mostrato di portare a due risultati positivi:

- un livello produttivo generalmente più elevato e una cura maggiore a causa dell’interesse e del coinvolgimento personale e diretto del proprietario;

- un baluardo contro l’oppressione e lo sfruttamento in quanto offre agli individui un luogo fisico su cui basarsi per opporsi a possibili attacchi alla libertà e all’autonomia da qualsiasi parte essi provengano. Per questo motivo Proudhon ha definito la monopolizzazione della proprietà come “furto” (vol) e la diffusione della proprietà come “libertà” (liberté). (Théorie de la propriété, 1862)

Comune (Comunità). La proprietà di gruppo è probabilmente la forma più antica di proprietà apparsa nella storia. Quando l’individuo si sentiva debole o impotente nei confronti delle sfide presentate dall’ambiente o quando aveva bisogno di altri individui per padroneggiare la natura (ad es. dissodare nuove terre) ed estrarre risorse (la caccia, l’estrazione dei minerali, ecc.), la proprietà di gruppo ha rappresentato una soluzione ricorrente. Durante il Medio Evo, i terreni della comunità erano quei territori non coltivati (ad es. boschi, pascoli, corsi d’acqua, ecc.), di cui tutti i membri della comunità locale godevano l’uso. Un uso altamente regolato attraverso costumi formatisi nel tempo, che indicavano quello che era permesso o proibito, di modo che lo sfruttamento eccessivo delle risorse era quasi inesistente. La cosiddetta “tragedia delle terre comuni” messa in luce da Garett Hardin in un saggio molto noto e a cui si è fatto precedentemente riferimento e che ha dato una cattiva fama alla proprietà comune, non è quindi altro che una farsa tragica di ignoranza scientifica e di inganno intellettuale. Inquinamento e sfruttamento eccessivo si sono verificati in spazi che erano visti come “terra di nessuno” o “pattumiere a disposizione di tutti” come gli oceani e i mari, ma questo non ha nulla a che vedere con la proprietà comune.

La proprietà di gruppo (come in una società per azioni) è particolarmente adatta quando abbiamo a che fare con l’amministrazione di risorse territoriali o tratti di territorio che richiedono mezzi per lo sfruttamento e la cura più grandi di quelli che possono essere generalmente a disposizione di un individuo o di una famiglia. Si adatta anche a tutti quei casi in cui gli individui sono disposti a mettere in comune risorse e sforzi, come ad esempio nel caso del National Trust in Inghilterra e Galles, costituito per la cura di luoghi di interesse storico e di bellezza naturale. Una differenza ulteriore in rapporto alla proprietà individuale e che in questo caso ci riferiamo ad un’area molto più grande o a risorse naturali e architettoniche in cui il diritto di passaggio/accesso è garantito a tutti (in alcuni casi dietro pagamento di un biglietto d’entrata come contributo per la conservazione di un edificio storico).     

