Ignazio Silone

Le cose per cui mi batto

(1943)

 


 

Nota

Un articolo nello stile di Silone: intellettualmente illuminante e moralmente profondo.

 

 


 

L’esito di questa guerra non può venir considerato con indifferenza da coloro che sperano in una società nuova, perché è appunto da esso che dipende la sopravvivenza di quelle parti di Cristianesimo, umanesimo e democrazia su cui potremo poi costruire o ricostruire. Ma la lotta tra il fascismo e la libertà non può venir decisa sul piano militare. In questa battaglia bisogna fare i conti con un Terzo Fronte che attraversa tutte le Nazioni e che, indipendentemente da ogni governo, determinerà le decisioni vere. Io sono un volontario della lotta su questo Terzo Fronte.

Per questi motivi non faccio il pilota di nessun apparecchio da bombardamento; né il conduttore d’alcun carro d’assalto. Sono un partigiano isolato, che attacca il nemico al di là del fronte, proprio colà dove egli si sente più sicuro e invulnerabile.

Mi hanno domandato se c’è niente al mondo che somigli agli ambienti descritti nei miei romanzi o ai paesaggi melanconici del Mediterraneo, con le cappelle neoclassiche e le tombe. Potrei avere abbastanza immodestia da rispondere: “Sissignori, questi esistono perché io li ho creati. Sono esistiti dal primo momento in cui li ho messi in nero sul bianco della carta”. Ma non mi piace di parlare a indovinelli. Chi ha veramente risposto alla domanda sono stati i censori di Varsavia e di Zagabria quando hanno proibito che le mie opere venissero pubblicate in traduzioni locali. Erano convinti che l’autore fosse un agitatore polacco o croato, il quale usasse uno sfondo dell’Italia meridionale soltanto come una scusa per fare delle considerazioni sovversive su quello che stava capitando in Polonia o in Jugoslavia. Qualche altro censore avrebbe potuto proibire una traduzione di Fontamara in bengali o in arabo, perché i poveri contadini che parlano queste lingue avrebbero potuto riconoscersi nei miei cafoni. Ad essere cosmopoliti, i contadini non lo imparano al bar di Scwanneke o al Café du Dome. Solo le sofferenze sono universali, e il cosmopolitismo autentico, su questa terra, deve fondarsi nelle sofferenze.

Il cafone non è affatto primitivo; in certo senso è supercivilizzato. L’esperienza di generazioni e generazioni è quella che gli fa credere che lo Stato non sia altro che una Camorra, solo meglio organizzata. Sente che il compito principale delle classi intellettuali che fanno da mediatrici fra lui e lo Stato, è quello di scrivere lettere di raccomandazione. E quando le famiglie contadine fanno sacrifici incredibili perché uno dei loro figli possa studiare, è per avere un amico a corte. Ci sono dei cafoni che, come parecchi ebrei europei, sono stati schiacciati da un’esperienza tanto penosa dello Stato, che non possono più figurarsi un’amministrazione o un governo come se fosse composto di persone. Per loro lo Stato è qualcosa di misterioso, è “lassù”, e il meglio che possano domandare è che questo Stato si adatti ad un poco di tolleranza o addirittura a leggere le loro lettere di raccomandazione.

Carlo Marx parla spesso dei contadini come di gente che ha il cervello annebbiato. Ma che ne sapeva lui? Io me lo figuro quando li osservava nel mercato di Treviri e constatava che erano tardi e silenziosi. Marx non poteva pensare che lo facessero apposta. Date retta a me, il contadino non è più stupido dell’operaio, e io mi sono accorto che il più delle volte possiede una conoscenza maggiore della vita umana, di quella che non si trova nelle città. La vicinanza agli animali e alla natura, il contatto diretto con i grandi avvenimenti, la vita, l’amore, la morte, fanno entrare i contadini in possesso di una sapienza enorme. Sono uomini che possono venir paragonati a quelle umili case di campagna, dove ci sono sotto terra delle immense cantine. Molti marxisti mostrano una specie di disprezzo per la vita intima. Il loro ideale, così come è stato espresso nei romanzi di Malraux e di Hemingway, è l’uomo di acciaio, l’uomo d’azione senza esitazioni e senza scrupoli. È una concezione che deriva da Nietzsche e che è stata espressa in una forma molto più avvincente da certi scrittori fascisti, con la sua glorificazione del “Lavoratore”…

