Gli antecedenti dell'idea (^)

Vi sono, nella storia, alcuni temi e problemi ricorrenti che si manifestano, generalmente, ogniqualvolta talune caratteristiche di base della natura umana sono sottoposte a tensione. Essi emergono, ad esempio, quando un individuo dominante e sfruttatore cerca di imporsi, e trova l'opposizione di altri esseri umani che sono abbastanza forti da ribellarsi contro pretese percepite come irragionevoli.

In passato abbiamo avuto, ad esempio, tentativi di imporre:

- Monopoli di potere. Il caso più famoso e il primo ad essere ampiamente documentato riguarda la lotta tra il re d'Inghilterra che cercava di affermare la sua supremazia discrezionale e i baroni Inglesi che volevano restringere quel potere all'interno di limiti specifici. Il risultato fu la promulgazione, nel 1215, di un documento noto sotto il nome di Magna Charta Libertatum in cui i baroni riuscirono a salvaguardare i loro diritti e privilegi contro il potere arbitrario del re e, così facendo, introdussero clausole che proteggevano anche i diritti e le libertà della gente comune.

- Monopoli di ricchezza. Mentre si ribellavano contro un potere centrale al di sopra di loro, i padroni feudali cercavano di imporre, a loro volta, un potere di sfruttamento su tutti coloro che vivevano nel territorio da essi controllato, in modo da godere di un monopolio delle ricchezze. A tal fine, la popolazione rurale era costretta a dedicare del tempo lavorativo a coltivare i campi del signore feudale, doveva trasferire a lui una quota del proprio raccolto, era costretta ad utilizzare, dietro pagamento, solo le attrezzature di proprietà del padrone (mulini e forni). In altre parole, i rurali erano utilizzati come semplici appendici dei territori di proprietà dei loro padroni. La soluzione radicale a questa condizione di assoggettamento fu, almeno per i più avventurosi tra i servi rurali, di abbandonare il feudo e stabilirsi altrove, fondando nuove agglomerazioni (le città libere) e avviando nuove attività (artigianato, commercio). In tal modo essi divennero gli antesignani della borghesia imprenditoriale e commerciale.

- Monopoli di religione. L'introduzione della stampa a caratteri mobili (1439) e la circolazione delle idee che ne seguì, accrebbero il numero delle persone letterate e dei liberi pensatori che trovavano insopportabile qualsiasi imposizione, specialmente nell’ambito della religione. Molti furono i Protestanti che abbandonarono la Francia quando Luigi XIV revocò l'Editto di Nantes (1685) che aveva garantito loro la possibilità di praticare indisturbati le loro convinzioni religiose. E molti furono coloro che, durante l'età dell'assolutismo statale (16° e 17° secolo), furono arrestati, torturati e patirono la morte per mano di un potere che voleva imporre la stessa fede a tutti coloro che vivevano all'interno di un certo territorio.

In tutti questi casi di ribellione abbiamo a che fare con individui che, a causa del loro orgoglio (i baroni), della loro energia (i servi rurali) o della loro forza morale (i liberi pensatori), erano disposti a resistere e a lottare per preservare e affermare la loro individualità.

Molti di coloro che, in periodi remoti, hanno affermato la loro autonoma volontà e le loro aspirazioni al libero pensiero contro il potere opprimente dello stato e della chiesa alleati tra di loro, possono essere considerati i precursori di una concezione, il liberalismo, che troverà sviluppo nella seconda metà del 17° secolo e che guadagnerà vigore nel corso del 18° e 19° secolo.

 

La formulazione dell'idea (^)

L'esistenza di individui che si ribellano contro un potere monopolistico è un dato costante della storia, ma è solo a partire dalla metà del secolo 17° che assistiamo all'emergere di un insieme di idee che attribuiscono apertamente all'individuo diritti fondamentali intrinseci alla natura umana.

Questo è avvenuto a seguito della formazione e del rafforzamento dello stato assolutistico e dell'apparizione degli scritti di pensatori quali Jean Bodin (1530-1596), Robert Filmer (1588-1653) e Thomas Hobbes (1588-1679) che giustificavano l'origine divina del potere dei sovrani e la loro posizione al di sopra della legge, in quanto i sovrani erano visti come la fonte di ogni legge.

Il primo passo nella direzione di uno sviluppo della idea del Liberalismo può essere rintracciato nel First Treatise of Government (1689) di John Locke, che è una refutazione precisa della posizione che asserisce l'origine divina del diritto dei re, sostenuta da Rober Filmer nella sua opera Patriarcha (1680).

Ma è con il Second Treatise of Government (1689) di Locke che troviamo una più chiara espressione di quelli che saranno considerati come i principi del Liberalismo, e cioè:

- L'esistenza di diritti naturali. Locke afferma che la protezione di diritti naturali, che sono antecedenti alla nascita di qualsiasi governo, spinge gli individui ad associarsi e a formare una società, chiamata civile o politica, nella quale i governanti agiscono sulla base del consenso e a vantaggio degli stessi individui.

- L'esistenza di diritti di proprietà. Per Locke il diritto naturale più importante è il diritto di proprietà. Con questo termine (proprietà dal Latino proprius = quello che è proprio a ciascuno) Locke intende “la vita, la libertà e la condizione materiale (estate)” di ciascuno. Questa estate o proprietà materiale trova la sua origine nel fatto che una persona si impegna ad applicare il suo lavoro a una qualche risorsa naturale ed è premiata con il godimento dei frutti di tale attività.

Un altro punto importante associato al Liberalismo è la difesa della libertà religiosa. Anche in questo caso Locke espresse idee abbastanza avanzate nel suo scritto A Letter Concerning Toleration (1689). Contrariamente a Thomas Hobbes, Locke riteneva che l'esistenza di una varietà di fedi e di pratiche religiose, l'una accanto all'altra, non fosse un fatto dannoso per una ordinata e civile convivenza in quanto la religione e il governo civile operavano in sfere differenti. A questo proposito Locke scrisse: “Ritengo soprattutto necessario distinguere esattamente gli affari del governo civile da quelli della religione e fissare i giusti confini che vi sono tra l'uno e l'altro campo.” (A Letter Concerning Toleration, 1689)

Lo sviluppo delle idee liberali si manifestò anche in Francia attraverso gli scritti di Montesquieu (1689-1755) e Voltaire (1694-1778) e le attività di quei pensatori noti come les philosophes, alcuni dei quali collaborarono alla redazione de L'Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751-1772) sotto la direzione di Diderot (1713-1784) e d'Alembert (1717-1783).

La finalità di tutti coloro che, in Europa, condividevano i valori dell'Illuminismo era quella di opporsi all'assolutismo e all'oscurantismo rappresentati dalla alleanza tra lo stato, che godeva di un potere sentito come illimitato e arbitrario, e la Chiesa Cattolica, vista come un ostacolo allo sviluppo della scienza e della libera espressione delle idee.

Per mettere un freno al potere dello stato assoluto, Montesquieu si fece sostenitore nella sua opera De l'esprit des lois (1748) della separazione dei poteri statali (esecutivo, legislativo, giudiziario) attraverso la differenziazione delle funzioni e l'introduzione di controlli e bilanciamenti reciproci.

Per quanto riguarda l'oscurantismo delle gerarchie della Chiesa Cattolica e il suo immischiarsi nella vita di tutti, Voltaire diede libero sfogo al sarcasmo e all'ironia in alcuni scritti ed espresse idee a favore della tolleranza religiosa nel suo Traité sur la tolérance (1763).

Con riferimento alla vita sociale ed economica, nel corso del 18° secolo un gruppo di pensatori conosciuti come i Fisiocratici affermò l'esistenza, nelle relazioni sociali, di un “ordine naturale” che non aveva bisogno dell'intervento statale per operare a vantaggio degli individui. Questo è lo stesso concetto che sarà ripreso da Adam Smith (1723-1790) in The Wealth of Nations (1776) sotto l'immagine affascinante della “mano invisibile”.

Se aggiungiamo a questi vari temi e pensatori il lavoro di Wilhelm von Humbolt (1767-1835) sui limiti dell'azione statale e gli scritti di Immanuel Kant (1724-1804) che elogiano l'Illuminismo e la tendenza verso il cosmopolitismo, abbiamo le principali componenti strutturali di quello che è chiamato Liberalismo.

Durante il 19° secolo tutte queste idee furono ulteriormente sviluppate, soprattutto in Francia e in Inghilterra, da pensatori e attivisti come Fréderic Bastiat (1801-1850), Alexis de Tocqueville (1805-1859), Richard Cobden (1804-1865) con la Anti-Corn Law League e la loro lotta contro il protezionismo.

Ad un certo punto, verso la metà dell'ottocento, sembrò che lo sviluppo del commercio internazionale libero avrebbe condotto ad una èra di costante progresso sociale ed economico e ad una coesistenza armoniosa di tutti i popoli, con l'abolizione definitiva delle guerre. Se questo scenario si fosse materializzato, avrebbe rappresentato l'attuazione della libertà e il trionfo del Liberalismo.