Universale (Mondo). Vi sono alcune risorse territoriali che, come capolavori artistici o formule scientifiche o ritrovati tecnologici, sono proprietà comune di tutta l’umanità. Per fare un esempio, la foresta Amazzonica non appartiene né allo stato brasiliano né al popolo brasiliano e neppure, in esclusiva, alle persone che vivono su o intorno a quei territori. L’accettazione di diritti universali-mondiali di proprietà cancella definitivamente la pretesa degli stati territoriali di reclamare la proprietà esclusiva e il controllo di vasti territori (la cosiddetta sovranità statale). In altre parole, la terra non appartiene a padroni nazionali monopolisti e perciò non dovrebbe essere l’arena per le loro prepotenze, vessazioni e imposizioni. La terra appartiene a tutta l’umanità, alle generazioni presenti e future, per la loro cura e godimento. L’idea delle risorse della terra (ad es. i mari, le montagne, i fiumi, i paesaggi, ecc.) come eredità universale è stata ribadita e sviluppata nel passato da individui razionali (come Ugo Grozio che proclamò la libertà universale di navigazione in Mare Liberum, 1609) e attualmente da alcune associazioni e istituzioni (ad esempio il Comitato dell’Unesco sul Patrimonio Mondiale). Quello che è sempre più necessario è la messa a punto degli strumenti per la conservazione e la cura di queste risorse e lo svincolamento totale di queste risorse (territori) dalla sovranità di qualsiasi stato al fine di garantirne il futuro. Infatti vi sono segnali che alcuni stati sul cammino della bancarotta potrebbero cercare di vendere le risorse naturali al maggiore offerente al fine di rinsanguare le loro casse. Cose simili sono già avvenute in passato. Norman Douglas deprecava la distruzione delle aree boschive in Calabria attuata dallo stato italiano quando scriveva che la foresta vergine del Gariglione “ è stata venduta per 350.000 franchi ad una società tedesca; il suo silenzio antico è adesso invaso da un esercito di 260 uomini che stanno abbattendo gli alberi il più rapidamente possibile.” (Norman Douglas, Old Calabria, 1915). In tempi recenti un ministro del governo italiano ha suggerito di vendere le spiagge per tirare su soldi per lo stato. È sufficiente che un bandito statale riesca a fare ciò impunemente e l’intera superficie della terra diventerà, ancora più di adesso, un enorme mercimonio territoriale. E ciò non costituirebbe altro che la realizzazione completa del territorialismo statale.

Comunque, il modo in cui le risorse di gruppo e quelle universali saranno amministrate e curate non è una questione da decidere in astratto. In base alla esperienza del passato, la sola cosa che possiamo affermare e sottolineare è che gli individui lasciati liberi di risolvere i loro problemi fanno emergere, prima o poi, la ingegnosità e la volontà di trovare una soluzione, a meno di non essere, a un certo punto, ostacolati in maniera subdola e ingannevole. Per cui, al giorno d’oggi, l’arrivare a soluzioni appropriate è meno importante del rimuovere illusioni assurde concernenti l’esistenza di una istituzione (lo stato territoriale) capace di risolvere qualsiasi problema di organizzazione territoriale. Come indicato da Elinor Ostrom “le comunità di individui hanno contato su istituzioni che non assomigliano né allo stato né al mercato per gestire alcuni sistemi di risorse con ragionevoli livelli di successo per lunghi periodi di tempo.” (Governing the Commons, 1990). Perché ciò sia possibile, l’alternativa ingannevole, proprietà pubblica - proprietà privata, deve essere abbandonata in quanto è uno dei più grandi imbrogli commessi a danno dei creduloni considerando che, molto spesso, la proprietà pubblica come proprietà statale non è stata altro che il feudo “privato” degli strati dirigenti, usata ed abusata come loro dominio personale per raccogliere e incamerare denaro. Quello di cui invece abbiamo bisogno è sviluppare una scala dei diritti sulla terra molto trasparente che potrebbe essere sotto forma di:

Proprietà. Diritti pieni di proprietà (ius utendi et abutendi) e pieno controllo riguardo all’accesso (totale autonomia di gestione)

Possesso. Diritti parziali di proprietà (ius utendi sine abutendi) e controllo dell’accesso debole-relativo (possesso come uso).

Cura. Diritti di proprietà disseminati e controllo degli accessi quasi inesistente (godimento come cura).

Il modo in cui questi diritti sulla terra emergono dipende dal tipo di risorsa e dal tipo di sforzo e da chi è stato esercitato. Inoltre, potremmo avere una proprietà singola o una proprietà comune di un pezzo di terra in base alle scelte volontarie dei proprietari. Le varie forme di proprietà, possesso, cura non rappresentano comunque l’aspetto più importante. Quello che è più importante è la presa di coscienza che la terra appartiene agli esseri umani come individui, comunità e umanità tutta e non è riserva di caccia per i governanti e i loro associati. Per questo abbiamo bisogno di norme ragionevoli e condivise per amministrare territori e non certo di leggi idiote per monopolizzare territori e le persone che vivono su tali territori. Il territorialismo statale ha inflitto così tante miserie alle persone e ha provocato così tanti guasti all’ambiente che è tempo di sbarazzarci di questa calamità il prima possibile e una volta per tutte.

