Il mondo rurale (^)

In assenza di reperti storici, è plausibile immaginare che, all'inizio dei tempi, la maggior parte degli esseri umani vivesse come animali nomadi, non legati ad alcuna località precisa, alla ricerca, dappertutto, di risorse per nutrirsi e di rifugi per ripararsi.

In altre parole, l'essere umano primitivo era, innanzitutto, un raccoglitore di frutti e un cacciatore di piccoli animali, sempre all'erta riguardo alle bestie di grandi dimensioni e ai fenomeni naturali pericolosi.

Solo nel corso del tempo, con l'invenzione di strumenti appropriati (lance, frecce, ecc.) e lo sviluppo di migliori capacità di cooperazione per dare la caccia ad animali di più grandi dimensioni, l'individuo nomade o semi-nomade e la sua famiglia o il piccolo gruppo di consanguinei, furono in grado di passare ad una vita più sedentaria.

Questa esistenza sedentaria o quasi-sedentaria divenne, successivamente, una forte caratteristica culturale, con l'invenzione-scoperta dell'agricoltura e dell'allevamento degli animali. Gli individui più capaci riuscirono allora a bilanciare produzione e consumo, allontanando i capricci di una caccia infruttuosa o di occasionali scarsità naturali.

La rivoluzione agricola fu la fase preliminare necessaria di quella che l'archeologo
Gordon Childe ha chiamato la Rivoluzione Urbana (http://faculty.washington.edu/plape/citiesaut11/readings/Childe-urban%20revolution%201950.pdf).

 

La rivoluzione urbana (^)

Piccoli insediamenti di persone esistevano già nei tempi preistorici e alcuni di essi divennero anche agglomerati relativamente grandi. Tuttavia, il semplice numero di abitanti che si addensano in un luogo non è il segno dell'esistenza di una città. Un qualcosa di più è richiesto per trasformare una massa di persone che vivono a stretto contatto in una realtà urbana. E questo è ciò che avvenne nel corso del tempo.

La Rivoluzione Urbana che ebbe luogo durante il Neolitico è considerata una fase importante del processo di civilizzazione. Questo aspetto emerge chiaramente dal fatto che la radice del termine civilizzazione è civis(cittadino) e civilis(appartenente o proprio del cittadino). Durante l'era del Neolitico, la semplicità del mondo rurale fu sostituita, in alcune località geografiche, da un tipo di organizzazione più complesso caratterizzato da:

- la produzione di un sovrappiù agricolo;
- la concentrazione delle persone e la specializzazione del lavoro;
- la centralizzazione del potere e l'emergere di capi/governanti stabili.

L'invenzione della città ha significato anche l'affermarsi di nuovi bisogni sociali che furono soddisfatti attraverso:

- l'elaborazione di strumenti simbolici (la scrittura, l'aritmetica, la geometria, ecc.) per rappresentare e padroneggiare la realtà:
- la costruzione di strutture edilizie importanti per usi funzionali (ad es. granai) o di culto (ad es. templi);
- l'instaurazione di commerci e di scambi culturali a lunga distanza, mano a mano che la città diventava il punto di attrazione per ogni sorta di artigiani e di mercanti venuti da lontano.

Il fatto che la civiltà (progresso) e il dominio (potere) siano entrambi originati dallo sviluppo delle città è il segno, già fin dall'inizio, dell'aspetto ambivalente della nuova organizzazione sociale portata dalla rivoluzione urbana di cui gli esempi più chiari, nei loro risvolti positivi e negativi, sono le famose città del mondo antico: Atene, Alessandria, Roma.

 

La realtà urbana (^)

La realtà urbana del mondo antico presentava aspetti che saranno caratteristiche ricorrenti di molte grandi città.

Innanzitutto, una città diventa importante in quanto è il centro del potere (militare, politico, amministrativo, religioso) e attrae individui alla ricerca di prestigio sociale, vita culturale e opportunità economiche.

In secondo luogo, al fine di soddisfare una numerosa popolazione e rafforzare il loro potere politico, i governanti si sono sempre prefissi di controllare e convogliare verso la città il sovrappiù di produzione estratto da regioni vicine e lontane.

Questo è, ad esempio, il caso della citta-stato di Atene. Al tempo di Pericle, Atene divenne un potere imperiale, dominando l'insieme delle città greche raccolte nella Lega di Delo e appropriandosi del tesoro comune. Sembra che Pericle abbia usato tali risorse, che appartenevano a tutti i cittadini membri della Lega, per finanziare grandiosi lavori pubblici e per mantenere i funzionari statali e i gruppi legati allo stato.

La famosa democrazia ateniese era, in realtà, un regime politico basato sul lavoro di centinaia di migliaia di schiavi (secondo lo storico R. E. Wycherley, circa 100.000 su una popolazione di 300.000 abitanti) e sulla supremazia imperialista e lo sfruttamento delle altre città-stato greche. (Lewis Mumford, The City in History, 1961)

Il dominio di Atene ha potuto durare solo fino a quando la politica di sfruttamento imperiale non ha esteso i suoi effetti di corruzione alla maggioranza degli abitanti, e l'invidia e la rabbia delle popolazioni sottomesse non le ha spinte a formare una coalizione per liberarsi dall'oppressore.

La Guerra del Peloponneso (431-404 avanti Cristo) segnò la fine del potere di Atene.
Negli anni seguenti, il processo e l'avvelenamento di Socrate da parte dei governanti statali nel 399 avanti Cristo avrebbe potuto segnare anche la fine di Atene come centro culturale se non fosse stato per il fatto che gli insegnamenti di Socrate sopravvissero e furono trasmessi alla posterità dal suo discepolo, Platone, e poi continuati e sviluppati dal discepolo di Platone, Aristotele. E Aristotele fu il precettore di Alessandro il Macedone, il fondatore di un'altra grande città: Alessandria d'Egitto.

Durante l'inverno del 332-331 avanti Cristo, Alessandro affidò all'architetto Dinocrate di Rodi il compito di preparare i piani per una città su una striscia di terra tra il mare Mediterraneo e il lago Mareotis. E così sorse Alessandria, che attrasse, in un breve spazio di tempo, un insieme variegato di popolazioni (Ebrei, Greci, Egiziani) che contribuirono al suo splendore come centro culturale e porto commerciale. Il Museo nel quale si effettuavano ricerche scientifiche e la famosa Biblioteca in cui i documenti del sapere erano raccolti e conservati, rappresentavano gli esempi più evidenti della forza civilizzatrice generata dalla città in quanto luogo in cui persone di diversa formazione culturale possono incontrarsi e produrre ogni sorta di artefatto.
La città e l'intero Egitto caddero successivamente sotto il controllo di Roma che assunse la giurisdizione formale di tutti quei territori nell'anno 80 avanti Cristo.

Con l'ascesa e il lungo periodo di dominio di Roma, tutti gli aspetti positivi e negativi intrinsechi ad una grande città divennero manifesti nella maniera più evidente.
Da un umile inizio come agglomerato di pastori sulle colline, Roma crebbe continuamente passando dalla Repubblica all'Impero, attraendo un numero sempre più grande di persone e assorbendo una quantità crescente di risorse.

Nella descrizione di Lewis Mumford: “Questo popolo [i Romani] nacque come una nazione di tenaci agricoltori, legati alla terra, astemi, laboriosi, vigorosi nell'arare e nel mietere, e capaci di sopportare gli stenti e di reggere ai colpi della sfortuna tanto da diventare il popolo più forte dell'antichità. Ma proprio per la loro forza e per il loro dinamismo inesauribile finirono per dar vita ad una nazione di accaparratori e di scrocconi, che viveva alle spalle dei suoi vicini, trasformando la propria città madre in una bocca e in uno stomaco giganteschi.” (La città nella storia, 1961)

L'imperialismo generò il parassitismo. A un certo punto della sua storia, 200.000 abitanti di Roma, su una popolazione di oltre un milione, vivevano di assistenza pubblica ed erano tenuti occupati con passatempi stravaganti durante i 159 giorni decretati come festività sotto il regno di Claudio (41-54 dopo Cristo). Di modo che panem et circenses era davvero tutto ciò che riempiva le loro vite.

Roma è il classico esempio delle tendenze insite nel gigantismo e nell'imperialismo. L'energia necessaria per crescere e dominare porta, nel corso del tempo, alla fiacchezza e al compiacimento di sé; di modo che, quando nuovi individui pieni di rinnovata energia appaiono sulla scena, essi sono pronti a prendere il sopravvento, distruggendo l'attuale potere e preparando il terreno per futuri sviluppi.

