Globalizzazione: una nuova  moda (^)

Se una persona vissuta in Inghilterra verso la metà del secolo 19°, quando la "Grande Esposizione delle Opere dell'Industria di tutti i Paesi" si aprì al Crystal Palace (1851) e quando Marx ed Engels erano impegnati a scrivere il loro Manifesto, che celebrava l'irresistibile ascesa della borghesia, la continua espansione dell'industria e degli scambi internazionali, se quella persona potesse tornare sulla terra adesso, all'inizio del 21° secolo, e passando in rassegna libri, riviste e giornali recenti, cercasse di raccogliere informazioni sullo stato attuale delle società mondiale, probabilmente rimarrebbe colpita da quanto poco l'umanità abbia progredito (o quanto abbia regredito) in molti aspetti della vita sociale.
Il mondo che quella persona si era lasciata dietro era un mondo (apparentemente) in marcia verso un crescente

  -  liberalismo politico
  -  internazionalismo economico
  -  cosmopolitismo culturale.

Per offrire solo un piccolo ritratto di come il mondo (o almeno il paese più avanzato) fosse, ancora agli inizi del 20° secolo, vale la pena leggere la descrizione della vita in Inghilterra con cui A. J. P. Taylor inizia la sua "English History":

"Fino all'Agosto del 1914 un cittadino inglese giudizioso e rispettoso della legge poteva trascorrere la sua esistenza quasi senza rendersi conto dell'esistenza dello stato, a parte la presenza dell'ufficio postale e del poliziotto. Egli poteva vivere dove e come volesse. Non aveva nessun numero di riconoscimento né carta di identità. Poteva viaggiare all'estero o lasciare per sempre il suo paese senza un passaporto o qualsiasi tipo di autorizzazione di alcun genere. Poteva cambiare il suo denaro in qualsiasi altra moneta senza restrizioni né limiti. Poteva acquistare merci provenienti da qualsiasi altro paese del mondo alle stesse condizioni dei beni prodotti nel proprio paese. A questo riguardo, uno straniero poteva passare tutta la sua vita in questo paese senza dover richiedere alcun permesso e senza dover informare la polizia."

Tutto questo cessò con lo scoppio della prima Guerra Mondiale. Ciò che ne risultò fu l'emergere di un altro mondo, caratterizzato principalmente dai seguenti aspetti:

- totalitarismo politico: la gente ammette e accetta il potere dello stato di intervenire in qualsiasi aspetto della vita sociale. Le forme in cui questo potere viene riconosciuto sono la democrazia elettorale totalitaria (chi governa è eletto attraverso il voto), la democrazia plebiscitaria totalitaria (chi governa è scelto per acclamazione), o un misto delle due forme.
protezionismo economico: la gente ammette e accetta il potere dello stato sul territorio e l'instaurazione di  barriere alla libertà di scambio, facendo sì che gli interessi dei consumatori (vale a dire, di tutti) siano soggetti agli interessi dei produttori nazionali (lavoratori e datori di lavoro).
nazionalismo culturale: la gente ammette e accetta l'esistenza di culture nazionali omogenee, distinte tra di loro, e vede nello stato il difensore e il protettore di queste cosiddette identità nazionali.

I cambiamenti politici ed economici che seguirono allo scoppio della guerra ebbero l'effetto di trasformare il mondo in un luogo meno libero e meno sicuro, in cui la parola rivalità sostituiva il termine relazioni. Questi cambiamenti riuscirono inoltre a cancellare del tutto il ricordo del passato, facendo apparire i nuovi fenomeni, ad esempio la (presunta) esistenza di identità nazionali o l'introduzione di documenti di identificazione, come realtà indispensabili sempre esistite, naturali come l'aria che respiriamo.

Questa cancellazione del nostro passato è penetrata così a fondo ed è andata avanti così a lungo che, verso la fine del secolo 20°, intellettuali in vena di mode e giornalisti in cerca di mode si sono dati da fare a scrivere libri e articoli, a tenere discorsi e seminari, intorno a quello che essi hanno presentato come un fenomeno del tutto nuovo, e cioè il globalismo o, come essi lo chiamano, la globalizzazione.