 

Oltre il territorialismo (^)

La fine del territorialismo è la pre-condizione necessaria per l’attuazione di tre ricomposizioni positive:

-  La ricomposizione territori nazionali - territori stranieri. Le gabbie feudali dei signori feudali sono state rimpiazzate dai pollai nazionali dei governanti nazionali. Questo non può essere visto come un cambiamento significativo per il meglio ma come la prosecuzione dello stesso atteggiamento deprecabile: considerare e trattare gli esseri umani come appendici della terra, sottomessi ai padroni del territorio. Per fare un esempio, ci sono state persone che, nel corso della loro vita, hanno cambiato più di una volta nazionalità e sistema giuridico in relazione alle vicende politiche e militari. Tutto ciò rappresenta un qualcosa di assurdo che può essere accettato e considerato normale solo grazie al costante lavaggio dei cervelli dovuto alla propaganda degli stati. Inoltre, il fatto che un individuo debba richiedere un documento (un permesso) dagli stati per muoversi da un luogo all’altro della terra, talvolta addirittura anche nell’ambito dello stesso stato (passaporti interni) costituisce da una parte una manifestazione oscena di potere e dall’altra una manifestazione umiliante di asservimento. Come messo in luce da Proudhon, con la istituzione dei passaporti lo stato sta sorvegliando e vendendo “il diritto di camminare e viaggiare.” (Qu’est-ce que la proprieté?, 1840). Tutto questo è destinato a finire con il superamento del territorialismo e la ricomposizione della terra in un unico spazio libero differenziato semplicemente da fattori orografici e da caratteristiche ambientali e culturali.   

La ricomposizione città - campagna. Il territorialismo statale e i suoi sotto-prodotti rappresentati dalle guerre e dagli imperialismi hanno generato enormi concentrazioni di persone in alcuni posti (e cioè le città capitali degli imperi) dove le risorse erano indirizzate e dove una vorace burocrazia e altri strati parassitari erano intenti a consumarle. Nel 1947, ad esempio, un geografo francese, Jean-François Gravier, diede alle stampe un libro dal titolo significativo Paris et le désert français (Parigi e il deserto francese). Si trattava di una critica forte del potere enorme dello stato centrale (rappresentato da Parigi) di assorbire risorse a detrimento di altri territori. La stessa situazione si ripropone nelle regioni sottosviluppate dove la capitale costituisce il cancro che succhia risorse dappertutto intorno a sé. Tutto questo è possibile a causa del territorialismo, e cioè del monopolio di potere (esclusiva sovranità territoriale) che le persone hanno accettato attraverso la manipolazione e l’inganno ritenendolo la condizione necessaria ed indispensabile per la gestione di un territorio. Andare oltre il territorialismo renderà possibile superare gravi squilibri sociali, economici e demografici, con la riduzione degli strati parassitari e la diffusione della popolazione e delle risorse in una maniera più razionale e appropriata. 

La ricomposizione funzionalità - realtà. Fino ad oggi la maniera di gestire territori e risorse è essenzialmente connessa agli imperativi della politica nazionale. Quello di cui vi è bisogno invece, sono norme funzionali (come per il traffico o l’inquinamento dell’aria) invece di leggi nazionali, spesso promulgate per favorire gruppi di pressione nazionali. Ad esempio, un servizio offerto da una impresa (poniamo il caso di una assicurazione) finisce generalmente ai confini di ogni stato anche se sarebbe molto più sensato, per produttori e consumatori, ignorare confini artificiosi ed estendere il loro raggio di azione fino al punto in cui gli scambi sono funzionalmente ed economicamente convenienti. In una fase storica in cui la fruizione di servizi riveste un peso considerevole nella vita di ognuno, mettere in atto gli stessi ostacoli che una volta furono posti in essere contro prodotti “stranieri” sottolinea ancora una volta il fatto che non siamo molto lontani dal feudalesimo. Come già precedentemente affermato, lo statismo territoriale è ancora feudalesimo seppure su scala allargata. Per fare solo un esempio, all’inizio del XXI secolo una persona in viaggio attraverso varie regioni d’Europa, se vuole telefonare con il suo cellulare è costretta ad avere per ogni stato nazionale una specifica scheda SIM legata ad un fornitore nazionale, a meno che non voglia essere un “benefattore” d’impresa e pagare non solo per le telefonate fatte ma anche, in parte, per quelle ricevute (oppure sottostare a tariffe da estorsione). Queste sono assurdità che possono essere risolte solo se poniamo fine alle pretese degli stati-mafia di controllare un territorio e di derubare i suoi abitanti.