Questo è quello che accadde con Roma quando i cosiddetti barbari (i Germani) arrivarono nella penisola. Dopo quasi sette secoli in cui Roma era stata la città più importante del mondo occidentale, nel 330 la capitale dell'impero romano fu trasferita a Costantinopoli e nel 410 i Visigoti, al comando di Alarico, saccheggiarono la città, il primo di due altri saccheggi (nel 455 e nel 472) che sanzionarono la fine di Roma come un centro urbano potente. La popolazione di Roma diminuì da oltre un milione di abitanti (primo secolo dell'era cristiana) a meno di 50.000 abitanti (settimo secolo).

L'impossibilità di fare affidamento, come in passato, sul drenaggio di risorse verso il centro dell'impero, spinse la popolazione ad abbandonare la città e a cominciare una vita produttiva nelle campagne.

A seguito della decadenza di Roma e fin verso la fine del primo millennio, la vita nell'Europa occidentale si svolse nelle campagne e si concentrò nelle occupazioni agricole. Per molti storici questo fu un periodo di interruzione della vita urbana e della civiltà, e forse per questo motivo fu da essi chiamato il Medio Evo.

 

La scena agricola (^)

La decadenza e il collasso finale dell'Impero Romano d'occidente significò la fine di quelle relazioni in cui la burocrazia e l'aristocrazia, vivendo a Roma e nei centri minori dell'impero, dominavano la popolazione rurale attraverso l'esercito e godevano del sovrappiù estratto. Questa dinamica era durata parecchi secoli ed era stata resa possibile dalla continua appropriazione di nuovi territori e di nuovi soggetti da controllare e sfruttare.

Quando l'espansione imperiale cessò e gli abitanti delle nuove province lottarono per diventare più autonomi e per conservare a sé una quota maggiore del sovrappiù prodotto, gli abitanti di Roma non furono più in grado di continuare con il loro stile di vita improduttiva. Molti aristocratici abbandonarono Roma e andarono ad abitare nelle loro proprietà in campagna, per trovare là i mezzi per vivere. Si potrebbe affermare che non fu solo il saccheggio delle città da parte dei barbari, ma anche la fine del saccheggio delle campagne da parte della burocrazia e dell'aristocrazia imperiale, che spinse le persone a un ritorno alla terra. Qualunque sia stata la vera causa, rimane il fatto che molti abitanti delle città dovettero riprendere il contatto con la natura e impegnarsi in una esistenza più produttiva.

Il mondo occidentale divenne quindi, ancora una volta, un mondo principalmente rurale caratterizzato da due tipi di organizzazione sociale:

- la villa, nella penisola italica e nella parte meridionale della Gallia;
- la marca, nei territori dei Germani.

Questi nuovi insediamenti erano entrambi centri di produzione agricola, con le terre coltivate individualmente o in comune, affittate dal padrone al colono in cambio di parte del raccolto (solitamente il dieci per cento), o possedute dall'intera comunità che ripartiva i frutti della produzione tra i suoi membri.

Nell'organizzazione sociale che emerse a seguito della fine dell'Impero Romano si intravede l'inizio di quelle relazioni feudali e comunitarie che caratterizzarono il Medio Evo, almeno fino all'inizio del nuovo millennio.

Nel suo complesso, il Medio Evo, lungi dall'essere un'epoca oscura, priva di civiltà, vide la bonifica estesa di nuove terre e l'introduzione di nuovi attrezzi (ad es. l'aratro pesante) e di nuovi metodi (ad es. la rotazione triennale) per la coltivazione dei campi. Tutto ciò portò ad un innalzamento della produttività e alla formazione di sovrappiù di beni agricoli che, a loro volta, rese possibile una nuova divisione sociale del lavoro, aumentando il numero di artigiani e mercanti.

La rivoluzione commerciale, che prese avvio nel corso del decimo secolo, fu dunque preceduta da una crescita della produzione agricola.
Questi sovrappiù di produzione trovarono generalmente tre destinazioni, Essi furono:

- in parte assorbiti dai padroni come pagamento dei canoni d'affitto o dei servizi offerti (ad es. protezione);
- in parte scambiati con altri beni prodotti dagli artigiani o importati attraverso i mercanti da località lontane (ad es. le spezie);
- in parte usati per finanziare costruzioni di uso comune (ad es. una chiesa, un mercato) o per il miglioramento di una situazione personale (ad es. un alloggio più confortevole).

In tutti questi casi possiamo vedere alcune premesse del rifiorire delle città e della ripresa della vita urbana.

 

La città medioevale (^)

La rinascita urbana che iniziò intorno all'anno mille, ebbe quindi una base comune, e cioè la crescita della produzione agricola che rese possibile una divisione del lavoro più ampia. Da questa base comune emerse poi una varietà di forme urbane, quali:

- i vecchi insediamenti, ad es. le civitates di origine romana (nell'Europa centrale e meridionale) che erano state tenute in vita dalla presenza del potere ecclesiastico e che ricevettero un nuovo impulso dall'insediamento di nuovi abitanti provenienti dal contado come gli agricoltori che divennero artigiani e i proprietari terrieri che iniziarono a spendere le loro rendite in città.

- gli insediamenti paralleli, ad es. quegli insediamenti che si formarono e crebbero accanto ad un punto di attrazione o di sosta, come un castello, una abbazia, un convento. Verso queste località gravitavano, regolarmente o occasionalmente, mercanti e pellegrini. I siti migliori dal punto di vista del trasporto (ad es. accanto a un fiume), o gli agglomerati meglio protetti (ad es. all'interno di mura) divennero non solo luoghi di passaggio ma anche di insediamento popoloso a tal punto che la crescente popolazione dovette trovare posto all'esterno, foris burgus, nel sobborgo.

- i nuovi insediamenti, ad es. le villae novae o borghi franchi, fondati in molti casi dai signori rurali che videro, nel popolamento di nuove terre (terrae novae), la possibilità di accrescere il loro potere e la loro ricchezza. Al fine di attrarre le persone, i signori del luogo dovettero garantire la esenzione da certi pagamenti e concedere altri privilegi e libertà (ad es., diritti di caccia e pesca).

Qualunque fosse l'origine delle città medioevali, le forze che le animavano erano rappresentate da esseri umani “nuovi” dotati di una enorme dose di energia e dal desiderio di esplorare ed esprimere nuovi modi di vita. Facciamo qui riferimento a:

Gli artigiani. Con la crescita della produzione agricola nelle campagne, a seguito della introduzione di migliori pratiche di coltivazione e dell'uso di attrezzi più efficienti, un certo numero di contadini si spostò nelle città e concentrò i propri sforzi nel fabbricare strumenti e oggetti da scambiare con il sovrappiù agricolo. La bottega artigiana non era solo il luogo di produzione ma anche di vendita di prodotti per gli abitanti della città e del contado.

I mercanti. Con la crescita della produzione artigiana e la ripresa del commercio su lunga distanza, una ulteriore divisione sociale del lavoro emerse con l'apparizione di numerosi mercanti. Essi attraversavano l'Europa con le loro mercanzie da mettere in mostra e vendere nelle fiere che avevano luogo in molte località differenti, le più famose delle quali erano le fiere della Contea di Champagne, nella regione attualmente nota come Île de France (a sud-est di Parigi).

Sia gli artigiani che i mercanti ebbero un ruolo sempre più importante nella vita sociale ed economica del Medio Evo. Il loro peso e potere era dovuto anche, in larga misura, al fatto che essi si organizzarono in associazioni, chiamate diversamente a seconda della loro collocazione geografica (corporazioni, gilde, hansa), e furono in grado di dettare le loro regole in materia di produzione e di commercio, e di proteggere gli interessi e la sicurezza dei propri membri.

Nel corso del tempo queste associazioni divennero istituzioni chiuse, che regolavano ogni sorta di aspetto concernente, ad esempio, le condizioni di accesso, i requisiti per l'apprendistato, la quantità e il prezzo dei beni prodotti, il livello delle paghe, l'introduzione di nuove tecnologie, e altro ancora.

Al tempo stesso l'associazione era una confraternita che si occupava del benessere dei propri membri, proteggendo la loro sicurezza contro gli stranieri e contro le persone al di fuori dell'associazione, e aiutando a risolvere eventuali controversie che potessero insorgere al loro interno.