Prima di esaminare perché questo non avvenne, è necessario ripercorrere molto brevemente alcuni avvenimenti storici nei quali troviamo l'attuazione pratica di alcune delle idee presentate dai pensatori e dagli scrittori a cui si è fatto riferimento in precedenza.

 

L'attuazione dell'idea (^)

Il progresso delle idee liberali e il venir meno dell'assolutismo statale è marcato da tre rivoluzioni:

- La Rivoluzione Inglese (1642-1651) e la Gloriosa Rivoluzione (1688). La prima fu una guerra civile tra i sostenitori del Parlamento e i sostenitori del re (Charles I e Charles II). Terminò con il processo e l'esecuzione di Charles I e la fuga e l'esilio di suo figlio Charles II. La Gloriosa Rivoluzione vide la detronizzazione del re James II e l'accesso al trono di sua figlia Mary e di suo marito William di Orange. Ma, a parte questi cambiamenti, quello che è più rilevante è la fine del potere assoluto dei re sostituito dal potere del Parlamento. I segni più chiari di questa trasformazione furono l'introduzione del Habeas Corpus Act (1679) e del Bill of Rights (1689). Questi Atti limitarono il potere della corona, misero in luce i diritti del Parlamento in materia di legislazione, tassazione e amministrazione della giustizia, affermarono la libertà di espressione e dichiararono che nessuno poteva essere processato davanti ad una corte di giustizia se detenuto illegalmente. Essi contribuirono a rendere le istituzioni inglesi tra le più tolleranti e liberali in Europa.

- La Rivoluzione Americana (1775-1783). Gli abitanti delle tredici colonie che ruppero la loro fedeltà alla Corona Inglese al fine di formare gli Stati Uniti d'America, furono l'esempio più luminoso dei princípi liberali dell'autodeterminazione e dell'espressione dei diritti naturali. Questi princípi furono condensati, innanzitutto, nel grido di battaglia “nessuna tassazione senza rappresentazione” ("no taxation without representation") e furono poi esposti, in maniera molto pregnante, nella Dichiarazione di Indipendenza (1776). Nel preambolo alla Dichiarazione sono contenuti i princípi di base della concezione liberale: “Noi riteniamo queste verità auto-evidenti: che tutti gli esseri umani sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, tra questi il diritto alla Vita, alla Libertà e alla Ricerca della Felicità. Che, per assicurare questi diritti, i Governi sono stati istituiti tra gli uomini, derivando il loro potere dal consenso dei governati. Che qualora una qualche Forma di Governo diventi distruttiva di questi fini, è Diritto del Popolo modificare o abolire il Governo e istituirne uno nuovo, ponendo le sua fondamenta e organizzando i suoi poteri in modo tale che sembrerà loro più efficace in vista della loro Sicurezza e Felicità.”

Nel 1787 la Costituzione degli Stati Uniti fu ratificata dalle assemblee di ciascuno stato dell'Unione. Nella Costituzione sono espressi i principi di base che regolano le relazioni tra il governo federale, gli stati e il popolo. Nel 1789, dieci emendamenti furono introdotti nella Costituzione dalla Camera dei Rappresentanti; essi furono successivamente ratificati dagli stati ed entrarono in vigore nel Dicembre 1791, rappresentando la Carta dei Diritti che protegge i diritti naturali (libertà e proprietà) di ciascun individuo. Questo completò la struttura liberale che diede nascita alla entità politica nota come Stati Uniti d'America.

- La Rivoluzione Francese (1789-1799). Sulla base delle idee e aspirazioni dei philosophes dell'Illuminismo e seguendo l'esempio della Rivoluzione Americana, il popolo della Francia, e soprattutto il popolo di Parigi, prese parte dal 1789 e negli anni successivi a una radicale trasformazione della struttura politica e sociale. Lo scopo principale era il superamento delle costrizioni e dei privilegi feudali e la salvaguardia della libertà degli individui contro ogni abuso e sfruttamento da parte dei poteri dell'Ancien Régime (la Corona, la Chiesa, l'Aristocrazia).

Queste aspirazioni trovarono espressione nella Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen (1789) adottata dalla Assemblée Nationale Constituante sulla base di una bozza di testo redatta dal Marchese de Lafayette. In essa troviamo condensate le principali idee liberali: la garanzia dei diritti universali naturali di “libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all'oppressione” (articolo 2); il principio che la sovranità risiede nella nazione e cioè nel popolo (articolo 3); la supremazia della legge contro regole arbitrarie (art. 5); la separazione dei poteri (art. 16).

Un secondo documento ancora più forte a difesa della libertà individuale e contro l'oppressione derivante da un potere illegittimo fu la Déclaration des Droits de l'Homme et du citoyen de 1793.

Le basi e le aspirazioni teoriche e pratiche espresse da queste tre rivoluzioni possono essere sintetizzate con le parole del famoso motto della Rivoluzione Francese, valido universalmente: Liberté - Egalité – Fraternité.

È possibile rintracciare gli aspetti liberali di queste rivoluzioni in tre nozioni pratiche che intendevano costituire un baluardo contro ogni tipo di monopolio (di potere, di ricchezza, di religione):

- La separazione tra i poteri dello stato (esecutivo, legislativo, giudiziario)

- La separazione tra lo stato e le attività economiche (laissez-faire, laissez-passer)

- La separazione tra lo stato e le istituzioni religiose (tolleranza religiosa).

Ad ogni modo, fin dall'inizio, un divario apparve tra intenzioni e dichiarazioni da una parte e attuazioni e realizzazioni dall'altra. Alcuni dei problemi erano probabilmente dovuti alla incapacità degli individui di superare difficoltà e ostacoli in una maniera creativa e alcuni potrebbero essere ascritti direttamente a limiti insiti nella concezione liberale. 

 

I limiti pratici dell'idea (^)

Le idee liberali che erano alla base delle rivoluzioni politiche del 17° e 18° secolo produssero, nel 19° secolo, movimenti e partiti liberali che presero parte, in tutta Europa, alle lotte politiche per l'indipendenza nazionale e per l'introduzione di carte costituzionali.

In Spagna, un gruppo chiamato Liberales combatté, all'inizio del 19° secolo, per l'attuazione degli articoli contenuti nella Costituzione del 1812, sostenendo tra l'altro, il suffragio universale degli uomini, la sovranità nazionale, la monarchia costituzionale e la libertà della stampa.

Queste erano anche le richieste dei liberali che parteciparono ai moti del 1848 in Europa, tendenti alla introduzione di costituzioni scritte e alla fine dell'assolutismo statale. Il cammino era anche aperto per la nascita di due grandi stati in Italia (1861) e Germania (1871). Movimenti di indipendenza furono attivi in Polonia, Grecia, Ungheria, Bulgaria, Serbia, Romania, Montenegro, e portarono, in taluni casi, al riconoscimento di nuovi stati indipendenti al Congresso di Berlino del 1878.

L'accesso al potere da parte di uomini politici liberali, soprattutto in Inghilterra con Gladstone, verso la metà del 19° secolo, segnò l'accettazione e l'attuazione delle idee dei pensatori liberali classici dei secoli precedenti. Tuttavia, fu proprio questo successo politico che portò fuori strada il liberalismo, occupato nel vano tentativo di mettere in atto l'idea contraddittoria di uno “stato liberale” basato sul monopolio territoriale della sovranità.

Infatti, l'occupazione di posizioni di potere all'interno dello stato da parte di uomini politici che si proclamavano liberali, portò ad una rivalutazione del ruolo dello stato e all'allargamento continuo della sua sfera di intervento, contrariamente a quelli che erano i principi di base all'origine del liberalismo. È quindi appropriato affermare che “una volta che i liberali arrivarono al potere, la costruzione dello stato costituì uno dei loro obiettivi più importanti.” (Adrian Shubert, The Liberal State, in, Encyclopedia of Social History, 2001)

Per cui, lo stato assoluto nel quale il sovrano e l'aristocrazia avevano, in teoria, poteri arbitrari, ma nella pratica, erano limitati da convenzioni, a un ruolo ridotto di intervento, iniziò ad essere sostituito dallo stato liberale in cui personaggi ricchi eletti al Parlamento intervenivano sempre più nella vita sociale ed economica del popolo, raggruppato e governato come un insieme compatto e omogeneizzato chiamato “la Nazione”.

Nel corso del 19° secolo, molti liberali si resero conto della realtà del loro potere e si allontanarono dai nobili ideali di libertà universale e potere statale circoscritto contenuti nel messaggio del liberalismo classico e, passo dopo passo, abbracciarono una nuova versione del liberalismo caratterizzata da:

- Liberalismo nazionale. Una volta esaurita la lotta per l'indipendenza, i liberali considerarono finita anche la lotta per la libertà, giudicando che era arrivato il tempo di rafforzarsi come governanti di potenti stati-nazione sulla scena mondiale. Nel giro di breve tempo, molti uomini politici liberali, talvolta in alleanza con uomini politici conservatori, abbracciarono l'imperialismo in nome della Nazione.

- Liberalismo democratico. L'accento posto sull'individuo e sulla libertà personale venne meno a vantaggio del suffragio elettorale (progressivamente esteso) e del potere della maggioranza rappresentata in Parlamento. Al pari di ogni altro uomo politico, i liberali seguirono la corrente in direzione di una società di massa in cui il ruolo dell'individuo sarebbe stato continuamente ridotto a quello di un ingranaggio all'interno e al servizio della macchina statale.