Dovrebbe quindi apparire sempre più chiaro a tutti noi che, se vogliamo costruire un futuro apprezzabile dobbiamo andare oltre il territorialismo e verso lo spazialismo.

 

Verso lo spazialismo (^)

L’impiego del termine spazialismo per caratterizzare una realtà oltre il territorialismo sembra appropriato in quanto si vuole fare riferimento ad ogni tipo di territorio e luogo, inclusi quelli multi-dimensionali e non-materiali. E questo è importante al giorno d’oggi soprattutto perché le persone, più che nel passato, sono altamente differenziate nelle loro relazioni con il territorio e allorché nuovi spazi sono costruiti di continuo, materialmente e virtualmente.

Possiamo elencare la seguente tipologia di spazi:

Spazi Naturali (lito-idro-atmosfera)

Spazi Artificiali (l’ambiente costruito)

Spazi Virtuali (la realtà delle idee).

I sostenitori del territorialismo statale sono riusciti finora a monopolizzare la sovranità degli spazi naturali e artificiali e a manipolare la realtà delle idee attraverso la propaganda di intellettuali prezzolati. Comunque, mano a mano che un numero crescente di individui partecipa alla produzione di spazi virtuali di ideazione e comunicazione, il controllo e la manipolazione dei cervelli da parte dello stato è destinato a fallire e, col tempo, la libera e universale circolazione di nuove idee contribuirà al crollo delle altre pretese monopolistiche. Come l’introduzione della stampa a caratteri mobili, (intorno al 1440), gettando luce su credenze oscurantiste, contribuì alla fine del potere temporale della Chiesa, così la rete virtuale (Internet) con la diffusione universale di informazione e contro-informazione, distruggerà miti e vincoli mentali e, assieme ad essi, il potere territoriale monopolistico degli stati.

Una realtà molto semplice può avere meccanismi semplici di controllo e di gestione, ma una realtà fatta di molti spazi che si intersecano tra di loro (naturali-artificiali-virtuali) non è qualcosa che può essere pattugliata e circoscritta mettendo posti di frontiera e segnali di “vietato l’accesso”. Nei suoi scritti, ad esempio, von Mises ha ribadito più volte che “l’economia di mercato non rispetta le frontiere politiche, Il suo campo d’azione è il mondo intero.” (Human Action, 1949). Ora più che mai, l’attuale realtà virtuale dell’informazione e della comunicazione non riconosce alcuna di tali limitazioni.

In tempi recenti è stato sufficiente che centinaia di macchine da scrivere e di attrezzature radio fossero a disposizione di coloro che volevano controbattere le menzogne degli stati comunisti, per coagulare una opposizione ai partiti comunisti dell’Europa dell’est e costringerli ad abbandonare il potere in un breve volgere di tempo.

L’idea che, per scongiurare che ciò si ripeta, gli stati possano impadronirsi della rete universale di spazi virtuali nota come World Wide Web è una pia illusione del potere a meno che un numero straordinario di persone decidano il contrario e, per “paura della libertà”, riescano a far sì che tutti si ritirino anche da questi spazi virtuali verso una condizione di servile territorialismo e accettino che Internet si riduca a una serie di Statenets o Imperialnets chiuse e controllate.