La vita di un rivoluzionario è molto più difficile, pericolosa e piena di guai, che non quella di un eroe nietzscheano. Per esempio, è pericoloso correre all’assalto senza essere prima d’accordo con se stesso fino alla più intima profondità del proprio essere. Noi sappiamo la storia dell’eremita il quale, per darsi completamente a Dio e rinunciare ai desideri terreni, si evirò con le proprie mani. Non c’è dubbio che si liberò da certi conflitti interiori, ma allo stesso tempo perdette anche l’energia del suo amore per Dio, e diventò per sempre incapace di far ritorno alla vita normale. È lo stesso, più o meno, di quello che avvenne a parecchi burocrati comunisti, i quali hanno finito col perder la fede nella sempre mutevole tattica del Partito, ma che, in seguito alla loro automutilazione spirituale, non possono tornar mai all’umanità normale. Spesso si comportano come sonnambuli, ma dietro le loro maschere di acciaio non si trova altro che piccola gente spaventata, la quale ha imparato ad essere terribilmente prudente.

Non esiste nessuna teoria che sia rivoluzionaria in sé e per sé, che anzi non possa venire adibita a propositi reazionari. Il marxismo, dopo essere stato una dottrina, è diventato una sorta di stupefacente, un sedativo, un cataplasma della coscienza. Giorno verrà forse in cui noi scopriremo la formula: “Il marxismo è l’oppio dei popoli”. Quello che del marxismo sopravvive è soprattutto la sua critica ideologica. Uno può condannarla dicendo che è una tecnocrazia tragicamente gelida, ma nella sua vera essenza è umanistica. Tuttavia il socialismo sopravviverà al marxismo. Lo sforzo di trasformare in realtà scientifica drammi utopistici non è finito con Carlo Marx: continuerà per tutta l’eternità. Il problema che si pone di fronte a noi è questo: “Che tipo di socialismo è il nostro?”. Il fascismo non è altro, infatti, che un tipo di socialismo; e, in certo senso, è stato anche molto utile assorbendo e assimilando tutti quegli elementi pericolosi e malati che facevano danno al socialismo. È precisamente per questa ragione che il fascismo ha messo il socialismo di fronte all’occasione di rinnovarsi e purificarsi. Il fascismo ha fatto appello ai barabba e si è posto alla loro testa, ma questa non è una prerogativa da farcelo invidiare. Che i fascisti si tengano pure i loro barabba, mentre noi continueremo nel compito fondamentale di criticare la nostra propria ideologia.

La lotta fra socialismo e fascismo non sarà decisa da questa guerra, perché la verità è che le guerre, in generale, non decidono mai niente. Potrà succedere che il fascismo sarà vinto dalla forza delle armi, e tuttavia si svilupperà negli Stati vincitori, forse perfino con una maschera democratica o socialista, sotto la forma di un “fascismo rosso”. La storia è fatta dagli uomini, non dal determinismo sociale, e io confesso che non sono pessimista.

Bisogna anche confutare un altro mito: quello secondo cui, in tutti i paesi dove i mezzi di esprimere le opinioni sono monopolizzati dallo Stato, gli uomini non possono più pensare liberamente o coraggiosamente. La verità è proprio il contrario: i pensieri più grandi e più audaci sulla libertà sono sempre venuti da nazioni dove la libertà ha cessato di esistere. La mente umana non consentirà mai a lasciarsi trasformare in una macchina. La libertà umana e la dignità umana sono concezioni che non moriranno mai.