Il chiasso assurdo (di eccitazione o di esacrazione) riguardo ad una novità che non è nuova dovrebbe rendere tutti consapevoli che noi viviamo, attualmente, in un mondo capovolto, in cui la libertà (di movimento, di insediamento, di scambio) è un fenomeno da analizzare e dibattere, mentre le restrizioni di qualsiasi tipo sono fatti accettati senza discussione.

È quindi necessario esaminare come e perché tutto ciò sia potuto accadere, in altre parole come e perché una visione e una pratica basati sul globalismo (liberalismo, internazionalismo, cosmopolitismo) siano stati sostituiti da ideologie e comportamenti furiosamente opposti ad esso.
Questo è il problema reale.

 

Il declino del globalismo (^)

La diffusione dell'illuminismo intellettuale e delle attività industriali che ha caratterizzato buona parte del 18° e 19° secolo subì un blocco all'inizio del secolo 20°.
A quell'epoca, la formazione di stati nazionali in Europa, con l'eccezione della federazione di nazionalità che costituiva l'Impero Austro-Ungarico, era un fatto compiuto.

A un certo punto della storia, il nazionalismo (aspirazione all'auto-governo) e il capitalismo (spirito produttivo industriale) cessarono di essere forze di liberazione e di progresso una volta che furono associate e subordinate allo stato.
Uno dei segni più importanti caratterizzante gli anni immediatamente precedenti la fine del secolo 19° è la crescita continua e imponente del bilancio e delle spese statali.

Nel 1890 il Regno Unito aveva una popolazione 37,5 milioni di abitanti e le spese statali ammontavano a meno di 80 milioni di sterline.  Nel 1901, con una popolazione di 41,5 milioni di abitanti (una crescita di poco più del 10%), le spese statali avevano raggiunto la cifra di 178 milioni di sterline (un incremento di oltre il 122%) [1902, John Hobson].

L'aumento del ruolo dello stato è connesso (come causa ed effetto) con il prevalere dei seguenti fenomeni tra di loro congiunti:

- Protezionismo. Le politiche protezioniste che erano state abbandonate o attenuate da parte degli stati, tornano alla ribalta allorché la concorrenza internazionale viene avvertita come foriera di troppe sfide. Imprese inefficienti con processi produttivi obsoleti pretendono e ottengono di essere protette da uno stato nazionale che intende giocare un ruolo più importante, dappertutto, anche in un paese con istituzioni liberali come l'Inghilterra. Il protezionismo nazionale è la strada che conduce alla formazione di cartelli e monopoli nazionali.

Monopolismo. Sotto la protezione delle tariffe statali un gruppo di imprese riesce a controllare il mercato interno o l'impresa più grossa cresce al punto da monopolizzarlo. Oltre a ciò, lo stato centrale assume per sé il potere monopolistico di gestire i servizi collettivi (trasporti, elettricità, ecc.) o di attribuire diritti esclusivi di sfruttamento e di gestione. Un spinta ulteriore al monopolismo ha luogo quando lo stato, diventando esso stesso sempre più una grande entità economica, assegna a grandi imprese commesse per la produzione di beni, accrescendo le loro dimensioni e il loro dominio su settori della produzione. Tutti questi fatti estendono l'area dei monopoli e delle pratiche monopolistiche.

Finanzialismo. I monopoli assorbono risorse in quantità eccessiva rispetto ad una situazione di concorrenza salutare, portando all'accumulo di vaste fortune. L'imprenditore capitalista si trasforma o cede il posto all'investitore che vive sulle rendite finanziarie. Il ruolo centrale nell'economia è assunto sempre più da banche e da istituzioni finanziarie sotto il controllo della banca centrale dello stato. Il finanziere si trova a disporre di enormi somme di denaro; uno dei canali più sicuri per investire questa massa monetaria consiste nel finanziamento del debito statale. Per questo motivo il redditiere finanziario è a favore dell'espansione del ruolo dello stato, dappertutto nel mondo; ciò significa godere di opportunità di investimento in titoli di stato.