Ad ogni modo questo richiederebbe un crollo della tecnologia come dopo una devastante guerra, con l’insicurezza totale che si impadronisce della mente delle persone.

Per essere sicuri che ciò non accada, il territorialismo va soppiantato, in ogni sfera della vita, dalla realtà dello spazialismo.

La realtà dello spazialismo dovrebbe essere caratterizzata da una serie di aspetti e requisiti qualitativi connessi agli spazi in modo da renderli apprezzati e curati in maniera effettiva. Gli spazi dovrebbero quindi possedere i seguenti tratti:

Peculiarità: ciò può essere conseguito attraverso la personalizzazione dello spazio che accentui la varietà attraverso precisi punti di riferimento (edifici, piazze, parchi, ecc.)

Permeabilità: ciò significa interconnessione tra gli spazi attraverso la rimozione di impedimenti non necessari (naturali o artificiali);

Gestibilità: ciò significa una chiara attribuzione di responsabilità in relazione alla funzionalità, competenza e volontà di gestione.

Tutto ciò chiaramente va contro l’attuale modello dello stato territoriale in cui si impone una artificiale standardizzazione, le connessioni tra i territori sono ostruite da imperativi politici e burocratici e la centralizzazione si fa beffe di una cura e gestione efficiente dei territori.

Perché lo spazialismo (con tutti quegli aspetti e requisiti qualitativi) sia possibile dobbiamo anche avere certe garanzie per le persone in rapporto agli spazi. Queste garanzie sono:

la sicurezza: la proprietà personale degli spazi personali dovrebbe essere assicurata (ad es. attraverso la protezione di compagnie di assicurazione finanziate dai clienti) e non soggetta agli umori di un potere monopolistico. L’idea che la proprietà esiste solo perché assicurata dallo stato è una nozione talmente ridicola che dovrebbe essere rinviata al suo inventore, lo stato imbroglione e trafficone.

la disponibilità: la proprietà è come un concime, che dovrebbe essere sparso dappertutto in maniera omogenea per dare i suoi frutti al meglio. Ecco perché l’acquisizione di proprietà attraverso lo sforzo diretto e l’accrescimento personale in valore è l’unico modo pienamente accettabile e l’unico che lascia abbastanza posto a tutti coloro che vogliono avere cura e valorizzare le risorse e gli spazi naturali, artificiali e virtuali.  

l’accessibilità: alcune proprietà dovrebbero essere anche accessibili, con la possibilità di entrare e godere (patrimonio mondiale) o utilizzare (terreni comuni). Questo significa pure libero accesso alle risorse della creazione umana senza limitazioni statali sotto forma di brevetti e patenti. I progressi nella conoscenza e i miglioramenti tecnologici sono resi possibili sulla base di un numero infinito di scienziati e persone comuni e ciò dovrebbe essere incoraggiato e protetto senza introdurre vincoli idioti.

Lo spazialismo è dunque una nozione molto ampia che serve per operare una rottura netta con la concezione ristretta e la pretesa arrogante del territorialismo statale. Nel passaggio dal territorialismo allo statismo, molti problemi nuovi di gestione delle risorse si presenteranno e saranno risolti attraverso la ingegnosità dell’essere umano in molti modi differenti in relazione a differenti esigenze e desideri. Il fatto che non tutto possa essere definito e deciso in anticipo non è una ragione per rimanere attaccati al vecchio mostro del territorialismo di cui conosciamo l’infinito elenco di miserie, di tragedie e di problemi irrisolti. Una lista che è destinata ad allungarsi dal momento che è molto improbabile che i problemi locali e globali del 21º secolo possano essere affrontati con successo nel quadro del territorialismo statale.

Lo spazialismo non è quindi un salto nel buio, via dal presunto fantastico mondo del territorialismo, ma uno slancio verso affascinanti sfide in nuovi spazi inesplorati dell’umana avventura al fine di evitare i futuri giganteschi disastri che gli stati territoriali stanno generando per tutti noi.