Attraverso questi vari aspetti delle associazioni, come istituzioni e come confraternite, trovò espressione sia il lato positivo che quello negativo di questa nuova forma di organizzazione sociale. Il lato positivo faceva riferimento, ad esempio, all'assistenza reciproca e alla soluzione autonoma di problemi interni (ad es. l'amministrazione della giustizia attraverso la lex mercatoria), senza il bisogno di interventi dall'esterno. Il lato negativo consisteva nel fatto che tali organizzazioni cercarono di dominare la scena urbana e di imporre il loro potere agli abitanti del contado. In altre parole, le associazioni miravano a dettare le condizioni del commercio sia agli abitanti della città (ad es. proibizione di importare beni dall'esterno) che a quelli della campagna (ad es. obbligo per i contadini di vendere i loro prodotti sul mercato cittadino a un prezzo calmierato).

La preoccupazione prevalente delle ricche famiglie delle città medioevali era quella di controllare non solo il contado ma anche altre città che avrebbero potuto rivaleggiare nell'ambito della riuscita economica. E così abbiamo, ad esempio, nella penisola italica, le lotte tra Genova e Pisa, Pisa e Amalfi, Genova e Venezia. In definitiva, l'aspetto politico della supremazia territoriale e marittima divenne più importante dell'aspetto economico di capacità produttiva e di perizia nel commercio.

Se associamo questa trasformazione di mentalità e di finalità con l'introduzione di nuove armi (ad es. i cannoni), molto più costose da fabbricare e capaci di distruggere le mura a protezione di un castello e di una città, abbiamo alcune indicazioni del perché un mondo composto da molti feudi padronali e città indipendenti andò incontro ad un declino e fu sovrastato e rimpiazzato da un mondo composto da vaste realtà territoriali sovrane caratterizzate da un grande padrone (il re) e da una grande città (la capitale).

 

La città capitale (^)

Il declino delle libere città del Medio Evo e la loro incorporazione in vasti stati territoriali, i cui abitanti furono standardizzati e omologati in soggetti nazionali, fu il risultato di un lungo processo del quale gli stessi abitanti delle città sono stati, in gran parte, responsabili, anche se non sempre in una maniera consapevole o volontaria.

Il cambiamento ha avuto luogo in epoche differenti, iniziando con la Francia e l'Inghilterra dove le forze centralizzatrici erano più forti ed apparvero in epoca anteriore rispetto alla realtà Italiana e Tedesca, caratterizzate dalla proliferazione di città, principati, ducati, che rimasero in vita, più o meno, fin verso la metà del secolo diciannovesimo.

Questa trasformazione fu il risultato di altri cambiamenti nella sfera della cultura, dell'economia e della tecnologia, la cui dinamica è qui tratteggiata in maniera molto sommaria.

I membri delle corporazioni giocarono sul contrasto tra il re (il feudatario più potente) e i signori locali (ecclesiastici o laici), mettendosi spesso sotto la protezione del re e garantendogli una sorta di sudditanza formale. In questo modo essi ottenevano, in cambio, alcuni privilegi, come ad esempio: l'esenzione dal pagamento di alcune tasse, il godimento di un privilegio monopolistico nel commercio all'interno di un certo territorio, ecc.

In definitiva, gli esponenti principali della vita economica della città abdicarono alla loro autonomia e si accontentarono di sfruttare il contado e gli altri strati cittadini, e di diventare ricchi sotto la protezione di un padrone distante. Questa scelta però non preannunciava nulla di buono quanto al loro rimanere politicamente e amministrativamente indipendenti nel lungo periodo.

La centralizzazione del potere nelle mani di un potente signore, con considerevoli mezzi a sua disposizione, fu anche favorita in misura notevole, come precedentemente sottolineato, dall'introduzione di armi più sofisticate e più costose, prima fra tutti il cannone con palle di ferro fuso, al posto delle palle di pietra, che potevano perforare quasi tutte le fortificazioni che, fino ad allora, avevano garantito la sicurezza del signore locale nel suo castello e della comunità cittadina all'interno delle sue mura. Nelle parole di Lewis Mumford, “l'introduzione della polvere da sparo all'inizio del quattordicesimo secolo suonò la campana a morte per le libere città.” (The Culture of Cities, 1938)

Inoltre, la sopravvivenza di molti potentati locali che cercavano di imporre le loro tasse (ad esempio, per l'uso delle strade, dei ponti, per l'attraversamento dei fiumi, per l'accesso in città), i loro parametri di misura e di peso, e i loro mezzi di pagamento, divenne sempre più inaccettabile agli strati economici che erano a favore del libero flusso di beni, in un'epoca in cui la produzione e il commercio stavano crescendo e si stavano diffondendo.

Di modo che, l'unificazione di un vasto territorio sotto un unico padrone, e cioè in uno stato centrale, significò un progresso rispetto alla situazione corrente, ponendo fine al particolarismo locale. Quindi lo stato centrale prevalse anche perché rappresentava una organizzazione funzionale più al passo con i bisogni del tempo e con lo sviluppo della tecnologia.

Le città libere dell'inizio del Medio Evo avrebbero potuto sopravvivere e prosperare se i loro abitanti avessero agito con gli abitanti del contado in maniera produttiva-cooperativa e si fossero comportati in maniera produttiva-competitiva nei confronti delle altre città e principati. Il risultato avrebbe potuto essere un federalismo universale in espansione, con lo sviluppo economico e il progresso culturale che avrebbe coinvolto e si sarebbe diffuso su tutti i territori e presso tutti gli individui.

Questo è quello che avvenne, seppure dopo un periodo di lotte e solo in una certa misura, nella Confederazione Svizzera dove nessun re emerse o gli fu permesso di emergere, ma le città e le campagne decisero di confederarsi su una base paritaria e organizzarono il territorio sotto forma di numerosi cantoni largamente autonomi, senza un centro dominante.

Altrove invece, con il sorgere dello stato centrale, il potere e la ricchezza iniziarono a essere concentrati nella città capitale.
Mentre la città medioevale cresceva lentamente, in maniera organica e quasi spontanea, la città capitale e le città periferiche ad essa subordinate iniziarono a diventare oggetto di una pianificazione formale da parte degli architetti e degli ingegneri al servizio del potere.

A Londra, il Grande Incendio del 1666 che distrusse due terzi della City, offrì l'opportunità per una vasta ricostruzione sulla base di piani approntati da Christopher Wren, da poco eletto Controllore dei lavori del Re (1669).
A Berlino, Philipp Gerlach, architetto e pianificatore del re (a partire dal 1707) fu incaricato da Federico Guglielmo I di estendere lo sviluppo della città verso ovest con la pianificazione della Pariser Platz.
Parigi è stata, a questo riguardo, un caso esemplare, in una fase più tarda, e cioè quando il barone Haussman era prefetto della città (1853-1870) e sovrintese alla sua radicale trasformazione e alla sua straordinaria crescita (da 1.2 a 2 milioni di abitanti). I parigini lo soprannominarono Attila per via delle sue demolizioni massicce di edifici e di interi quartieri al fine di attuare i suoi progetti urbanistici.

Le strade strette delle città medioevali furono eliminate a vantaggio di stradoni larghi e di viali che erano più funzionali per il passaggio di un esercito in parata; le costruzioni sobrie e solide della città medioevale divennero i palazzi barocchi e gli edifici imponenti in cui i ricchi aristocratici e borghesi spendevano il loro tempo e le loro rendite.

Alla fine, lo stato centrale e la città capitale divennero il modello da seguire per strutturare il potere e dominare un grande territorio. Quanto più tale modello era attuato e aveva successo, in Francia e in Inghilterra, tanto più altri poteri relativamente piccoli (ad es. il regno del Piemonte, il regno di Prussia) seguirono l'esempio, fino a quando esso divenne il modo di organizzare la società.

E, all'interno del vasto territorio controllato dallo stato centrale, verso la metà del secolo diciottesimo, la società industriale e il centro industriale cominciarono ad apparire.

 

Il centro industriale (^)

La società industriale risultante dalla libera impresa e dal libero commercio (laissez-faire, laissez-passer) che è esistita, in una certa misura, in alcune regioni d'Europa, non era il prodotto dello stato centrale ma fu certamente resa possibile anche dal fatto che lo stato centrale aveva cancellato alcuni dei più grossi blocchi e intralci feudali e corporativi alla attività economica libera.
Le caratteristiche principali della società industriale erano:

- l'organizzazione della produzione sulla base della divisione del lavoro e della introduzione di strumenti meccanici e di macchinari:
- l'incremento della produzione come risultato di un utilizzo più intenso ed efficiente dell'energia meccanica ed umana;
- la concentrazione della produzione in fabbriche più o meno grandi dove il proprietario del capitale (e cioè del macchinario produttivo) poteva meglio controllare i lavoratori.