Militarismo. Una delle strade più agevoli per caricare di pesi il bilancio statale è di incentivare le spese militari. Questo è ciò che il ceto finanziario ha fatto (attraverso la stampa nazionalista e guerrafondaia) e quello che i circoli militari erano inclini a fare in ogni caso. Alla fine del 19° secolo gli stati nazionali stavano diventando rapidamente grandi macchine belliche. Nel 1901 in Inghilterra su 178 milioni di sterline di uscite statali, quasi l'80% era destinato alle spese militari e al pagamento del debito nazionale [1902, John Hobson]. In Germania, Francia, Italia, gli stati non erano da meno nella corsa agli armamenti e ogni incremento nelle spese belliche da parte di uno stato costituiva un pretesto e una giustificazione per gli altri stati a fare lo stesso.

Imperialismo. Il risultato di tutti questi nuovi fenomeni è stato l'imperialismo. L'imperialismo non è stato affatto il prodotto di un capitalismo industriale alla ricerca di nuovi mercati di esportazione. Come chiarito a fondo da Hobson molto tempo fa [1902, John Hobson, vedere soprattutto Parte prima], il ruolo dell'Africa o dell'Asia come mercati di assorbimento dei prodotti era praticamente insignificante  durante la fase dell'imperialismo e anche dopo. La maggior parte degli scambi commerciali aveva ed ha tuttora luogo tra paesi industriali, tra popolazioni che godono di un reddito elevato (e quindi di un elevato potere d'acquisto) attraverso la produzione di beni e servizi ceduti in cambio di altri beni e servizi. Per comprendere l'imperialismo faremmo meglio a vederlo come una faccenda politica (l'ottenere prestigio e potere da parte della élite statale), una faccenda finanziaria (il garantire la restituzione dei prestiti e la salvaguardia degli interessi monetari alla élite finanziaria), e una faccenda occupazionale (fornire impieghi nel settore militare, burocratico, finanziario, ai figli della élite politica e dei suoi associati).

Questi cinque fenomeni (protezionismo, monopolismo, finanzialismo, militarismo, imperialismo), rafforzandosi l'un l'altro, riuscirono a bloccare e a invertire l’avanzata del globalismo. Essi rappresentano, al tempo stesso, le molteplici sfaccettature di un nuovo sistema che è giunto ad una posizione di dominio, in netto contrasto con il liberalismo, l'internazionalismo e il cosmopolitismo: lo statismo.

 

La fine del globalismo: la lunga fuga dalla libertà e dalla dignità (^)

Lo scoppio della prima Guerra Mondiale segna la fine del globalismo e l'avvento dello statismo su base nazionale.
La guerra porta in primo piano tutti i germi incubati sotto il protezionismo, il monopolismo, il finanzialismo, il militarismo e l’imperialismo. Questi fattori diventano, in questa fase, i pilastri ideologici accettati nell'armamentario pratico dello statismo.
Essi sono spinti ancora più oltre da nuovi movimenti che sorgono dalle devastazioni morali e materiali della guerra. Questi movimenti politici promettono una rigenerazione totale della società; quello che essi davvero intendono con ciò, è che lo stato, identificato con la società, assuma il controllo totale degli individui.

L'era dello statismo è il tempo in cui gli individui sono incorporati nelle masse e le masse sono sottomesse allo stato. Il liberalismo, l'internazionalismo e il cosmopolitismo risultano, quindi, completamente obliterati.
Le ideologie e i movimenti attraverso i quali lo statismo, in maniera particolarmente acuta, domina la prima metà del 20° secolo sono:

  - il comunismo. Il movimento comunista che prese il potere in Russia nel 1917 avrebbe, nel corso del tempo, portato a perfezione gli aspetti precedentemente elencati e soprattutto quelli del monopolismo (tutto è gestito dallo stato) e dell'imperialismo (i gruppi etnici sono dislocati, sfiancati, annientati). La mentalità da stato di assedio (molto tempo dopo che erano scomparsi i motivi che la giustificavano) e la teorizzazione del "socialismo in un solo paese" sono gli indizi più evidenti del rifiuto dell'internazionalismo e del cosmopolitismo che erano, invece, i segni distintivi dei pensatori comunisti del 19° secolo, condensati nella frase che chiude il manifesto dei comunisti: Proletari di tutti i paesi, unitevi!