- Liberalismo politico. Il fatto di occupare posizioni di potere all'interno dello stato portò gli uomini politici liberali a sottolineare gli aspetti politici della libertà (rappresentanza elettorale, controlli ed equilibri di potere) minimizzando la libertà da un potere statale invasivo nella sfera sociale ed economica. In effetti, la libertà economica fu distaccata dalla libertà politica e quasi obliterata, di modo che il liberalismo fu ridotto alla libertà di scelta politica tra partiti costituzionali di governo.

Per molti uomini politici liberali in uno "stato liberale" basato sulle idee di nazione e di democrazia, la libertà venne ad essere identificata con la libertà riservata a:

- La loro razza. Molte pagine intense a favore della libertà sono state scritte da personaggi (come Thomas Jefferson e John C. Calhoun) che possedevano schiavi ed erano a favore della schiavitù. Per essi il liberalismo significava essenzialmente la libertà dell'uomo bianco e la difesa della razza bianca e delle minoranze bianche (come nel caso della lotta alla Corona Inglese).

- La loro nazione. Uomini politici liberali abbandonarono ben presto qualsiasi idea di cosmopolitismo presente nella concezione liberale e sostennero le politiche del loro stato anche quando ciò significò aggressione e soppressione della libertà per gli abitanti di altre regioni della terra. Molti liberali (esemplare è il caso di John Stuart Mill) accettarono la tesi della missione civilizzatrice dell'uomo bianco e, una volta al potere, non si comportarono diversamente da qualsiasi altro governante con ambizioni espansioniste.

- La loro classe. I liberali erano generalmente individui di cultura elevata che appartenevano alla aristocrazia o agli strati ricchi della società. Allorché essi divennero l'élite di governo nel Parlamento nazionale, essi usarono il potere dello stato al fine di proteggere e promuovere i loro interessi presentati come interessi di tutta la società.

In altre parole, il liberalismo inteso come partiti liberali che controllavano le leve del potere statale, non era, in definitiva, diverso da qualsiasi altra concezione e movimento. La differenza riguardava solo gli strati sociali (i ricchi e i potenti) che si ponevano ora sotto le bandiere del liberalismo. Per il resto, i liberali avevano lo stesso obiettivo di tutti gli aspiranti al potere statale e cioè quello di utilizzare lo stato per controllare e manipolare il pubblico e per estrarre favori e guadagni. Non c'è quindi da stupirsi che, durante gli ultimi decenni del 19° secolo, a “Vienna, Berlino, Roma e altrove … un insieme assortito di Liberali – banchieri, imprenditori, ufficiali statali, ministri – furono chiamati a giudizio per rispondere di accuse spiacevoli come frode, peculato, corruzione e intese equivoche.” (Carlton J. H. Hayes, 1941)

Ad ogni modo, occorre aggiungere che queste limitazioni e distorsioni nella concezione e nella pratica liberale non erano condivise da tutti i liberali. Infatti, alcuni di loro rimasero molto critici delle misure sociali che seguirono il superamento dell'Ancien Régime e alcuni presentarono idee che, qualora accettate e attuate, avrebbero potuto indirizzare il liberalismo verso un cammino molto differente e molto promettente. 

 

Il mancato sviluppo dell'idea (^)

La spinta che motivava i liberali classici era, come indicato precedentemente, il superamento dei monopoli (di potere, di ricchezza e di religione) e l'affermazione dell'individuo autonomo e tollerante. Nella sfera della produzione e del commercio questa aspirazione si condensò nella famosa espressione laissez-faire laissez-passer.

L'espansione della libertà che caratterizzò, soprattutto l'Inghilterra tra il 18° e il 19° secolo, rese possibile un incremento massiccio dei mezzi di produzione (capitale) che fu successivamente qualificato con il nome di Rivoluzione Industriale.

Sul Continente, questa idea che il laissez-faire laissez-passer fosse la chiave della prosperità economica e potesse essere anche la chiave del benessere sociale, venne ripresa da un pensatore liberale di nome Paul Emile de Puydt (1810-1891).

Quello che egli propose fu di introdurre la libera competizione tra governi su uno stesso territorio, in maniera simile alla concorrenza tra industrie insediate nello stesso paese o a confessioni religiose che vivono l'una accanto all'altra e attraggono fedeli sulla base del richiamo del loro messaggio e dell'approvazione per le loro azioni. L'attuazione di questa proposta, secondo de Puydt, avrebbe messo fine ai litigi politici e agli sprechi economici delle risorse pubbliche e avrebbe permesso, a coloro che erano in grado di offrire i migliori servizi sociali, di emergere e di operare. Almeno fino a quando essi fossero stati capaci di offrire servizi richiesti da un pubblico soddisfatto di clienti.

La novità radicale contenuta in questa posizione presentata sotto il nome di Panarchia (1860), può essere meglio percepita se confrontata con alcune idee di base del liberalismo classico, e cioè:

A) L'idea di contratti personali al posto di un contratto sociale. Locke (sulla scia di Thomas Hobbes e seguito da Jean-Jacques Rousseau) individua l'origine dei governi nella stipulazione di un contratto sociale che lega i governanti e i governati a obblighi reciproci. Il diverso accento posto su obblighi e limiti (con Hobbes maggiormente dalla parte del governante e Locke e Rousseau maggiormente dalla parte dei governati) distingue la visione assolutista da quella liberale del potere. Ad ogni modo, è solo quando il contratto sociale è sostituito da accordi sottoscritti personalmente, che noi effettuiamo un salto di qualità verso una libertà effettiva e sostanziale per l'individuo. Infatti, con il contratto sociale l'individuo si trova a obbedire alla maggioranza e a seguire le convenzioni del passato; invece, con il contratto personale l'individuo esprime le sue scelte sulla base delle sue aspirazioni e necessità attuali e della loro evoluzione.

B) L'idea di vari governi in concorrenza al posto di un unico governo composto da parti separate che si bilanciano. La nozione, espressa da Montesquieu e ripresa dai pensatori liberali classici, che la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) rappresenta la soluzione per garantire a tutti la libertà dall'oppressione politica, si è rivelata o un mito illusorio o un pasticcio immane. Per quanto riguarda il mito illusorio, la realtà corrente è che un ramo del potere statale, di solito, prevale sugli altri; per quanto concerne il pasticcio immane, avviene spesso che i vari poteri si combattono e si bloccano a vicenda e il risultato è una paralisi totale. Molto più efficace appare la proposta di mettere i governi (e i servizi da essi forniti) in competizione tra di loro e lasciare che le persone decidano quale governo essi vogliono finanziare e quali servizi vogliono utilizzare. Se i monopoli sono un dato negativo nella sfera economica, secondo la concezione liberale, sarebbe un fatto assolutamente straordinario se essi rappresentassero qualcosa di positivo nella sfera politica. Questo è il messaggio che de Puydt voleva far passare sulla base di una comprensione chiara e coerente dei migliori principi del liberalismo.

Il cammino verso la proposta avanzata da de Puydt era stato preparato da un famoso economista liberale, Gustave de Molinari (1819-1912), per molti anni editore del Journal des Économistes. Nel 1849 egli scrisse un importante saggio, De la production de la sécurité, nel quale sostenne l'introduzione di una misura che rappresenta la condizione necessaria per l'attuazione della proposta di governi in competizione, e cioè:

C) L'idea di agenzie di sicurezza in concorrenza tra di loro al posto del monopolio statale della polizia. La visione dello stato come di un guardiano notturno (a night watchman) era stata avanzata, come una idea ridicola, in un discorso tenuto a Berlino nel 1862 da Ferdinand Lassalle, un socialista statalista che voleva che lo stato fosse l'entità suprema nella vita sociale ed economica delle masse. L'espressione era poi stata ripresa, con connotati positivi, dai liberali che intendevano confinare il ruolo dello stato a quello di essere, unicamente, il fornitore esclusivo di sicurezza nell'ambito di un territorio specifico (lo stato nazionale territoriale). La fallacia insita in questa posizione consiste nel fatto che, storicamente, nessuna entità che ha goduto del monopolio della violenza ha limitato la sua attività al semplice ruolo di sopprimere atti di aggressione e di mantenere la pace e l'ordine.

È un dato di fatto, confermato da molti avvenimenti storici, che coloro che dispongono del monopolio territoriale della violenza sono posti o si trovano in una condizione favorevole e indispensabile per:

- Iniziare la violenza (contro agenti esterni al fine di ottenere guadagni territoriali).
- Imporre il controllo (sulle minoranze e sugli individui e gruppi non conformisti).
- Estrarre le risorse (da tutti i soggetti che abitano in quel territorio).

La svolta degli avvenimenti in direzione di uno stato invasivo, anche quando le idee liberali sembravano essere in ascesa, è stata molto bene documentata e deprecata da scrittori quali Frédéric Bastiat, Alexis de Tocqueville e Lord Acton (1834-1902).