Questa concentrazione della produzione, con il movimento della popolazione dalle campagne alle località in cui erano costruite le fabbriche per motivi funzionali di produzione (ad es. vicino a fonti di energia idraulica) o di commercio (ad es. vicino a fiumi navigabili, all'interno di agglomerazioni esistenti), fece sorgere centri industriali, innanzitutto in Inghilterra dove aveva preso avvio la Rivoluzione Industriale, e poi in altri paesi europei.

Ad esempio, Manchester che era un villaggio di 12.000 abitanti (intorno al 1760) divenne una città di 95.000 abitanti nel 1800 e di 400.000 abitanti nel 1850. Liverpool crebbe da 26.000 abitanti (1670) a 77.000 (1800) e poi a 375.000 abitanti (1850). Leeds passò da 17.000 abitanti nel 1775 a 172.000 nel 1850. In Scozia, Glasgow passò da 30.000 a 300.000 abitanti tra il 1750 e il 1850. (Pierre Lavedan, Histoire de l'Urbanisme, vol. III, 1952)

Le città divennero centri industriali verso cui affluivano le persone per vari motivi, ma soprattutto per guadagnarsi da vivere (i lavoratori industriali) o per spendere la propria ricchezza (coloro che vivevano di rendita). Nei centri industriali i palazzi più sfarzosi e i tuguri più miserevoli potevano trovarsi non molto distanti l'uno dall'altro.

Questa crescita massiccia della popolazione urbana che iniziò durante il periodo dell'industrializzazione e si generalizzò in misura crescente col passare del tempo, portò, in molti casi, ad una netta separazione tra città e campagna.

Come sottolineato da J.L. e Barbara Hammond nella loro ricerca sul lavoratore di città: “Precedentemente, gli uomini e le donne che vivevano nelle città inglesi … non erano mai distanti dai campi aperti: la vita nelle città era costeggiata da frutteti e orti. Ma, mano a mano che la Rivoluzione Industriale avanzava, una Manchester cresceva in cui i lavoratori avrebbero trovato sempre più difficoltà ad uscire dalla rete estesa di fumi e di squallore che avviluppava le loro vite quotidiane.” (The Town Labourer 1760-1832, 1925).

La concentrazione abbastanza rapida e crescente di persone e la presenza di industrie che ammorbavano l'aria e l'acqua, rese le città un luogo di sporcizia e di congestione, in cui le condizioni di vita erano, per molte persone, del tutto miserevoli.

Durante il diciannovesimo secolo una serie di indagini sociali furono effettuate per documentare la situazione abitativa della classe operaia e dei poveri nelle città. Le più famose furono The Sanitary Condition of the Labouring Population (1842) di Edwin Chadwick e The Condition of the Working Class in England (1844) di Friedrich Engels.

Il quadro fornito raffigurava una situazione di desolazione e di sofferenza. Secondo le conclusioni tratte da Engels,

“Le abitazioni dei lavoratori sono dappertutto mal progettate, mal costruite e tenute nella maniera peggiore, mal ventilate, umide e malsane. Gli abitanti sono confinati nel più piccolo spazio possibile, e almeno una famiglia intera dorme in ogni stanza. La sistemazione interna delle abitazioni è caratterizzata da vari gradi di povertà, fino alla assenza totale persino del mobilio più necessario. Anche gli abiti dei lavoratori sono, per lo più, miseri, e la grande maggioranza è vestita di stracci. Il cibo è, in generale, cattivo; spesso quasi inadatto al consumo, e in molti casi, almeno in certi periodi, insufficiente per quantità, di modo che, in situazioni estreme, ne risulta la morte per inedia.” (The Condition of the Working Class in England, 1844)

Di certo, la povertà e le cattive condizioni sanitarie non erano qualcosa di nuovo rispetto al passato, né nelle campagne né negli agglomerati urbani. Quello che era nuovo era l'estensione del fenomeno e il fatto che poteva far sorgere epidemie (ad es. colera) che avrebbero potuto non essere circoscritte ma diffondersi a un numero rilevante di persone. Lo stesso può dirsi per i fumi e i cattivi odori che non potevano essere confinati all'interno di una specifica zona.

Per cui, sulla base di una tecnologia più sviluppata, della critica sociale e del desiderio diffuso di migliori condizioni di vita, molte città europee passarono attraverso una fase di trasformazione, spesso promossa e attuata da individui illuminati che si proposero di ridurre e molto spesso riuscirono a riparare i guasti maggiori presenti nei centri industriali.

Il tempo della regina Vittoria in Inghilterra e di Napoleone III in Francia fu un periodo di notevole espansione produttiva che fu ampiamente imitata e interessò altri paesi, come la Germania e gli Stati Uniti d'America, e pose le basi di quella che sarà, nei grandi stati, la megalopoli imperiale.

 

La megalopoli imperiale (^)

I centri industriali del periodo della prima industrializzazione (dalla metà del secolo diciottesimo in poi) cedettero il passo, verso la fine del diciannovesimo secolo, all'emergere, nei paesi dell'Europa occidentale, di megalopoli dominanti che erano le sedi di un potere politico imperiale. Facciamo qui riferimento, in particolare, a tre città capitali: Londra, Parigi e Berlino.

Londra era già una città con circa un milione di abitanti all'inizio del 19° secolo, e di 2,3 milioni di abitanti nel 1850. Questa cifra sarebbe quasi raddoppiata prima della fine del secolo (1890) arrivando a 4,2 milioni di abitanti (Adna Ferrin Weber, The Growth of Cities in the Nineteenth Century, 1899)
Parigi aveva mezzo milione di abitanti nel 1800, più di un milione nel 1850, e 2,4 milioni nel 1890 (Adna Ferrin Weber).
Berlino era una città di medie dimensioni con 173,000 abitanti all'inizio del 19° secolo quando era la capitale della Prussia. Verso la metà del secolo raddoppiò la popolazione (378.000 nel 1850) (Adna Ferrin Weber). La vera esplosione arrivò quando Berlino divenne la capitale dell'Impero Tedesco (1871): da una popolazione di 826,000 abitanti nel 1871 passò a quasi 2 milioni alla fine del secolo. (Berlin Population Statistics – Wikipedia)

La crescita straordinaria di queste città può essere spiegata solo se si assume un collegamento causale tra il fatto di essere la capitale di un impero e cosa ciò significhi in termini di forza di attrazione e di capacità di sostentamento di una vasta popolazione urbana.
Infatti, una crescita urbana abnorme è comprensibile solo se si tiene conto della presenza di tre magneti,
(1) potere, (2) prestigio), (3) piacere, che rappresentano i motivi per i quali ogni sorta di persone convergono o si installano nella capitale. Abbiamo allora:

- Potere
- gruppi di pressione politica, gruppi dirigenti di partiti e sindacati, sedi principali di compagnie industriali;
- ambasciate e consolati;
- servizi di comunicazione : radio, TV, giornali.

- Prestigio
- istituzioni finanziarie : banche, compagnie di assicurazione, la borsa;
- attrezzature educative : università, musei, centri di ricerca.

- Piacere
- supermercati, centri commerciali, negozi di lusso;
- ristoranti, alberghi, cinema, teatri, sale di intrattenimento.

Questi tre magneti divennero ancora più forti quando gli stati, di cui queste città erano le capitali, si avviarono sulla strada dell'imperialismo. Questo significò che una quantità persino superiore di risorse fu incanalata verso la megalopoli imperiale per sostenere una burocrazia in espansione e le persone per le quali il potere, il prestigio e il piacere erano forme di vita.

Londra, la Grande Londra arrivò ad essere, nel 1931, una megalopoli di più di otto milioni di abitanti (http://www.demographia.com/dm-lon31.htm).
Parigi, con la sua agglomerazione urbana, raggiunse i 5,6 milioni di abitanti nel 1931 (Agglomération Parisienne – Wikipedia).
La Grande Berlino, istituita nel 1920 a seguito di un Atto del Parlamento, divenne, anche dopo la perdita delle colonie, un agglomerato di 4,2 milioni di abitanti (1933) (Berlin Population Statistics - Wikipedia).