  -  il fascismo. L'ideologia del fascismo, come pure il suo capo, sono entrambi una chiara derivazione dal socialismo. Un socialismo in cui l'internazionalismo e l'emancipazione individuale sono stati gettati fuori della finestra e sostituiti dal nazionalismo e dal controllo statale. Questo ha prodotto l'autocrazia (dirigismo statale) e l'autarchia (protezionismo statale) con l'eliminazione di tutto ciò che avesse una parvenza di liberalismo e di cosmopolitismo. In Italia, sotto il fascismo, gruppi etnici "stranieri" che vivevano all'interno del territorio controllato dallo stato italiano sono stati o assimilati a forza o invitati ad andarsene (ad es. la popolazione di lingua tedesca nel Sud-Tirolo). Anche la lingua e stata soggetta a un processo di purificazione, nel tentativo di espellere parole "straniere".

  -  il nazional socialismo. L'ideologia e il movimento che, anche nel nome stesso, riflette meglio lo spirito dei tempi è il nazional socialismo. Qui abbiamo una società totalmente chiusa dove la purezza della razza ha una importanza vitale e la mescolanza di individui appartenenti alla comunità mondiale deve essere, non solo evitata, ma anche, in alcuni casi, proibita e punita. Il rifiuto totale dell'internazionalismo e del cosmopolitismo da parte del nazional socialismo appare chiaramente nel tentativo di dominio mondiale, dove ogni cosa è ridotta alla relazione tra il padrone (la razza superiore) e i suoi servi (le razze inferiori). È l'apoteosi del militarismo e dell'imperialismo all'interno di uno spazio politico ed economico totalmente protetto e regolato.

Quello che caratterizza questi tre movimenti è il fatto che essi portano a completa realizzazione le tendenze e le inclinazioni della loro epoca, vale a dire

  -  le istanze anti-liberali (contro l'individualismo)
  -  le istanze anti-capitalistiche (contro l'internazionalismo)
  -  le istanze anti-umanistiche (contro il cosmopolitismo)

Essi rappresentano una fuga dalla libertà e dalla dignità alla ricerca della protezione e della sicurezza. Tutti questi movimenti sono a favore di una società chiusa sotto il controllo e la direzione dello stato. Essi sono stati, nei fatti, i distruttori di ogni seme di globalismo che aveva iniziato a germogliare nel secolo precedente.

 

La ripresa del globalismo: il lento recupero della libertà e della dignità (^)

Alla fine del lungo periodo di Guerre Civili in Europa (1914-1945), la caduta del fascismo e del nazional socialismo hanno segnato la fine, nell'Europa occidentale, della esperienza di stati totalmente dittatoriali.
Con il collasso dello statismo estremo, i cittadini dell'Europa occidentale si ritrovarono liberi dall'abbraccio soffocante dello stato; nonostante ciò, l'individuo era ancora guidato per mano da uomini politici (con intenzioni più o meno benevole).

Infatti gli anni del dopoguerra sono stati un periodo di continua espansione dello stato assistenziale con il suo apparato burocratico per l’amministrazione di servizi sociali.
Sono stati anche gli anni in cui la pianificazione statale nazionale si è imposta con l’obiettivo di indirizzare le energie del paese verso il progresso economico e sociale.
Tutti questi erano propositi buoni e onorevoli. Si potrebbe anche riconoscere che persino i regimi dittatoriali, per quanto riguarda alcuni problemi interni, avevano introdotto alcuni provvedimenti validi e degni di elogio.

Al tempo stesso, occorre sottolineare il fatto che vi è qualcosa di fondamentalmente e intrinsecamente malsano in tutto ciò ed è il fatto che qualsiasi intervento da parte di una istituzione burocratica genera, quasi inevitabilmente, irresponsabilità e inettitudine in tutti coloro che vi sono coinvolti: quelli che ricevono perché sono portati a credere che è un loro legittimo diritto ricevere qualcosa anche in cambio di nulla, e col tempo diventano incapaci di agire in maniera indipendente; coloro che distribuiscono le risorse perché sono portati spesso a sprecarle in quanto non provengono, direttamente o principalmente, dai loro sforzi.