Bastiat ha condotto, soprattutto verso la fine della sua breve vita, una lotta contro miti e illusioni, quali, ad esempio, il protezionismo come strumento per accrescere la ricchezza di una nazione, e lo stato come padre benevolo che provvede a tutto. Per distruggere (purtroppo senza successo) qualsiasi illusione che stava crescendo intorno allo stato, Bastiat produsse quella che è una delle migliori definizioni di stato: L'état, c'est la grande fiction à travers la quelle tout le monde s'efforce de vivre aux dépens de tout le monde. (l'État, 1848)

Tocqueville espresse (1835) le sue inquietudini, reiterate successivamente da John Stuart Mill (1859), su una possibile trasformazione della democrazia nella “tirannia della maggioranza”, in tutti i casi in cui la sfera dell'individuo diventava sempre più ristretta.

Lord Acton chiarì, meglio di qualsiasi altro, che “Il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe in maniera assoluta” e che “Non vi è peggiore eresia di quella che una carica pubblica santifica colui che la esercita”. (Lettera a Mandell Creighton, 5 Aprile 1887). I suoi avvertimenti non hanno ricevuto l'attenzione che meritavano, forse perché lo stato assoluto era qualcosa del passato e ora lo stato “liberale” era capace di presentarsi sotto apparenze molto più attraenti ma anche molto più ingannevoli.

Bastiat chiamò questo nuovo atteggiamento dello stato “il dispotismo filantropico” (La Loi, 1850) ma non molti condivisero le sue critiche. Di certo non molti liberali che, soprattutto in Inghilterra, stavano deviando il liberalismo verso un nuovo cammino in cui la società, rappresentata dallo stato, avrebbe ricevuto e assunto un ruolo notevolmente più grande. 

 

Lo sviamento reale dell'idea (^)

L'esponente di maggior rilievo del pensiero liberale in Inghilterra durante il 19° secolo fu John Stuart Mill. Nei suoi scritti, specialmente On Liberty (1859), troviamo alcune delle migliori enunciazioni dei principi liberali, condensati ad esempio nell'affermazione: “La sola libertà che merita tale nome è il perseguire il proprio bene a modo proprio, e fin tanto che non cerchiamo di privare altri di quanto spetta loro o blocchiamo i loro sforzi per ottenerlo.” (Mill, 1859)

Sulla base di questo principio ne consegue che “il solo scopo per il quale il potere può essere esercitato di diritto sopra qualsiasi membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà, è di prevenire un danno ad altri. Il procurare a lui un bene, materiale o morale, non costituisce un motivo sufficiente.” (Mill, 1859)

Tuttavia, accanto a queste affermazioni molto chiare a favore della libertà personale e dell'autonomia individuale, troviamo in Mill altre formulazioni che possono fare spazio ad un intervento dello stato molto più esteso al fine di promuovere la civiltà (ad esempio in regioni arretrate della terra) o migliori condizioni per l'individuo (ad esempio per quanto riguarda strati sociali arretrati).

Nel suo Representative Government (1861) Mill dichiara che “le funzioni proprie di un governo non sono un qualcosa di fisso, ma di variabile a seconda della situazione della società stessa, con interventi governativi più estesi in una situazione arretrata rispetto a quanto avviene in una situazione avanzata.” (Mill, 1861) Questo punto di vista apre la strada all'intervento statale in tutti i casi in cui un provvedimento statale può essere presentato come capace di migliorare le condizioni sociali e porre fine ad una situazione miserevole.

È stato in questo modo che il liberalismo in Inghilterra è diventato sempre più intriso di tendenze filantropiche che non erano intrinsecamente riprovevoli se non avessero condotto: (a) all'interno, al paternalismo statale e all'invasione da parte dello stato di tutti i settori di fornitura di servizi sociali; e (b) all'esterno, alla accettazione attiva di un imperialismo presentato come benefico, per mezzo di uno stato “liberale” intento in una missione di civilizzazione sulla scena mondiale.

Nella seconda metà del 19° secolo il Liberalismo fu quindi deviato verso un approccio interventista dello stato grazie ad un gruppo di studiosi basati a Oxford e che erano attratti dalla filosofia di Hegel. Un esponente di spicco del gruppo fu il filosofo liberale Thomas H. Green (1836-1882) che, attraverso i suoi scritti e il suo impegno politico (era consigliere comunale al Municipio di Oxford) espresse ciò che diverrà noto come liberalismo sociale.

Altri esponenti del liberalismo sociale furono Bernard Bosanquet (1842-1923), Leonard T. Hobhouse (1864-1929) e John H. Hobson (1858-1940).

L'idea di base di questi pensatori era che, in presenza di profonde disuguaglianze e di un lento progresso verso lo sviluppo personale, il compito del liberalismo era quello di stimolare la società nel suo insieme a intervenire, attraverso le sue istituzioni democratiche, al fine di promuovere misure che avrebbero facilitato la crescita materiale e morale degli individui. A tal fine era necessario passare da una idea negativa ad una idea positiva della libertà, e cioè dall'astenersi e non intervenire al prendere parte e favorire migliori condizioni sociali.

Va detto al riguardo che, nell'Inghilterra di allora e anche altrove, vi erano parecchie ragioni, per chiunque fosse animato da buone intenzioni e con un sentimento di giustizia personale e sociale, per intervenire al fine di correggere torti passati e presenti, commessi dai ceti dominanti con la protezione del potere statale.

Nel passato i ricchi possidenti di campagna si erano appropriati (attraverso i vari Atti di Recinzione) di vaste estensioni di terra, con l'approvazione e la benedizione del Parlamento che essi dominavano. Durante la Rivoluzione Industriale gli interessi dei ceti industriali erano stati altamente protetti dallo stato attraverso la proibizione di formare associazioni di lavoratori (sindacati) per lottare per migliori condizioni di lavoro. E questo fu fatto spesso in nome di principi liberali di concorrenza che gli industriali potevano benissimo mettere da parte attraverso accordi taciti.

Adam Smith era del tutto consapevole di questa situazione quando scrisse: “Si dice che raramente sentiamo parlare di accordi tra padroni di fabbrica, mentre di frequente si ha sentore di accordi tra lavoratori. Ma chiunque pensi, sulla base di ciò, che i padroni raramente si accordano tra di loro, fa mostra di ignoranza del mondo e di questa realtà in particolare. I padroni sono sempre e dappertutto in una sorta di intesa tacita ma costante e uniforme, al fine di non innalzare i salari al di sopra del livello attuale.”

Al tempo stesso, quando i lavoratori si mettono d'accordo, “i padroni … non cessano mai di strepitare esigendo l'intervento del magistrato civile e l'attuazione rigorosa di quelle leggi che sono state emanate con estrema severità contro le unioni di servi, lavoratori e operai specializzati.” (The Wealth of Nations, 1776, Libro 1, Capitolo 8)

Per cui vi erano giustificazioni per coloro che erano a favore dell'abbandono di un liberalismo che condannava qualsiasi intervento, da parte di chicchessia, anche di movimenti sociali, come un'interferenza indebita nello stato naturale delle cose. Le ragioni di un intervento erano ancora più sostenibili soprattutto se si considera che il presunto stato naturale delle cose nel presente non era affatto naturale ma il risultato di interventi politici nel passato nei confronti dei quali, si sosteneva, nuovi provvedimenti politici potevano adesso porre rimedio.

Ad ogni modo, un gruppo vigoroso di nuovi pensatori e attivisti liberali avrebbe potuto identificare tutti gli ostacoli, posti in passato da parte di qualsiasi potere (lo stato, i proprietari terrieri, gli industriali, i banchieri, ecc.), che ancora impedivano il libero sviluppo degli individui, e intervenire al fine di eliminarli del tutto. Ad esempio, in materia di tassazione, di politiche espansionistiche dello stato, di libertà da convenzioni culturali imposte. Sfortunatamente, invece di rafforzare l'individuo liberandolo da qualsiasi costrizione sociale ancora esistente, i liberali della scuola di Oxford si pronunciarono per un ampliamento dei poteri dello stato sperando, in tal modo, di aiutare l'individuo a diventare libero.

In altre parole, i liberali sociali furono responsabili, come i socialisti statalisti, nell'installare lo stato su di un piedistallo o come un deus ex machina che scende dall'alto per risolvere la maggior parte se non tutti i problemi sociali.