Accanto a queste tre megalopoli, nuove città mondiali come New York (quasi 7 milioni di abitanti nel1930) e Tokyo (6,3 milioni di abitanti nel 1935), occuparono la scena. In tutti questi casi troviamo la stessa dinamica: il convogliare risorse da aree vicine e lontane verso un punto centrale (la megalopoli imperiale) dove le sorgenti di potere, prestigio, piacere sono concentrate al massimo grado.

Alla fine si raggiunse un tale punto di squilibrio che, nel 1947, un geografo francese, Jean-François Gravier, poteva disporre di una mole sufficiente di documenti per scrivere il suo famoso libro, Paris et le désert français, nel quale documentava una situazione in cui, in termini di concentrazione di servizi e di potere decisionale, la megalopoli era (quasi) tutto e il resto della Francia era (quasi) nulla.

Negli anni seguenti, la crescente urbanizzazione del mondo, con alcune aree urbane persino nei paesi semi-sviluppati, che hanno raggiunto (2012) parecchi milioni di abitanti (Delhi, 22 milioni; Mexico City, quasi 20 milioni; Cairo, quasi 17 milioni) (en.wikipedia.org―List_of_urban_areas_by_population) ha reso evidente l'esistenza di una serie di problemi connessi all'urbanizzazione. Era ed è abbastanza chiaro che questa tendenza non può continuare all'infinito.

 

La crisi urbana (^)

Mentre l'esistenza di un numero ridotto di grandi città è una realtà molto antica, il fenomeno dell'urbanizzazione su scala mondiale, e cioè il fatto che una elevata percentuale della popolazione mondiale vive nelle città, è un qualcosa di abbastanza recente.

L'urbanizzazione mondiale ha avuto luogo principalmente durante il secolo diciannovesimo e ventesimo.
Durante il secolo diciannovesimo abbiamo avuto:

(a) un incremento nel numero delle città europee con più di 100,000 abitanti (da 42 nel 1850 con una popolazione totale di 9 milioni, a 120 nel 1895 con una popolazione totale di 37 milioni);
(b) una crescita a livello mondiale della popolazione urbana (persone che vivono in città con più di 20,000 abitanti) la cui percentuale è passata dal 2.4% nel 1800 al 9.2% nel 1900 (Kingsley Davis, The Origin and Growth of Urbanization in the World, 1955).

Questa tendenza è continuata e si è accentuata durante il 20° secolo. Nel 1950 circa il 34% della popolazione mondiale viveva in città con più di 20,000 abitanti (Kingsley Davis, 1955). In alcuni paesi le percentuali di popolazione urbana erano molto più alti; negli Stati Uniti, ad esempio, nel 1950, il 60% della popolazione era urbanizzata. (Kingsley Davis, Human Society, 1966)

Gli autori del Rapporto delle Nazioni Unite su World Urbanization Prospects affermano che la popolazione urbana nel mondo è cresciuta da 220 milioni nel 1900 a 732 milioni nel 1950, e si stima che abbia raggiunto i 3,2 miliardi nel 2005 (49% della popolazione mondiale), quindi più che quadruplicandosi nella seconda metà del secolo 20°. (http://www.un.org/esa/population/publications/WUP2005/2005WUPHighlights_Final_Report.pdf )

In questo processo di urbanizzazione, le regioni meno sviluppate stanno assumendo una parte preponderante. Infatti "nel 1968 la popolazione urbana delle regioni meno sviluppate ha sorpassato, per la prima volta, le regioni più sviluppate e ha continuato a farlo anche in seguito." (U.N. Report on World Urbanization Prospects, The 2005 Revision, 2006) (si veda anche : http://esa.un.org/unpd/wup/pdf/WUP2011_Highlights.pdf )

Il fenomeno di urbanizzazione contiene aspetti sia positivi che negativi. In linea generale, le città, soprattutto nel passato, hanno rappresentato il luogo in cui una vita più dinamica può prendere forma, soprattutto perché una varietà di risorse è attratta o convogliata verso di esse, consentendo di fornire un livello più elevato di servizi sociali e di possibilità culturali.

In teoria, una città sana e fiorente è un luogo produttivo in cui, in linea generale, beni industriali sono progettati, fabbricati e poi liberamente scambiati con beni prodotti nelle campagne. Invece, ciò che è avvenuto, in molti casi, è il fatto che l'urbanizzazione ha significato la crescita di strati parassitari che vivono nella capitale e nei principali centri urbani e si nutrono del lavoro produttivo di coloro che vivono nelle campagne o in piccole agglomerazioni o nelle periferie e nei ghetti del mondo. Questo è abbastanza visibile nelle megalopoli del mondo avanzato che sono diventate centri burocratico-finanziari; e anche, in maniera ancora più evidente, nelle mega-città del mondo meno avanzato (Dacca, Lagos, Lima, Abidjan, Kabul, ecc.) che sono diventate entità burocratico-parassitarie.

La crescita abnorme delle città, non giustificata dalle loro funzioni produttive, ha portato all'emergere e al diffondersi di realtà spiacevoli e sgradevoli che concorrono a generare quella che è stata definita la “crisi urbana”.
La crisi urbana si manifesta principalmente attraverso tre fenomeni:

Congestione. La semplice densità di persone che vivono in una città non costituirebbe un problema (almeno fino ad un certo punto) se non fosse accompagnata da un livello dei consumi di beni e da un uso dei mezzi di trasporto che generano effetti che vanno al di là della possibilità di gestione da parte degli esseri umani e della capacità di assorbimento da parte dello spazio fisico. Per fare solo degli esempi:
- il numero delle automobili che viaggiano in una città rende il movimento da un punto all'altro, durante certe ore del giorno, più lento che non in epoche remote;
- il numero di persone che cercano un alloggio fa crescere notevolmente i prezzi delle case e spinge alla richiesta di nuove costruzioni e ad una densità abitativa maggiore, rendendo il problema della congestione ancora più intrattabile.

Inquinamento. Una elevata densità di persone che consuma una quantità elevata di beni, genera, di solito, un livello elevato di:
- inquinamento atmosferico, prodotto dai fumi di scarico delle automobili e dalle emissioni dei sistemi di riscaldamento;
- inquinamento idrico, attraverso gli scarichi di scorie inquinanti nei fiumi o nei terreni, intaccando le falde acquifere;
- inquinamento sonoro, e cioè un livello di rumore continuo che provoca un malessere generale, anche se non sempre avvertito in maniera consapevole;
- inquinamento da rifiuti solidi, sotto forma di montagne di spazzatura che si accumulano nelle strade cittadine e vengono smaltite con crescente difficoltà.

Stress. La congestione e l'inquinamento portano, spesso, all'insorgere di vari tipi di stress, cioè di problemi mentali e fisici che si manifestano come :
- irritabilità: la persona reagisce con rabbia a ogni sorta di inconvenienti che rendono la vita quotidiana in città abbastanza spiacevole;
- alienazione: la persona non è più un essere umano poliedrico ma una maschera che interpreta un ruolo specifico, scelto o assegnato;
- isolamento: la persona ha l'impressione di essere solo una faccia anonima in una anonima folla, e più si sente isolata, più finisce talvolta per isolarsi dagli altri, visti come stranieri.

Questi aspetti della crisi urbana sono stati raffigurati in molti libri, film, articoli e indagini sociali. La quantità di materiali che presentano e avvalorano la posizione di una difficoltà e di un malessere sociali associati alla crisi urbana è notevole.

Eppure, nonostante ciò, le città nel mondo sviluppato rimangono centri importanti di potere e di prestigio e le città nelle regioni meno sviluppate continuano a crescere perché è lì che sono convogliate le risorse.

E tuttavia, nuovi modelli culturali e nuovi strumenti tecnologici si combinano al giorno d'oggi in modo tale che sembra finalmente possibile allontanarsi dalla crisi urbana senza per questo abbandonare gli aspetti migliori della vita nelle città e, per di più, unendoli con i migliori aspetti della vita nelle campagne.

 

La ricomposizione dello spazio (^)

Durante il periodo dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione (dal 18° al 20° secolo) un certo numero di pensatori e di pianificatori sociali ha avanzato una serie di proposte e anche formulato progetti dettagliati aventi come obiettivo il superamento degli aspetti negativi della vita industriale e urbana.

Quegli aspetti negativi, di cui si è parlato in precedenza, possono essere riassunti nei seguenti termini:

Sfruttamento. Le grandi città, attraverso tutta la loro storia, sono state il luogo in cui le risorse sono state drenate, principalmente dalle campagne o da altre città minori. Nei tempi moderni la megalopoli imperiale ha portato questa realtà a livelli ancora più elevati.