Tutte le istituzioni burocratiche sembrano basate sulla irresponsabilità e sul non dover render conto delle proprie decisioni. Essendo lo stato l'istituzione economica per eccellenza, è lì che l'irresponsabilità e l'incoscienza raggiunge i massimi livelli. Ma nessuna istituzione può sopravvivere per sempre su fondamenta così instabili.

Così, duecento ani dopo che la Rivoluzione Francese (1789) iniziò il processo di porre sul trono lo stato con le sue caratteristiche e i suoi apparati (democrazia rappresentativa, decisioni a maggioranza, burocrazia amministrativa), lo stato ha subito una serie di scosse, di cui le più violenti hanno avuto luogo dove esso era più oppressivo e invadente. La caduta del Muro di Berlino (preludio al collasso dell'Impero Sovietico) e le manifestazioni nella piazza Tien-an-men a Pechino (1989) sono stati solo i segni più evidenti di un cambiamento di atteggiamento nei confronti dello stato e del controllo statale.

Tutti i pilastri dello statismo, alcuni già ridotti in numero e forza, sono stati messi in discussione o addirittura fuori uso da nuove realtà. Soffermiamoci su alcuni punti.

  - Protezionismo. Il mondo del dopoguerra ha visto l'attuazione dell'Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio (GATT) con l'obiettivo di ridurre i dazi e di liberare il commercio dalle restrizioni più assurde. Questo ha contribuito in parte alla ripresa post-bellica e all'espansione delle economie occidentali. Nel 1995 il GATT è diventato il WTO (World Trade Organization - Organizzazione Mondiale del Commercio) con la missione di ridurre ulteriormente le barriere alla libertà di commercio. Ancora una volta si vede il commercio come ai tempi di Richard Cobden, e cioè come il mezzo migliore per promuovere la pace e lo sviluppo.

  -  Monopolismo. Con l'abbassamento delle barriere doganali il monopolismo è in pericolo, in quanto le grandi industrie perdono le loro riserve di caccia, vale a dire il mercato nazionale protetto. Inoltre, parallelamente, nuovi strumenti tecnologici (ad es. Internet) danno ad ogni individuo il potere di comunicare con il mondo intero e di costruire comunità virtuali non soggette ad una realtà territoriale (cioè, lo stato). Per quanto riguarda l'economia, questi strumenti permettono un miglior funzionamento della concorrenza offrendo una quantità notevole di informazione a consumatori isolati nel loro rapporto con produttori ancora potenti, ma non così potenti come una volta.

  -  Finanzialismo. Il secolo 20° è stato caratterizzato da una inflazione pressoché costante (talvolta iperinflazione) dovuta principalmente all'assoggettamento della politica monetaria agli interessi della cerchia statale. Il paese con la moneta più forte (il marco tedesco) nel dopoguerra è stato anche quello con una Banca Centrale indipendente dalle manovre politiche. Con il declino del protezionismo e del monopolismo, l'inflazione non è più una strada percorribile per risolvere i problemi derivanti dalla cattiva gestione politica dell'economia. In Europa, le Banche Centrali (attualmente la Banca Centrale Europea) sono uscite fuori dell'ingerenza statale per concentrare il loro impegno solo sulla gestione della moneta. Il tempo degli speculatori e redditieri finanziari protetti dalle cricche politiche sembra quasi finito.

  -  Militarismo. Il collasso del sistema comunista e la scomparsa dell'Unione Sovietica hanno messo fine al capitolo storico conosciuto sotto il nome di guerra fredda. Questo ha tolto di mezzo la maggior parte delle giustificazioni per le spese militari e per l'accumulo di armi che è stata la pratica comune di quasi tutti gli stati al mondo. Ciò non significa che il militarismo sia finito ma solo che non viene più accettato silenziosamente e implicitamente come in passato. Inoltre, le spese militari sono un peso che, se si accresce troppo, può portare al dissesto qualsiasi stato, come è apparso chiaro dall'esperienza dell'Unione Sovietica.