Questo è del tutto evidente negli scritti di Thomas H. Green nei quali l'accento posto sugli individui è sempre temperato e assai spesso soffocato dall'accento posto sul potere provvidenziale dello stato. Un esempio di questa ambivalenza è contenuto in affermazioni quali, “non possiamo parlare in maniera significativa di libertà se non in riferimento alla singola persona”, a cui fa seguito l'osservazione che “la realizzazione della libertà all'interno dello stato può significare soltanto il conseguimento della libertà da parte degli individui attraverso le influenze che lo stato (in senso lato) fornisce.” (Lectures on the Principles of Political Obligation, 1882)

Per quanto riguarda la cancellazione dell'individuo e l'attribuzione allo stato delle basi per l'esistenza umana, l'affermazione seguente è, implicitamente, abbastanza indicativa: “Chiedersi perché devo sottomettermi al potere dello stato, è come chiedersi perché devo accettare che la mia vita sia regolata da quel complesso di istituzioni senza le quali, letteralmente, io non avrei una vita che potrei chiamare mia, né sarei capace di trovare una giustificazione per quello che sono chiamato a fare.” (Thomas H. Green, 1882)

Da questa prospettiva, non è sorprendente che questo autore “liberale” abbia espresso la convinzione che “l'educazione dovrebbe essere resa obbligatoria dallo stato” e che “la libertà di contratto dovrebbe con tutta probabilità essere maggiormente ristretta verso talune direzioni di quanto non lo sia al presente.” (Thomas H. Green, 1882) Questo perché “la nostra legislazione … con riferimento al lavoro, all'educazione e alla salute, mettendo in atto, come dovuto, una serie di interventi che interferiscono con la libertà di contratto, è giustificata sulla base del fatto che è compito dello stato … preservare le condizioni senza le quali un libero esercizio delle facoltà umane è impossibile.” (Liberal Legislation and Freedom of Contract, 1861). In pratica scopriamo attraverso le parole di un pensatore “liberale” che, senza lo stato, non vi sono né istruzione, né contratti, né libertà di alcun genere.

Una posizione ancora più accentuata a favore dello Stato Liberale si trova in Bernard Bosanquet per il quale lo stato costituisce la più alta manifestazione e attuazione della libertà nella società. In The Philosophical Theory of the State (1899), egli si fece promotore dell'abbandono dei cardini del liberalismo, come ad esempio l'unicità dell'individuo, al fine di sommergere ogni essere umano nel mare magnum della volontà generale e di effettuare “un passaggio dall'io privato alla grande comunione del reale.” (1899). Bosanquet faceva riferimento, approvandola, all'idea di Rousseau dell'essere “forzati a essere liberi”. E questa costrizione “liberale” doveva chiaramente essere l'opera di una istituzione superiore, e cioè lo stato, dal momento che Bosanquet considerava “lo stato come l'organo e la condizione principali per una più piena libertà.” (1899)

L'idea di Bosanquer della libertà personale era quella di un essere umano indirizzato, disciplinato e animato dalla suprema entità etica: lo stato. Per Bosanquet “Lo Stato è il volano della nostra vita.” “Lo Stato è … la mente dell'individuo su scala gigantesca.” (1899)

Con Bosanquet la stagione del liberalismo iniziata con Locke è definitivamente tramontata, almeno dal punto di vista della teoria. Siamo ricondotti di nuovo all'assolutismo del Leviatano di Hobbes sotto le sembianze apparentemente più accettabili della Volontà Generale di Rousseau. Lo Stato è l'individuo o, nelle parole di Bosanquet, abbiamo “l'identificazione dello Stato con la Volontà Reale dell'Individuo.” (1899)

Che il nuovo credo “liberale” fosse totalmente a favore del dominio dello stato non può essere più messo in dubbio quando leggiamo che “lo Stato, in quanto il raggruppamento maggiore i cui membri sono concretamente uniti da una comune esperienza, rappresenta necessariamente la sola comunità che ha un potere assoluto di assicurare, con la forza, se necessario, una regolazione sufficientemente adeguata delle pretese di tutti gli altri gruppi in modo da rendere la vita possibile.” (1899)

In sostanza, i Liberali del gruppo di Oxford sotterrarono il Liberalismo classico presentando e diffondendo con successo idee e aspettative fallaci quali:

- la confusione tra stato e società (“Con il termine Stato, quindi, noi indichiamo la Società come una unità, riconosciuta nel suo esercizio legittimo del controllo sui suoi membri attraverso il potere fisico assoluto.” - Bosanquet, 1899);

- l'illusione che l'intervento statale fosse portatore di benessere personale (“Lo Stato, quindi, esiste per promuovere la buona vita.” - Bosanquet, 1899).

In presenza di simili sviamenti rispetto alla concezione originaria, è appropriato affermare che, alla fine del 19° secolo, il liberalismo come idea era praticamente morto. Gli eventi storici che avranno luogo nei decenni successivi lo confermeranno. 

 

La svolta deplorevole dell'idea (^)

Una volta poste le basi per una revisione della teoria liberale in una direzione che giustificava l'intervento dello stato per presunti motivi sociali, la strada era aperta perché lo stato giocasse un ruolo sempre più importante in ogni aspetto della vita sociale. Un ruolo attivamente promosso da uomini politici liberali, talvolta in alleanza con politici conservatori e socialisti favorevoli allo stato.

La politica sembra essere il cimitero di ogni concezione e aspirazione alla libertà e alla emancipazione. A seguito della formazione di partiti liberali in Europa (ad esempio, il Partito Liberale in Inghilterra nel 1859) lo sforzo di tutti gli uomini politici si concentrò sul convincere le persone che la libertà era una questione risolvibile con provvedimenti legislativi e che i rappresentanti in Parlamento erano il veicolo indispensabile per introdurre provvedimenti intesi a migliorare le condizioni di vita delle masse.

In un periodo storico in cui un numero crescente di persone erano ammesse al voto e in cui le idee socialiste di uguaglianza economica erano in ascesa, tutti i partiti politici, per arrivare al potere o rimanervi, erano favorevoli a introdurre misure che soddisfacessero il desiderio di sicurezza sociale delle masse più che le aspirazioni alla emancipazione personale degli individui.

Il gioco politico si incentrò quindi su chi sarebbe stato più capace di ottenere il favore del popolo provvedendo ai suoi bisogni e catturandolo in una rete fatta di propaganda culturale e protezione economica.

In questo gioco di vendita delle illusioni e distribuzione dei premi, i partiti e gli uomini politici liberali parteciparono attivamente. Albert Nock bollò a fuoco questo atteggiamento quando scrisse: “di tutte le forme di impostura politica, il Liberalismo mi è sempre apparso come il più immorale, in quanto il più pretenzioso e il più ingannevole.” (Anarchist's Progress, 1927)

Durante il diciannovesimo secolo, attraverso movimenti e partiti politici, il liberalismo assunse tre aspetti che ne avrebbero alterato definitivamente alcuni suoi tratti specifici originari e avrebbero condotto a qualcosa di ancora peggio. Questi tre aspetti sono:

- Nazionalismo. Le lotte nazionali per l'indipendenza, ad esempio quella dei patrioti italiani, erano animate e promosse da molti individui che abbracciavano idee liberali; essi ispirarono e attrassero le simpatie di molti altri liberali in Europa (ad esempio, quelle di Gladstone in Inghilterra). Sfortunatamente, nel corso del tempo, il nazionalismo si trasformò da leva culturale per formare individui indipendenti con una visione cosmopolita, in un fattore politico per la diffusione dell'imperialismo statale, mano a mano che ogni stato nazionale iniziava a indirizzarsi verso l'ampliamento dei suoi possedimenti territoriali. Facendo riferimento ancora una volta all'Italia, la prima mossa di un certo rilievo in tale direzione fu ad opera di un uomo di stato liberale, Giovanni Giolitti, quando egli iniziò la campagna per l'annessione della Libia (1911). In questa avventura imperialista egli era stato preceduto e sarà seguito da altri uomini politici liberali e conservatori in molti stati europei (ad es. Lord Asquith in Inghilterra, Jules Ferry in Francia, Friedrich Naumann in Germania). È quindi appropriato affermare che “sostanzialmente il nuovo imperialismo era un fenomeno nazionalistico” (C. J. H. Hayes, A Generation of Materialism, 1941) e che i liberali sono da annoverare tra i suoi promotori.

- Assistenzialismo. La prima spinta verso lo stato assistenziale venne data in Germania dall'ultra-conservatore cancelliere Otto von Bismarck con una serie di provvedimenti introdotti durante gli anni 1880 (assicurazione malattia nel 1883, assicurazione incidenti nel 1884, assicurazione infermità e vecchiaia nel 1889). L'esempio risultò contagioso soprattutto perché si trattava di provvedimenti che potevano soddisfare sia l'istinto conservatore (provvedere agli strati più bassi per placare le paure degli strati più alti) che l'istinto progressista umanitario (provvedere agli strati più bassi per mitigare il senso di colpa degli strati più alti). I partiti liberali si collocarono quindi in prima fila per l'introduzione di ogni sorta di interventi statali, partendo dal livello municipale, come sostenuto da Robert Blatchford, un giornalista e scrittore inglese nel suo libro estremamente popolare, Merrie England (1893). Nel corso dei primi decenni del secolo 20°, con il liberale inglese Lloyd George raggiungiamo una delle vette del liberalismo statale sotto forma di uno stato paternalistico che si propone di prendersi cura della vita degli individui, dalla culla alla bara.