Concentrazione. La concentrazione di persone e di risorse in punti specifici del territorio ha generato enormi squilibri spaziali e sociali che si ripercuotono negativamente sulla qualità dell'esistenza umana e dei rapporti sociali.

Isolamento. L'isolamento rurale ha rappresentato l'altra faccia della concentrazione urbana. I contadini sono stati raffigurati, talvolta correttamente ma, di certo, spesso non per loro scelta, come individui arretrati, tagliati fuori dal progresso moderno.

Per questo, in passato, i critici sociali hanno puntato il dito contro lo sfruttamento e l'alienazione dei lavoratori industriali ammassati nelle città e contro l'idiozia rurale causata dalla mancanza di strutture e opportunità culturali. Al tempo stesso, altri critici hanno esaltato l'industria e la città come simboli di progresso e di innovazione culturale, o hanno celebrato la campagna come il luogo in cui la vita sana e le virtù personali possono svilupparsi meglio.

Era quindi appropriato che una ricomposizione dello spazio (città e campagna) fosse sostenuta dai critici più perspicaci, una ricomposizione che, chiaramente, avrebbe associato i migliori aspetti dei due mondi (urbano e rurale) e avrebbe prodotto una nuova realtà, altamente desiderabile.

Questo proposito appare, ad esempio, negli scritti di Friedrich Engels quando egli sostiene che:

“[Conseguentemente] l'abolizione della contrapposizione tra città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata una necessità della produzione agricola e, oltre a ciò, dell'igiene pubblica. Si può porre fine all'attuale avvelenamento dell'aria, dell'acqua, del suolo solo attraverso una ricomposizione di città e campagna; e tale fusione trasformerà la situazione delle masse che languiscono nelle città, e permetterà ai loro escrementi di essere usati per la produzione di piante invece che per la produzione di malattie.” (Antidühring, 1878)

Il superamento della divisione tra città e campagna è stato avanzato e articolato, in termini più precisi, da Piotr Kropotkin in Fields, Factories and Workshops (1899). Le sue idee guida sono la decentralizzazione dell'industria e l'unione di attività industriali e attività agricole.

“La diffusione delle industrie in tutto il paese – in modo tale da portare la fabbrica in mezzo ai campi, per far sì che l'agricoltura derivi tutti quei profitti che ricava sempre dall'associarsi con l'industria e dall'unione del lavoro industriale con il lavoro agricolo – è certamente il prossimo passo da fare non appena la riorganizzazione delle nostre condizioni presenti è possibile.”

Questa ricomposizione rurale-industriale permetterebbe anche il superamento della divisione tra campagna e città. Kropotkin, ad esempio, contemplava il fatto che molti abitanti delle città sarebbero diventati agricoltori, coltivando orti urbani e producendo ortaggi che sarebbero stati venduti al mercato urbano.

I tempi erano talmente maturi per questa idea della ricomposizione dello spazio che, in quegli stessi anni, un progettista dilettante, Ebenezer Howard, avanzò la proposta di città-giardino in un libro intitolato To-morrow: a Peaceful Path to Social Reform (1898) [Domani: una via pacifica alla riforma sociale] che fu ripubblicato alcuni anni dopo con il titolo: Garden Cities of To-morrow (1902) [Le città giardino di domani]. L'ampia accettazione della sua idea portò alla formazione della Garden Cities Association (1899) che, nel 1903, fu in grado di acquistare una estensione di terra al fine di mettere in atto quelle proposte. In questo modo la città giardino di Letchworth vide la nascita, seguita, alcuni anni dopo (1919-1920) da Welwyn Garden City.

Tuttavia, molto presto, questa interessante visione e i relativi progetti di comunità polivalenti che offrivano il meglio di entrambi i mondi (campagna e città) furono sviati, nei fatti, da due successivi sviluppi:

I sobborghi. Una opzione facile, per sfuggire la congestione e il rumore della città e ricreare un ambiente semi-rurale, fu la pianificazione di sobborghi ricchi di verde, di cui Hampstead Garden a Londra fu uno dei primi. Il movimento favorevole ai sobborghi crebbe a causa del miglioramento di mezzi di trasporto e del desidero di coloro che abitavano in città di vivere più a contatto con la natura, anche se si trattava solo di un modesto giardino. Nondimeno, il movimento verso i sobborghi contribuì alla espansione delle grandi città e alla crescita del traffico in quanto molte persone si spostavano giornalmente verso e da i centri urbani. In parecchi casi i sobborghi divennero città dormitorio o villaggi dormitorio, dipendendo totalmente dalla grande città per il lavoro e i divertimenti. Spesso il risultato fu la formazione di uno spazio che non era né urbano né rurale, e di “un nuovo tipo di comunità … che offriva la caricatura sia della città storica che del rifugio suburbano ideale.” (Lewis Mumford, The City in History, 1961)

Le “New Towns”. In Inghilterra, il movimento delle Città Giardino subì col tempo una trasformazione diventando il movimento delle New Towns. Questo avvenne quando il governo si occupò della ricostruzione e della pianificazione dell'ambiente alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le linee guida dell'intervento furono quelle del Rapporto Barlow (1940) che sosteneva una decentralizzazione pianificata della popolazione. Nel 1945, a guerra finita, fu istituito il Comitato per le New Towns, e nel 1946 il Comitato produsse uno studio contenente raccomandazioni per la costruzione di New Towns. La differenza rispetto alle idee di Ebenezer Howard era che lo scopo non era più quello di dar vita ad un ambiente che rappresentasse una fusione delle qualità rurali e urbane, ma quello, abbastanza modesto, di attenuare la pressione sulle grandi città, prima fra tutte Londra, e di fornire nuove case e servizi urbani appropriati, soddisfacendo vecchi e nuovi bisogni. Anche in questo caso, il miglioramento dei trasporti (soprattutto ferroviari) che collegavano le grandi agglomerazioni urbane, ha significato che molte persone continuavano a lavorare nelle città maggiori e abitavano nelle New Towns, che erano quindi utilizzate come città dormitorio.

Questi due sviluppi (sobborghi e New Towns) furono resi possibili anche dal fatto che, durante la seconda metà del secolo 20°, con l'espansione piena dello stato assistenziale dirigista resa possibile da un innalzamento generale della produttività, si è avuta una crescita notevole del personale statale o parastatale che viveva nella capitale o nei capoluoghi regionali. La crescita dello stato in termini di potere e di numero di persone al suo servizio, ha significato, come sottolineato in precedenza, che le città dove vivevano le burocrazie centrali e regionali, si sono dilatate al di là della loro funzione produttiva e culturale. E questo fenomeno ha praticamente messo un freno alle idee a agli esperimenti di ricomposizione dello spazio (città-campagna) miranti a superare sia la congestione urbana che l'isolamento rurale.

Eppure, quelle idee e aspirazioni non sono state totalmente dimenticate in quanto sono riapparse, ad esempio, negli scritti di Lewis Mumford e nelle azioni di quei movimenti alternativi che sostenevano, nei decenni 1960 e 1970, l'abbandono delle città e il ritorno alla terra.

Tutto questo sarebbe potuto rimanere una aspirazione elitista e romantica, se non fosse per il fatto che il progresso tecnologico nell'area della produzione e della comunicazione ha cambiato e sta cambiando radicalmente la relazione tra gli individui e lo spazio. Ciò rende possibile l'esplorazione e l'attuazione di quella che può essere definita l'alternativa "rurbana" (rurale + urbano), in cui non solo le limitazioni del passato possono essere superate ma le promesse di un futuro migliore, personalmente soddisfacente, socialmente attraente ed economicamente funzionante, possono essere godute su vasta scala.

 

L'alternativa rurbana (^)

Molti critici sociali del passato, come già rilevato, hanno raffigurato le realtà rurali e urbane attraverso l'impiego di immagini potenti che erano, talvolta, solo degli stereotipi. Ad esempio, essi hanno mostrato:

- le campagne come il luogo della idiozia rurale o della vita bucolica;
- le città come giungla urbana o come splendore culturale.

Andando al di là di questi stereotipi, è possibile vedere che la campagna e la città possono offrire un insieme variegato di esperienze all'essere umano alla ricerca di natura e cultura, di isolamento e di socialità, di tranquillità e di vivacità.

Essere confinati solo a un lato di questo spettro, o essere costretti a spendere tempo ed energie al fine di muoversi da un lato all'altro dello spettro per soddisfare tutti i desideri profondi dell'essere umano, potrebbe rappresentare, per molti, una sorta di sconfitta personale o di privazione forzata.