- Laicismo. Mentre alcuni pensatori liberali classici erano cattolici (come Lord Acton) o mossi da sentimenti religiosi (come Constant e Tocqueville), molti uomini politici liberali, con i loro occhi fissi sul raggiungimento del potere o già installati al potere, vedevano la religione come una ideologia che poteva entrare in conflitto con la fedeltà dei sudditi allo stato, e la Chiesa come una autorità in concorrenza diretta con il potere dello stato. Per cui, sia la religione che la Chiesa, dovevano essere controllati, emarginati e, se possibile, eliminati, anche in nome della separazione dei poteri, intendendo con ciò, in realtà, che lo stato doveva diventare onnipotente e la Chiesa priva di potere (cioè subordinata al potere statale). In Germania, ad esempio, vi era il barone Virchow, uno dei fondatori del partito liberale (Deutsche Fortschrittspartei) che, in alleanza con Bismarck, promosse una campagna contro la Chiesa Cattolica (la lotta culturale o Kulturkampf) chiedendo, con successo, l'introduzione di leggi anti-clericali (1873). In Francia il radicale Jules Ferry fu l'artefice del pieno controllo statale della istruzione al fine di rimpiazzare la religione della Chiesa (cattolicesimo) con la religione dello Stato (statismo).

Se consideriamo questi tre aspetti della trasformazione del pensiero e della pratica liberali, possiamo davvero attribuire a quasi tutti i governi “liberali”, quello che un pensatore liberale classico (Piero Gobetti) scrisse facendo riferimento agli interventi nel campo economico e sociale di un uomo politico liberale italiano (Giovanni Giolitti) e cioè che “il liberismo diventa socialismo di Stato” e che “Giolitti ha avuto l'eroico cinismo di presentare come liberale questa politica di saccheggio dello Stato.” (La rivoluzione liberale, 1924)

Alcuni liberali sono stati molto sinceri riguardo alla direzione che essi stavano prendendo. È il caso di un uomo politico liberale inglese, Sir William Harcourt, che, in un discorso tenuto nel 1887, pronunciò una frase divenuta famosa: “Adesso siamo tutti socialisti.” Tuttavia egli avrebbe dovuto essere più preciso nell'uso delle parole, affermando invece: “Noi, uomini politici liberali, siamo adesso tutti socialisti statalisti.” E questo avrebbe offerto un quadro più veritiero del sovvertimento totale di una idea in qualcosa del tutto diverso da quello che era in origine e da quello che sarebbe potuto diventare.

Attraverso questa trasformazione, tutte le premesse erano state poste per un capovolgimento della concezione liberale. Questo avvenne con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, una guerra che sarebbe stata inconcepibile e altamente improbabile in un contesto europeo fatto di società veramente liberali, basate sulla tolleranza universale, il cosmopolitismo e il libero commercio a livello mondiale. 

 

Il capovolgimento totale dell'idea (^)

La preparazione per la guerra, all'inizio del 20° secolo, con un forte aumento delle spese militari da parte dei maggiori stati europei, e il loro successivo precipitarsi nel conflitto, è il segno più evidente che il Liberalismo era praticamente estinto quando iniziò il folle massacro nell'Agosto del 1914.

La prima guerra mondiale rappresentò la fine del Liberalismo in quanto concezione e pratica basate sull'individuo e sulle sue libere scelte in tutti i campi della vita sociale e la trasformazione del liberalismo (come di ogni alto “ismo”) in uno strumento di potere e di controllo da parte dello stato.

Il mondo anglosassone che aveva prodotto le idee di base a cui il nome di Liberalismo “classico” fu assegnato in seguito, si trovò ancora in prima fila nella elaborazione della nuova concezione di liberalismo “moderno” o “progressista” che avrebbe capovolto quello “classico”.

Le formulazioni teoriche di Leonard Hobhouse (Liberalism, 1911) e i provvedimenti pratici introdotti dai governi liberali di Lord Asquith e Lloyd George (Old Age Pensions, 1908; National Health Insurance Act, 1911) segnarono il vero inizio dello stato assistenziale nel Regno Unito.

John A. Hobson fu pronto a riconoscere ciò quando scrisse: “Per la prima volta nella storia del Liberalismo Inglese, i capi con un notevole sostegno da parte dei semplici militanti si sono impegnati con zelo e addirittura con appassionate convinzioni a promuovere una serie di misure pratiche che, sebbene non intimamente connesse al loro intento immediato, hanno il risultato comune di accrescere i poteri e le risorse dello Stato per il miglioramento della condizione materiale e morale del popolo.” (The Crisis of Liberalism, 1909)

Comunque, è stato dopo la guerra che i pensatori e gli uomini politici liberali hanno abbandonato definitivamente le idee di base del governo minimo e del laissez-faire per abbracciare l'intervento statale esteso e la regolamentazione statale nella vita economica e sociale.

In Italia, il filosofo Benedetto Croce, la voce maggiore del liberalismo, era all'opera per separare, concettualmente, la libertà politica da quella economica: la prima considerata la vera caratteristica del liberalismo (e cioè le libertà politiche come diritti umani basilari); la seconda, sotto il nome di liberismo, vista come una aggiunta rimpiazzabile se non addirittura del tutto inutile per la visione e la pratica liberali. Per Croce “l'utopia del laissez-faire laissez-passer ... come panacea dei mali sociali, era smentita dai fatti." (Storia d'Europa nel secolo decimonono, 1932) Nella concezione di Croce, il liberismo e il protezionismo erano solo due approcci economici differenti, entrambi accettabili e appropriati in relazione a situazioni storiche mutevoli, e non erano affatto modi di pensare e di agire nella sfera economica, come era ritenuto dai liberali classici. Croce quindi diede un colpo tremendo ad alcune idee che erano considerate come componenti indispensabili della concezione liberale. Infatti Bruce Smith, un imprenditore, avvocato e uomo politico australiano era stato molto esplicito al riguardo quando egli aveva scritto: “è quanto mai chiaro che una persona non può essere, al tempo stesso, un 'Liberale e un Protezionista'.” (Liberal and Liberalism, 1887).

Per mettere in atto questo capovolgimento totale della concezione liberale, ciò di cui vi era bisogno era che un famoso economista intervenisse e dichiarasse la impossibilità del corretto funzionamento dei rapporti sociali ed economici senza la presenza regolatrice dello stato. In altre parole, dichiarare, come un dato di fatto scientifico, la morte del Liberalismo. Questo avvenne grazie all'intervento del più famoso economista liberale dell'epoca: John Maynard Keynes.

In una serie di saggi di cui i più famosi furono The End of Laissez-Faire (1926) e National Self-Sufficiency (1933), Keynes sostenne apertamente la fine del libero scambio e il ripiegamento nell'ambito di economie nazionali autarchiche. Nella sua opera principale, The General Theory of Employment, Interest and Money (1936) Keynes fornì allo stato gli strumenti teorici e le giustificazioni morali per un esteso intervento nella sfera economica. Lo stato come “guardiano di notte”, ampiamente deriso da Lassalle, non esisteva oramai più, nemmeno come illusione liberale; al suo posto vi era ora lo stato come “faccendiere ficcanaso”, per usare il sottotitolo di un libro (Ernest Benn, Modern Government, 1936) apparso lo stesso anno del testo di Keynes.

Il tocco finale allo stravolgimento pieno dell'idea liberale di stato minimo venne dato da un altro liberale, William Beveridge, che produsse rapporti sulle politiche sociali(Social Insurance and Allied Services 1942; Full Employment in a Free Society, 1944) che contenevano idee e proposte che saranno attuate dal governo Laburista di Clement Attlee per la formazione del moderno stato assistenziale inglese.

L'influsso di questo nuovo approccio “liberale”ebbe un tale successo che, negli Stati Uniti, il termine liberale divenne il segno distintivo di coloro che erano a favore dell'intervento statale per risolvere ogni sorta di problemi. Non è quindi una esagerazione assurda affermare che il moderno stato interventista è più la creazione di pensatori liberali e uomini politici liberali che non l'opera di socialisti statalisti. In Inghilterra il Partito Laburista è stato solo lo strumento per percorrere un sentiero e attuare alcune idee che i liberali avevano ampiamente preparato. Anzi, si può addirittura affermare che lo stato paternalistico promosso dai liberali non era quello che molti lavoratori socialisti avevano in mente, quando discutevano e lottavano per l'emancipazione. Infatti, la riforma “liberale” dell'Assicurazione Nazionale introdotta da Lloyd George trovò l'opposizione di gran parte dei lavoratori manuali, attratti dal socialismo e dal mutualismo e sospettosi dell'interferenza dello stato. Questo non è sorprendente se si tiene conto del fatto che molti di loro erano già assicurati attraverso società di mutuo soccorso e associazioni volontarie di protezione.

Le caratteristiche principali di questo nuovo liberalismo possono essere riassunte sotto questi termini:

- Particolarismo. Lo stato-nazione con il suffragio universale, le maggioranze parlamentari e le schermaglie politiche diventa, per i liberali moderni, l'ultima parola in termini di organizzazione sociale e politica. Il cosmopolitismo del passato è tramontato, rimpiazzato dai particolarismi degli interessi nazionali; e anche quando si affrontano problemi sovra-nazionali attraverso organizzazioni internazionali, lo stato-nazione rimane l'attore principale per la maggior parte dei pensatori e attivisti liberali.

- Protezionismo. La convinzione dell'esistenza di una mano invisibile e di una armonia o aggiustamento spontaneo degli interessi appartiene al passato e al suo posto i liberali pongono lo stato regolatore e le politiche di protezione dell'economia nazionale. In questo modo i liberali sono diventati i sostenitori (soprattutto attraverso Keynes) di un nuovo mercantilismo.

- Paternalismo. Gli strati alti della società che avevano avuto un peso notevole nell'articolare molte idee del liberalismo, alla fine abbracciano il paternalismo sotto forma di stato assistenziale, come risultato della paura di un sommovimento sociale o come sbocco di un atteggiamento benevolo a favore dell'aiuto sociale. Ad ogni modo, così facendo, i liberali impediscono lo svolgimento di un processo di auto-emancipazione che rappresentava uno dei cardini del pensiero e dell'azione liberali.

Per spiegare questo cambiamento totale di prospettiva da parte dei liberali possiamo far riferimento ad un generale e crescente stato d'animo in favore dell'intervento statale. Indicativo di ciò è l'attrazione esercitata dai socialisti statalisti (i partiti social-democratici e nazional-socialisti) e la messa in disparte dei movimenti anarchici e marxisti per i quali, in modi diversi, lo stato appartiene al museo delle antichità, come espresso in maniera molto efficace da Friedrich Engels (Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello stato, 1884).

Qualunque sia la possibile spiegazione, rimane comunque il fatto che è abbastanza scoraggiante vedere una concezione incentrata sull'individuo e sullo sviluppo della sua libertà e autonomia, diventare un movimento rappresentato da partiti politici che sostengono un intervento esteso di uno stato paternalista in cui l'individuo è posto sotto la sua guida e tutela.

In contrasto con questo dissesto del liberalismo, alcuni pensatori intervennero, con i loro scritti e le loro attività, per opporsi all'avanzata dello stato totalitario durante la prima metà del secolo 20°. Essi rappresentarono l'ultimo tentativo di salvare il liberalismo classico e di indirizzarlo verso nuovi orizzonti. 

 

I tentativi di salvataggio dell'idea (^)

In un mondo dominato da intellettuali di orientamento statalista e da partiti politici tutti orientati verso lo statalismo, sono apparsi alcuni individui che hanno cercato di operare un salvataggio del liberalismo attraverso una critica del socialismo di stato e un rinnovato apprezzamento delle libere attività e dei liberi scambi.

Segnaliamo qui molto brevemente tre tentativi al riguardo:

- La ripresa del liberalismo classico. I nomi associati a una ripresa del liberalismo classico sono soprattutto quelli di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Tra la vasta produzione di von Mises è sufficiente fare riferimento a due testi: Socialism (1922) in cui l'autore ha inteso mostrare l'impossibilità di un calcolo economico razionale in assenza di libere scelte e liberi scambi; Liberalism (1927) in cui l'autore ha voluto presentare l'attrattiva duratura rappresentata dal liberalismo classico. Per quanto riguarda Hayek, il liberalismo classico ha costituito l'impalcatura del suo testo The Road to Serfdom (1944) che contiene una condanna estremamente lucida del totalitarismo statale. Il messaggio molto chiaro era che solo individui sicuri di sé e comunità indipendenti potevano superare l'assoggettamento allo stato, che era una condizione abbastanza generale ai tempi in cui il libro fu scritto.

- L'esplorazione del liberalsocialismo. In Italia, l'accesso del fascismo al potere dello stato (1922) ha costituito una delle ragioni che hanno promosso il pensiero anticonvenzionale di alcuni liberali che, influenzati dal socialismo e dal marxismo, erano però in opposizione totale al socialismo di stato. Una figura di spicco fu Piero Gobetti che presentò nel suo libro La Rivoluzione Liberale (1924) un liberalismo basato sui produttori e, innanzitutto, sui lavoratori dell’industria, sottolineando il fatto che “il problema del movimento operaio è problema di libertà e non di uguaglianza sociale.” (1924) Un approccio abbastanza simile fu preso da Carlo Rosselli in Socialismo Liberale (1930) in cui l'autore cercò di superare l'opposizione tra le due concezioni del socialismo e del liberalismo considerando l'una (il socialismo) l'estensione dell'altra (il liberalismo). Chiaramente il socialismo a cui alludeva e che sosteneva era basato sul volontarismo e sul federalismo.

- La proposizione dell'anarcocapitalismo. Negli Stati Uniti, poiché il termine liberalismo era stato appropriato da coloro che erano favorevoli all'intervento statale, vi era bisogno di una nuova caratterizzazione per indicare quanti erano contrari all'interferenza e al dominio dello stato. Durante gli anni cinquanta, l'economista Murray Rothbard produsse il termine anarco-capitalismo e anarco-capitalista per qualificare gli anarchici che sostenevano il libero mercato ed erano favorevoli alla proprietà privata basata su diritti legittimi. Un altro termine utilizzato al riguardo fu quello di libertarismo e libertari. Chiaramente il capitalismo a cui si alludeva e si sosteneva non aveva nulla a che fare con il capitalismo affaristico (corporativismo) che si poneva sotto la protezione dello stato.

Queste tre posizioni, pur avendo indubbi meriti e aspetti apprezzabili, non riuscirono, nella prima metà del 20° secolo, a modificare lo scenario caratterizzato dalla onnipresenza dello stato. Anche la caduta degli stati totalitari in Europa (Germania, Italia) fu dovuta alla loro disfatta nella seconda guerra mondiale piuttosto che a ragioni di convincimento morale e di riflessione razionale sui pericoli del potere statale. Questo è il motivo per cui, con la transizione allo stato democratico, permane tuttora una forte presenza della tutela e della sovranità statali. Ciò è dovuto probabilmente anche a incomprensioni e limiti di tipo strategico e tattico contenuti nelle posizioni tratteggiate brevemente più sopra. Ad esempio:

- Liberalismo classico. La ripresa del liberalismo classico avrebbe dovuto essere l'occasione per eliminare da quella concezione alcuni aspetti che sono incompatibili con un individuo veramente libero. Ad esempio, la pretesa da parte dello stato di una sovranità territoriale monopolistica è qualcosa di totalmente incompatibile con l'esercizio delle libertà personali (di movimento, di scelta delle agenzie di protezione, ecc.). Ciò nondimeno, persino von Mises ha dato per scontato il ruolo indispensabile dello stato territoriale e del suo monopolio di sovranità. Infatti egli scrisse: “Per il liberale, lo stato è una assoluta necessità dal momento che i compiti più importanti spettano a lui: la protezione non solo della proprietà privata, ma anche della pace, in quanto in assenza di pace tutti i benefici della proprietà privata non possono essere colti.” (Liberalism, 1927)

- Liberalsocialismo. L'originalità e l'anticonvenzionalità del liberalsocialismo hanno costituito anche il motivo principale per la sua assoluta fragilità. Infatti, si dovevano superare convinzioni profonde dell'esistenza di una opposizione tra le due concezioni, del liberalismo e del socialismo. La battaglia condotta ad esempio da von Mises, un gigante del pensiero liberale, era diretta essenzialmente contro il socialismo (il socialismo di stato) e non contro lo statismo (lo stato come tenutario di una sovranità territoriale monopolistica). Inoltre, i migliori sostenitori del liberalsocialismo (Gobetti e Rosselli) furono uccisi da teppisti fascisti quando il fascismo era al potere, e i loro eredi teorici (gli esponenti del Partito d'Azione) si adattarono successivamente ad un ruolo più modesto all'interno dello stato post-fascista.

- Anarco-capitalismo. Per i sostenitori dell'anarco-capitalismo, la difficoltà che essi dovevano sormontare era rappresentata dal fatto che i due termini, anarchismo e capitalismo, erano (e sono tuttora) associati, seppur impropriamente, nella mente di troppe persone con le idee sgradevoli di disordine e di sfruttamento. Per cui, il primo grosso ostacolo, quasi insormontabile, era quello di far capire agli oppositori che ciò che si voleva era qualcosa di totalmente diverso, qualcosa basato su accordi volontari e libere attività. Una volta che ciò fosse stato accettato, il passo successivo consisteva nel mostrare che, sotto l'anarco-capitalismo potevano trovare spazio tutte le possibili configurazioni personali e sociali, anche quelle che non avevano nulla a che fare con l'anarchismo e il capitalismo, posto che esse fossero tutte scelte volontariamente. Ad ogni modo, riuscire a portare a buon effetto questa rivoluzione culturale era qualcosa di estremamente difficile soprattutto se ci si caricava, fin dall'inizio, del peso costituito da due termini che sono stati tra i più fraintesi nel corso della storia.

Queste notazioni critiche ci portano quindi a considerare il fatto che, quello di cui si ha probabilmente bisogno, è un approccio più radicale che, pur preservando il meglio degli atteggiamenti e delle idee liberali, va oltre il liberalismo e l'antiliberalismo al fine di offrire una concezione e una pratica che siano in sintonia con le esigenze di base della natura umana e con le necessità, le possibilità e le aspirazioni dell'essere umano del 21° secolo.

 

Oltre il liberalismo e l'antiliberalismo (^)

Tutte le concezioni, che trattano di organizzazione politica e sociale, prodotte nei secoli passati, e soprattutto il Liberalismo e il Socialismo, sono state talmente distorte e mal utilizzate, che non c'è da sorprendersi che esse abbiano perso il loro significato originario e il loro potere di attrazione. Infatti, quando le persone impiegano questi termini, è molto spesso come strumenti di propaganda e di ingiuria nelle schermaglie politiche.