Durante il 20° secolo, e cioè durante il tempo della presenza delle masse, della concentrazione industriale e della centralizzazione burocratica, il contrasto acuto tra realtà urbane (iper-sviluppate) e rurali (sotto-sviluppate) appariva, in molti casi, un esito inevitabile.

E tuttavia, questo scenario è cambiato totalmente a seguito di almeno due profonde trasformazioni:

- la rottura delle camice di forza rappresentate da vecchie ideologie che impedivano, praticamente e psicologicamente, le sperimentazioni audaci;
- l'avvento della comunicazione personale, istantanea e diffusa su scala mondiale, che favorisce la sempre più ampia circolazione delle idee.

I primi accenni a questa nuova realtà furono già dati, alcuni decenni fa, da uno degli analisti sociali più penetranti, Marshall McLuhan, quando egli raffigurò il mondo come un Villaggio Globale e non come una Megalopoli Globale.
La scelta dei termini impiegati era indicativa anche di un cambiamento di approccio che, attualmente, non è solo augurabile ma anche necessario.

In passato si assumeva che una città estremamente grande, come una enorme macchina complicata, dovesse essere sotto il controllo di professionisti esperti per quanto riguardava la sua crescita e la sua amministrazione. Come il barone Haussmann progettò la Parigi del 19° secolo, così pianificatori e architetti quali Abercrombie, Le Corbusier o Lucio Costa erano incaricati di progettare le grandi città del 20° secolo, su commissione dei politici al potere.

Nel primo capitolo di un piccolo libro pubblicato nel 1933 (Town and Country Planning), Sir Patrick Abercrombie, il più famoso dei pianificatori urbani inglesi, definì, con estrema chiarezza, i termini del problema come era percepito a quei tempi: Pianificazione o Laissez-Faire.

Solo molto più tardi, a seguito di trasformazioni culturali e tecnologiche, è diventato evidente che una simile alternativa non esiste e che il problema è semplicemente: chi effettua la pianificazione.
In altre parole, se una alternativa esiste davvero, essa è tra una realtà in cui le persone sono semplicemente obbligate a lasciar fare la pianificazione ad alcuni professionisti che ritengono di saperne di più, e una realtà in cui ogni persona coinvolta dal problema (e cioè individui e gruppi) è libera di pianificare la propria vita e il proprio ambiente attraverso decisioni personali e accordi all'interno e tra le comunità.

Nel caso si attuasse la seconda alternativa, è molto probabile che, dopo un certo periodo di tempo, vedremmo la fine della grande concentrazione di persone nelle Megalopoli. Questa concentrazione, come sottolineato ripetutamente, è il risultato inevitabile del drenaggio di risorse dai territori periferici verso le mega realtà urbane, sulla base di decisioni prese dal potere politico e attuate dalle burocrazie al servizio di tale potere.

Al loro posto, è probabile che si assisterà, dappertutto, ad una diffusione della popolazione e delle risorse. Questo dovrebbe essere facilitato dal fatto che, con la fine delle città capitali e della centralizzazione politica, le persone in ogni località cercheranno di rendere la loro comunità attraente, funzionale e vitale sotto tutta una serie di aspetti (servizi, attività, comunicazioni, trasporti, energia, ecc.).

Così facendo, le vecchie contrapposizioni e i vecchi squilibri dovrebbero scomparire e nuove affascinanti realtà che trascendono la divisione tra città e campagna dovrebbero emergere come, ad esempio, quelle sostenute e praticate da e attraverso:

- Agricoltori urbani (urban farmers): coltivare orti e giardini sui tetti:
- Città in transizione (transition towns): effettuare il passaggio ad un ambiente sostenibile e funzionante, basato sulla permacoltura, il riciclo e il risparmio energetico;
- Aquaponics: allevare pesci (aquacoltura) in simbiosi con ortaggi che crescono nell'acqua (idroponica);
- Architettura verde: progettare e costruire strutture che sono in sintonia con l'ambiente e che sono efficienti dal punto di vista dell'impiego delle risorse, durante tutto il corso della loro vita.

L'ordine spontaneo e variegato, che sorge dall'intervento delle persone direttamente coinvolte in un problema, costituisce l'opzione più promettente al posto delle insoddisfazioni imposte e dei nuovi problemi generati dai pianificatori, anche quando sono animati dalle migliori intenzioni.

Al termine di una vasta ricognizione sugli alloggi condotta in Inghilterra all'inizio degli anni ottanta, un ricercatore, confrontato con l'ambiente disfunzionale prodotto da molti piani ufficiali di rigenerazione o di miglioramento edilizio, arrivò ad affermare che “quanto più ogni più piccolo aspetto dell'edilizia è soggetto all'interferenza del potere ufficiale, tanto più arretrato è stato il cambiamento dal punto di vista della qualità. Nuovi slum sono stati creati su scala mai vista in precedenza.” “La nostra vasta macchina che si occupa del problema edilizio [l'autore fa riferimento al Dipartimento dell'Ambiente dello stato Inglese e in particolare al Direttorato per lo Sviluppo Edilizio] ha commesso un errore dopo l'altro in nome del miglioramento sociale.” (Alice Coleman, Utopia on Trial, 1985)

Infatti, nello stesso periodo in cui le capitali statali generavano centralizzazione, l'edilizia statale produceva concentrazioni di persone in mega-strutture che, in certi casi, hanno dovuto essere demolite dopo alcuni anni (come nel progetto di edilizia statale di Pruitt Igoe a Saint Louis nel Missouri) a causa degli incredibili livelli di vandalismo fisico e di rigetto psicologico da parte degli inquilini.

Per questi motivi abbiamo bisogno di immaginare e di sperimentare nuove realtà.
L'alternativa rurbana del XXI secolo dovrebbe essere costituita da uno spazio che è:

- aperto: questo significa la fine di grandi estensioni di territorio controllate dagli stati nazione (la cosiddetta sovranità territoriale degli stati) di modo che gli individui, qualunque sia il loro luogo di nascita, possano muoversi liberamente e si possano installare in nuove regioni come hanno fatto in passato, aprendo nuovi scenari e contribuendo allo sviluppo di nuovi spazi;

- collegato: questo significa che, in qualsiasi luogo una persona trovi un posto adatto per vivere e per prosperare, non importa quanto lontano da nuclei abitativi esistenti, questa persona può essere in contatto con il resto del mondo data la realtà attuale della tecnologia. Questo perché i vincoli materiali e psicologici (ad es. energetici, di comunicazione, ecc.), che esistevano in passato e limitavano una piena decentralizzazione della popolazione, sono adesso praticamente scomparsi;

- auto-gestito: questo significa che lo spazio, essendo una componente così importante nella vita degli individui e delle comunità, non può essere lasciato ai burocrati e agli esperti di professione perché lo modellino in base alle loro visioni parziali e i loro interessi contingenti. Lo spazio deve essere come una tavolozza su cui i bisogni, i desideri e le aspirazioni degli individui e dei gruppi sono espressi in una maniera compatibile, sostenibile e funzionale.

Vediamo allora di elencare brevemente gli aspetti e le componenti che, all'interno dello spazio rurbano, potrebbero produrre habitat conviviali.

 

Verso habitat conviviali (^)

La macchina produttiva allestita nel corso dei secoli precedenti e la rete di comunicazione che è cresciuta soprattutto negli ultimi decenni hanno contribuito a generare due risultati principali:

- liberare il tempo delle persone da compiti ripetitivi a favore di attività più creative e coinvolgenti:
- allargare l'orizzonte e le conoscenze delle persone collegandole agevolmente con molti individui e con una miniera di dati.

La libertà (disponibilità di tempo libero) e la conoscenza (disponibilità di dati strutturati) sono due requisiti di base perché le persone possano essere in grado di modellare le loro vite e gli ambienti in cui vivono.
Infatti, solo il coinvolgimento attivo degli utenti può portare allo sviluppo di habitat conviviali. Questi habitat conviviali, a loro volta, favoriscono e promuovono l'ulteriore coinvolgimento attivo degli utenti.

Esaminiamo allora quelle che potrebbero essere, sulla base delle indicazioni di alcuni studiosi e operatori, le caratteristiche di habitat conviviali.
Se esaminiamo il tema in maniera analitica, possiamo dividerlo in tre aspetti:

- Generale: i principi
- Sostanziale: i protagonisti
- Formale: i criteri.