Essere definito socialista da un avversario politico è diventato equivalente all'essere qualificato come un ladro dei beni altrui e un incorreggibile teppista. Lo stesso è vero per gli appellativi di liberale-liberismo e capitalista-capitalismo. Per moltissime persone il Liberalismo (e le relative qualifiche di neo-liberalismo e ultra-liberalismo) sono diventati termini di diffamazione, che raffigurano una concezione e un comportamento indifferenti al rispetto della dignità umana e inclini a trattare gli individui come merci, da usare e da disporre a piacere.

Questi scontri verbali puramente propagandistici sono tanto più assurdi e comici se si considera che, quando i partiti socialisti o liberali hanno conquistato il potere, le differenze tra i loro comportamenti politici concernenti, ad esempio, il fatto di astenersi dall'interferire nella vita di tutti o di praticare la giustizia sociale, sono state trascurabili.

I liberali statalisti, talvolta ancor più dei socialisti statalisti, sono stati in prima fila nell'espropriare le proprietà altrui e nel reprimere il dissenso o anche solo le voci di minoranze. Per fare solo un esempio preso dalla storia, nel Regno del Piemonte l'allora primo ministro liberale, il conte di Cavour, nel 1850 soppresse 334 conventi che ospitavano 4280 monaci e 1200 suore. Questo provvedimento fu seguito, nel nuovo Regno d'Italia, da una legge, sotto il governo del liberale Bettino Ricasoli (1866), che scioglieva la maggioranza degli istituti religiosi e vendeva le loro proprietà a profitto dello stato. L'esproprio e la vendita delle proprietà della Chiesa per mano di governi controllati da governanti liberali è stato, molto spesso, il mezzo impiegato per rinsanguare le casse dello stato e permetterne la sopravvivenza finanziaria e il rafforzamento politico.

Inoltre, i partiti liberali che combattevano l'influsso culturale della Chiesa, hanno promosso il monopolio dello stato in materia di educazione, in quanto ritenuto il modo indispensabile per riuscire a plasmare le menti dei sudditi statali. Questo è stato ottenuto, ad esempio in Francia e in Spagna, sopprimendo le scuole gestite da ordini religiosi (come i Gesuiti) e ponendo tutte le istituzioni educative sotto il controllo di un ministro di stato; un provvedimento che Marx aveva condannato fermamente ai tempi del Congresso di Gotha del Partito Tedesco dei Lavoratori affermando che “'L'educazione del popolo da parte dello stato è una richiesta del tutto deplorevole.” (Karl Marx, 1875)

Nel settore economico, i liberali al potere hanno attuato il protezionismo e l'interventismo statale in combutta con i conservatori e i socialisti statalisti, in tutti i casi in cui hanno ritenuto ciò utile per il cosiddetto interesse nazionale. Da Joseph Chamberlain a John Maynard Keynes, i maggiori uomini politici e intellettuali liberali hanno minato alla base l'idea del libero commercio e del non intervento statale. Nel 1933 Keynes scrisse, con riferimento al Regno Unito: “ l'internazionalismo economico abbracciando il libero movimento del capitale e dei prestiti finanziari come pure di beni commerciali potrebbe condannare questo paese nella prossima generazione a un livello di prosperità materiale molto più basso di quello che potrebbe essere conseguito sotto un sistema differente.” (National self-sufficiency, 1933). Il sistema differente da lui suggerito era il protezionismo. Sostenendo l'introduzione di tariffe, i liberali divennero quindi il partito delle grandi imprese e del capitalismo nazionale, altrimenti detto corporativismo.

Durante il 20° secolo, sia il liberalismo che il socialismo abbandonarono la sostanza rivoluzionaria della loro visione teorica e delle loro aspirazioni pratiche diventando, almeno nominalmente, l'ideologia degli strati superiori (liberalismo) e degli strati inferiori (socialismo). In realtà, liberalismo e socialismo erano solo strumenti di propaganda per gli uomini politici che battagliavano per il controllo del potere statale. Gli uomini politici, opponendo una idea all'altra, distrussero gli aspetti comuni che queste concezioni condividevano per quanto riguarda i protagonisti (gli individui produttivi) e i programmi (contro i monopoli, a favore del cosmopolitismo-internazionalismo). Inoltre, gli uomini politici riuscirono a far passare la convinzione ingannevole che la libertà si contrappone all'uguaglianza; invece l'una e l'altra sono in stretta relazione tra di loro, in quanto libertà significa, innanzitutto, fine dei privilegi e di poteri speciali attribuiti a chicchessia. E questa è l'uguaglianza. (Roderick T. Long, Liberty: The Other Equality, 2005).

Dopo aver messo in atto i loro inganni, i liberali statalisti abbracciarono “la libertà” intesa da loro come licenza concessa agli strati superiori di sfruttare i lavoratori e di godere di privilegi garantiti dallo stato (tariffe protezionistiche, brevetti, finanziamenti a fondo perduto, ecc.); mentre i socialisti statali abbracciavano “l'uguaglianza” intesa da loro come massificazione e riduzione di tutti, eccetto l'élite di governo, ad un minimo comun denominatore.

Per quanto riguarda i liberali, essi sono stati responsabili, in particolare, nel generare e diffondere tre illusioni sulla base delle quali essi hanno eretto la più grande di tutte le illusioni, quella dello “Stato Liberale”, che sta sullo stesso piano del “Libero Stato” reclamato dai socialisti del Partito Tedesco dei Lavoratori nel loro Programma di Gotha (1875) e su cui Marx riversò tutto il suo disprezzo (Karl Marx, 1875).

Queste illusioni sono:

- Lo stato democratico: molti uomini politici liberali credevano che, sostituendo il diritto divino dei re con la sovranità popolare, si sarebbe posto fine alle decisioni arbitrarie e si sarebbe giunti alla libertà per le persone. Tuttavia, il potere statale non è mai stato così sconfinato e arbitrario come durante il periodo dello stato democratico in cui le masse hanno giocato un ruolo sostanziale, seppure subordinato.

- Lo stato di diritto: molti liberali avevano una fede irrazionale nell'esistenza di una Costituzione e in quello che è chiamato lo Stato di Diritto (Rechtsstaat, état de droit). Tuttavia, il fatto che lo stato abbia il monopolio o la supremazia assoluta nel fissare le regole della vita sociale lascia la porta aperta alla introduzione di ogni sorta di abusi e di restrizioni dei diritti civili e delle libertà personali, spesso nel nome dell'interesse superiore della società la cui realtà ed esistenza è confusa con quella dello stato.

- Lo stato minimo: i liberali classici erano e sono tuttora profondamente attaccati all'idea di uno stato minimo, anche se il fatto di godere di un monopolio territoriale della violenza richiede da parte di qualsiasi governante statale, liberali inclusi, una capacità di freno dall'allargare la loro sfera di intervento che è sovrumana. Lo stato minimo monopolista è quindi una assurdità logica oltre che una impossibilità pratica.

Sulla base di queste considerazioni, appare altamente raccomandabile superare la falsa contrapposizione tra liberalismo e antiliberalismo che è stata usata solo per mascherare l'emergere e il consolidarsi dello statismo (l'ideologia statale). Andare oltre il liberalismo e l'antiliberalismo non significa di certo abbandonare le idee di libertà e di autonomia personale che sono, attualmente, parte non solo della concezione liberale, ma anche acquisizioni teoriche e pratiche della civiltà umana.

Infatti, quelle idee imperiture sono fatte rinascere e messe all'opera ancor meglio se liberate dall'ascriverle a qualsiasi ideologia specifica e viene dato loro un valore ed una applicazione universali. Possiamo quindi sintetizzarle come:

- Il principio di non aggressione (lasciar vivere, lasciar in pace). La norma di base di ogni persona civile, sottolineata negli scritti dei filosofi e nei testi religiosi, è il principio di non aggressione. Esso è anche parte di un mondo razionale fondato sulla coerenza (non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te) e sulla reciprocità (do ut des).

- La pratica della tolleranza universale (lasciar pensare, lasciar dire). Dal principio di non aggressione deriva la pratica della tolleranza universale che permette l'emergere di una varietà di idee e di comportamenti, nessuno dei quali, per rispondere al criterio precedente, dovrebbe costituire una minaccia per il benessere di chicchessia. Da ciò, il risultato più probabile è una situazione di ordine spontaneo, con aggiustamenti ricorrenti e armonizzazioni tra individui e comunità.

- Il progetto delle comunità volontarie (lasciar scegliere, lasciar sperimentare). L'assenza di coercizione nei confronti di qualsiasi comportamento tollerante consente la nascita di ogni sorta di esperimenti personali e sociali sotto forma di comunità volontarie che competono e cooperano tra di loro. La società mondiale diventa quindi un vasto laboratorio di esperimenti sociali, e ciò rende possibile un progresso delle scienze sociali come quello conseguito, attraverso la sperimentazione, nelle scienze fisiche.  

Così, dalle miglior idee e pratiche elaborate nel passato e nel presente, il processo di sviluppo e di emancipazione dell'essere umano continua.

 


 

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