Generale. I principi guida per habitat conviviali possono essere sintetizzati nei seguenti:

- Il superamento della divisione tra campagna e città. L'obiettivo è quello di andare oltre le immagini stereotipate ma talvolta così reali della concentrazione-alienazione urbana e dell'isolamento-idiozia rurale. Questo può essere conseguito, sostanzialmente, con le città che sviluppano una atmosfera di villaggio e attività orticole, e le campagne che attraggono industrie altamente tecnologiche e centri di ricerca che hanno bisogno soltanto di buone comunicazioni per operare in maniera efficiente. In ogni caso, le opzioni in termini di densità della popolazione e di tipi di attività possono essere raffigurate come su una linea continua, con l'accento posto maggiormente, in talune realtà, sull'aspetto urbano e in altre su quello rurale. Quello che occorre evitare è il fatto che la densità o la dispersione della popolazione siano il prodotto di decisioni politiche e non di scelte personali.

- Il superamento dell'opposizione tra l'individuo e la comunità. L'obiettivo è quello di produrre una realtà nella quale la soddisfazione dei bisogni di un individuo non è in opposizione con la soddisfazione dei bisogni di molti individui che vivono nelle vicinanze (la comunità locale) o anche in luoghi lontani (la comunità globale). Riguardo alle scelte comunitarie, questo richiede, (a) dalla parte dell'individuo il porre l'accento su bisogni razionali (non capricciosi) e di lungo termine (non di corta durata) e (b) da parte di ognuno (la comunità) l'apertura e la volontà di accettare aggiustamenti appropriati e, in ultima istanza, arbitrati vincolanti. Quello che è escluso è il processo corrente di imposizione politica da parte di cosiddetti rappresentati di una presunta maggioranza politica.

- Il superamento della subordinazione tra il progettista e il produttore. L'obiettivo è quello di produrre le condizioni per cui ciascuno è libero di intervenire a modellare l'ambiente, individualmente se si fa riferimento agli spazi personali, o comunitariamente, se si fa riferimento agli spazi comuni. Questo significa la fine dell'esperto professionale che prende le decisioni sotto la direzione o in associazione con i leader politici, e la ripresa del ruolo di progettista da parte dei membri attivi della comunità. Questi ultimi (i produttori) potrebbero fare affidamento ai consigli e ai suggerimenti di esperti (i progettisti) ma, in ultima istanza, essi sono i soli responsabili della presa delle decisioni e i soli che devono render conto delle decisioni prese.

Sostanziale. I promotori e gli animatori degli habitat conviviali sono gli individui e le comunità. In riferimento all'ambiente edificato e a quello naturale, ciò significa:

Abitazioni progettate dagli individui. In passato l'ambiente costruito è stato il risultato di persone che edificavano le proprie abitazioni. È un fenomeno abbastanza recente quello di famiglie che hanno iniziato ad abitare in case e quartieri costruiti totalmente fuori del loro controllo. Nel caso di grandi blocchi di appartamenti costruiti dallo stato per alloggiare persone con basso reddito o assistite socialmente, il risultato è stato, spesso, l'alienazione e il vandalismo degli inquilini, se non addirittura le violenze e le distruzioni gratuite. Al contrario, come messo in luce da John Turner e altri: “ Quando gli abitanti controllano le decisioni più importanti e sono liberi di portare il loro contributo alla progettazione, costruzione o gestione delle loro abitazioni, sia questo processo che l'ambiente che ne risulta stimolano il benessere individuale e sociale.” (Freedom to Build, 1972)

Pianificazione elaborata dalle comunità. Nel Medio Evo, i segni distintivi della città come la Cattedrale e il Mercato coperto erano costruzioni e luoghi a cui l'intera popolazione aveva preso parte attiva nello sviluppo, offrendo talvolta anche un contributo finanziario o lavorativo. In tempi più recenti, la comunità locale ha fatto di nuovo sentire la propria voce quando ha voluto salvare aree edificate destinate alla distruzione come il Covent Garden a Londra. Quindi, la comunità può e dovrebbe essere la protagonista della pianificazione dell'ambiente naturale e costruito perché gli individui che formano la comunità sono coloro che sopporteranno i costi di una pianificazione sbagliata. Solo se essi sono i diretti responsabili, anche nel caso di decisioni errate, possono imparare da ciò e cercare di trovare una soluzione invece di imprecare e di scagliare la loro frustrazione e la loro rabbia contro gli “esperti” venuti dall'esterno. Come sottolineato da Christopher Alexander: “È impossibile, del tutto impossibile, far vivere una costruzione o una città attraverso il controllo dall'alto”. (The Timeless Way of Building, 1979)

Gestione effettuata dagli associati. Durante i secoli passati, quando era possibile soddisfare un bisogno collettivo che originava dall'introduzione di una nuova tecnologia, una ditta era costituita a tal fine. Questo è stato, ad esempio, il caso dell'elettricità e del gas nelle città americane. In altri settori la municipalità (il governo locale) ha preso l'iniziativa, soprattutto quando si trattava di igiene e salute pubblica. Al giorno d'oggi, con le principali infrastrutture già in operazione, i servizi e le attrezzature esistenti in una regione potrebbero benissimo essere gestite da individui (gli utenti) che si associano sotto forma di cooperative. Questo porterebbe, con ogni probabilità, all'offrire migliori servizi (orientati verso gli utenti) a un prezzo ridotto (economie nei costi).

Formale. I criteri che portano ad un habitat conviviale sono stati evidenziati da alcuni progettisti sulla base delle esperienze dei secoli passati. Essi dovrebbero essere introdotti e sperimentati in progetti concreti e migliorati, adattati, cambiati all'occorrenza. Negli anni 1980 un gruppo di progettisti urbani ha elencato i seguenti criteri come quelli che generano ciò che essi hanno chiamato un “ambiente rispondente” (VV.AA. Responsive Environments, 1985):

- Permeabilità: la pluralità di scelte di accesso (accessibilità) a un certo spazio. Ciò è facilitato, ad esempio, progettando blocchi di costruzioni di ridotte dimensioni.

- Varietà: l'esistenza di una molteplicità di forme, usi e relativi significati, che attraggono le persone verso un certo spazio. La varietà (in quanto opposta allo zoning che separa l'abitazione dal luogo di lavoro) significa anche che un quartiere è vivo durante tutto il corso della giornata, dal mattino alla sera.

- Leggibilità: la comprensibilità diretta da parte delle persone della forma fisica (configurazione) e dei modelli di attività (impiego) di un luogo. Questo obiettivo è conseguito in maniera agevole con la presenza di alcune caratteristiche dell'ambiente costruito (i nodi, i contorni, i percorsi, i quartieri, i punti di riferimento) come messo in luce negli studi di Kevin Lynch (The Image of the City, 1975).

- Robustezza: la capacità di un luogo di offrire, in modo semplice e abbordabile, una varietà di scelte potenziali; ad esempio, la possibilità di modificare l'uso di una grande costruzione o di un certo spazio al suo interno.

- Adeguatezza Visiva: questa qualità è connessa alla leggibilità di un luogo e di un edificio, e significa che la forma visiva dovrebbe contenere degli indizi culturali o di altro genere che ne chiariscono, in maniera molto facile, la funzione.

- Ricchezza: l'ambiente dovrebbe coinvolgere e soddisfare i vari recettori di senso dell'essere umano (vista, odorato, udito, tatto, movimento) e questo è possibile solo se l'uniformità, cioè la povertà sensoriale, cede il posto alla varietà delle forme e dei colori, e cioè alla ricchezza sensoriale.

- Personalizzazione: questo aspetto rappresenta la possibilità e la capacità di lasciare un segno nel posto in cui una persona vive e di contribuire, con altri residenti, a modellare lo spazio comune.

La dinamica complessiva risultante dalla attuazione dei principi, da parte dei protagonisti, sulla base dei criteri, dovrebbe portare allo sviluppo di habitat conviviali che soddisfano e sostengono:

- tutti i tipi di individui (ad esempio, dai bambini e dalle persone anziane bisognose di cure fino alle persone adulte totalmente autosufficienti);
- tutti i gusti del vivere (ad esempio, dall'isolamento e dalla quiete totale alla piena partecipazione e animazione);
- tutti i tempi dell'esperienza storica (ad esempio, da coloro che preferiscono vivere in una città medievale a coloro che prediligono un ambiente moderno).

In altre parole, la convivialità è, in larga misura, una questione di varietà e di scelte, perché solo attraverso il rispetto della varietà e l'esistenza delle scelte, possiamo davvero immaginare la formazione e lo sviluppo di habitat conviviali.