  -  Imperialismo. L'Asia e l'Africa, i passati campi di battaglia dell'imperialismo, sono cambiate (Asia) e stanno cambiando (Africa). Esse sono entrate o stanno entrando sempre più sulla scena del commercio mondiale da cui sono rimaste fuori o sono state tenute fuori (soprattutto l'Africa). I dittatori che trovavano protezione in una superpotenza (USA, URSS) o in uno stato occidentale (Francia, Regno Unito) hanno perso i loro padrini e non sono più in grado, da soli, di opprimere il popolo come è stato loro possibile per decenni.

Così, uno dopo l'altro, i mali del protezionismo, monopolismo, finanzialismo, militarismo, imperialismo, tutti orchestrati sotto la direzione dello stato e operanti in maniera occulta durante il periodo della guerra fredda, hanno perso/stanno perdendo forza perché lo stato è in ritirata mentre l'individuo che vuole affermare la sua libertà di muoversi, commerciare, comunicare, è in ascesa.

Non dovrebbe quindi giungere come una sorpresa il fatto che, in questo preciso momento storico, quando molti fattori favorevoli convergono verso un possibile superamento dello statismo, le antiche piaghe dell'anti-liberalismo, anti-internazionalismo e anti-cosmopolitismo siano riapparsi sulla scena. Questa volta, almeno, la scritta sui loro striscioni è chiara ed inequivocabile: anti-globalizzazione.

 

Anti-globalizzazione: una nuova moda (^)

L'anti-globalizzazione è una nuova, cioè recente moda politica ma non è un fenomeno nuovo.
Nel corso della storia il cosmopolitismo si è alternato e ha coabitato con l'isolazionismo, il provincialismo e lo sciovinismo.
Se vi sono stati individui come Leibniz, Voltaire, Kant che comunicavano e scambiavano idee con persone in tutta Europa, viaggiando di sovente con la mente e con il corpo, ce ne sono stati molti altri che hanno tenuto la loro mente e il loro corpo ancorati e chiusi in uno spazio ristretto, e il cui pensiero, quando si rivolgeva ad altre comunità vicine, era sempre associato con un senso di disagio o persino di paura.

Nel suo complesso, il cosmopolitismo è più un atteggiamento di dischiudere la mente che il risultato di muovere i passi e cambiare zona, anche se il viaggiare agevola le aperture mentali. Kant, ad esempio, non si è mai mosso da Könisberg ma è stato un vero cosmopolita. Hegel, invece, pur avendo avuto una vita meno sedentaria, può essere visto, in una certa misura, come l'epitome della persona grettamente nazionalistica, con la sua pomposa celebrazione della gloria dello stato prussiano. Nei tempi antichi Epitteto espresse l'idea dell'essere umano come cittadino del mondo; questo atteggiamento cosmopolita, che fonde e trascende sia il localismo che il globalismo, è stato fatto proprio da Johann Wolfgang Goethe con la sua affermazione: "Io sono un cittadino di Weimer, io sono un cittadino del mondo."

Contro questi atteggiamenti e tendenze cosmopolite moderne aventi la loro origine nell'Illuminismo del 17° e 18 secolo, i movimenti nazionalistici emersi nel corso del secolo 19° hanno condotto una lunga battaglia che ha avuto successo portando al dominio, dappertutto, stati nazionali e culture nazionali.
Gli attuali atteggiamenti contro il globalismo sono storicamente legati a quella fonte di nazionalismo e statismo. In altre parole, gli aspetti principali che caratterizzano il movimento anti-globalizzazione dei giorni nostri rappresentano i punti centrali della visione del nazionalismo e dello statismo e poggiano sulle tendenze anti-cosmopolite del passato.

Queste tendenze favorivano la messa in atto, da parte delle élite dominanti degli stati nazionali, di certi ostacoli necessari per introdurre e rafforzare il loro controllo sul territorio e sugli abitanti.  Gli ostacoli riguardavano la:

  -  Circolazione degli individui.  I blocchi principali alla libera circolazione delle persone sono stati l'invenzione del passaporto e l'introduzione di leggi restrittive degli spostamenti tra nazioni [2000, John Torpey]. I passaporti sono stati resi obbligatori per controllare il movimento delle persone, talvolta persino all'interno dello stesso stato. Per quanto riguarda l'ingresso in un altro paese, esaminiamo la situazione in uno tra quelli ritenuti maggiormente aperti, gli Stati Uniti. Già nel 1882, la Legge di Esclusione dei Cinesi aveva proibito il loro accesso per dieci anni. Nel 1904 l'esclusione divenne permanente e nel 1907 essa venne estesa ai cittadini Giapponesi e in seguito ai Coreani. Nel 1917 fu introdotto l'esame per valutare l'alfabetismo in modo da restringere l'immigrazione, escludendo tutti coloro che erano privi di qualsiasi istruzione formale. Infine, nel 1921, la legge sulle Quote di Immigrazione fissò un numero massimo di ingressi nel paese (357.000  individui l'anno), una cifra che venne dimezzata nella seconda legge sulle Quote di Immigrazione del 1924.

  -  Circolazione dei beni.  Negli Stati Uniti, una serie di Leggi Tariffarie (la tariffa McKinley, 1890; la tariffa Dingley, 1897; la tariffa Fordney-McCumber, 1922; la tariffa Hawley-Smoot, 1930) erano state precedute da Leggi Tariffarie in vari stati Europei  (Austria 1874-1875 e successivamente 1881 e 1887; Russia 1877; Spagna, 1877 e 1891; Germania, 1879; Francia, 1881 e 1892; Italia, 1887; Svezia, 1888). L'imposizione di tariffe, restringendo la spinta al progresso tecnico e le opportunità imprenditoriali, danneggiava in realtà la situazione economica di tutti nel complesso. L'incapacità di riconoscere ciò, era alla base di quella inclinazione politica ed economica a favore dell'autarchia che avrebbe dominato la prima metà del secolo 20° e che sarebbe stata responsabile in sommo grado della lunga depressione.

  -  Circolazione delle idee.  Gli ostacoli alla circolazione di individui e beni dovuti al rafforzamento dei confini e dei controlli degli stati nazionali, ha avuto anche un effetto negativo per quanto riguarda la circolazione delle idee. Se consideriamo quanto grande è stato, dopo la seconda guerra mondiale, il contributo degli immigrati nella ripresa delle scienze negli Stati Uniti (fisica, matematica, architettura, psicologia, sociologia, ecc.), ci rendiamo conto di quanto i controlli statali incidano negativamente sulla creazione e diffusione delle idee. Inoltre, il controllo statale dei mezzi di comunicazione e gli sforzi compiuti dallo stato per la formazione di una identità nazionale non sono stati certo fattori che hanno facilitato la libera circolazione e reciproca fertilizzazione di idee provenienti dall'esterno.

È quindi corretto affermare che il clima generale che ha promosso e rafforzato i sentimenti contrari al globalismo ha poggiato sul rifiuto della libertà e sul mancato riconoscimento della dignità di ogni essere umano.

 

Anti-globalizzazione: atteggiamenti e argomenti (^)

Gli atteggiamenti e gli argomenti correnti del movimento anti-globalizzazione assomigliano e rieccheggiano molti temi del passato.
Al tempo stesso, è necessario sottolineare il fatto che il movimento è composto da così tante correnti di pensiero e di intervento che ciò che va bene ad un gruppo può essere anatema per un altro. Di modo che, più che un insieme di idee e di posizioni ben integrate e sviluppate, ciò che appare è una serie di sensazioni e di opzioni non chiaramente definite, tutte presenti al tempo stesso all'interno del movimento.

Comunque sia, tutti coloro che accettano l'etichetta di sostenitori dell'anti-globalizzazione devono essere abbastanza coerenti da riconoscere che essi condividono atteggiamenti mentali caratterizzati dall'opposizione a una o a tutte le seguenti manifestazioni di libertà. In altre parole, essi sono:

  - Contro la libertà di circolazione (segregazionismo nazionale: individui)
Gli anti-globalizzatori sono contro la libertà di circolazione non regolata (vale a dire pesantemente limitata) dallo stato. Secondo loro, lo stato deve avere la sovranità totale sul suo territorio e può decidere chi vi può accedere. Secondo questa visione il mondo è visto come composto da circoli nazionali o, meglio, da gabbie nazionali, in cui l'entrata (e persino l'uscita) è regolata da un potere dominante.
  Le giustificazioni avanzate per sostenere questo segregazionismo a base nazionale sono:
  -  la sicurezza personale: i cosiddetti "stranieri" sono visti, soprattutto (va sottolineato) da persone senza molta cultura, come una minaccia alla sicurezza. Per questo motivo, nel corso della storia, essi sono stati spesso il bersaglio della paura e il capro espiatorio di scoppi di rabbia irrazionale. Non c'è nulla di strano in ciò e sarà probabilmente così fino a quando non smetteremo di chiamare alcuni esseri umani, "stranieri".
  -  la sicurezza sociale: i cosiddetti "stranieri" sono accusati di usare ed abusare dei servizi offerti dallo stato nazionale ai suoi sudditi; per questo motivo essi sono visti come degli intrusi che si stanno appropriando delle risorse che appartengono alle persone del luogo.

  -  Contro la libertà di commercio (protezionismo nazionale: prodotti)
Gli anti-globalizzatori sono contro la libera circolazione dei beni sostenuta da coloro che essi chiamano gli ultra-liberisti. L'argomentazione a sostegno di politiche protezioniste fa riferimento alla:
-  perdita di occupazione nelle regioni di vecchia industrializzazione (imprese mature);
-  promozione dell'occupazione nelle regioni di nuova industrializzazione (imprese nascenti).

  -  Contro la libertà di espressione (isolazionismo nazionale: idee)
Gli anti-globalizzatori sono contro il libero flusso di artefatti culturali e di idee "aliene".  Certamente nessuno di loro ammette apertamente di essere contro la libertà di espressione e di fruizione dell'arte e della cultura mondiali ma questo è il risultato indiretto allorché si chiedono e si applicano provvedimenti per
  -  regolare l'accesso all'informazione e ai programmi di intrattenimento che provengono da altre culture (ad es. tramite quote all'importazione di pellicole cinematografiche)
  -  favorire un'arte nazionale e una industria culturale nazionale (ad es. tramite sussidi statali).
  Tutto ciò in nome della protezione di una identità culturale nazionale.

Queste tre negazioni (parziali) della libertà (di circolazione, di commercio, di espressione) rappresentano atteggiamenti del movimento anti-globalizzazione che non sono sempre sostenuti in maniera consapevole. Il costrutto ideologico del movimento è differenziato in maniera così contraddittoria, passando dal nazionalista sfegatato all'internazionalista acceso, che alcune persone non si riconosceranno in quanto sostenitrici di una o tutte queste negazioni della libertà. Alcuni professeranno persino di essere per l'espansione massima della libertà e per l'abolizione di ogni barriera.

Nonostante ciò, il dato di fatto rimane che facciamo riferimento ad una entità che si qualifica come movimento anti-globalizzazione e chiunque accetti quell'appellativo deve inevitabilmente accogliere anche tutti i risvolti di significati attinenti a quella etichetta. Solo Humpty Dumpty può farla franca dando alle parole il significato che più gli aggrada [1871, Lewis Carroll]. Ma noi non siamo Alice e non ci troviamo nel Paese delle Meraviglie.

 

Anti-globalizzazione: bersagli e slogan (^)

Il movimento anti-globalizzazione ha alcuni bersagli chiaramente identificati. ècostituito dalle società multinazionali contro le quali si indirizzano la maggior parte delle critiche che si sono cristallizzate in una serie di affermazioni divenute quasi slogan.
I punti centrali di alcune di queste affermazioni saranno ora elencati per essere successivamente esaminati in maniera più precisa.
Molte argomentazioni hanno costituito cavalli di battaglia del movimento anti-capitalista e hanno trovato una nuova vitalità attraverso gli anti-globalizzatori.

Per quanto riguarda le multinazionali, i peccati o gli aspetti negativi rinfacciati loro sono, in breve, il fatto che queste imprese:
  -  puntano alla massimizzazione del profitto;
  -  si insediano là dove i salari sono più bassi;
  -  utilizzano bambini e donne nella produzione;
  -  distruggono l'ambiente attraverso le loro pratiche produttive;
  -  annullano le identità culturali;
  -  sono molto più potenti di molti stati nazionali.

Un secondo bersaglio è identificato nelle Organizzazioni Internazionali (la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio) che si dice promuovano politiche di libero commercio e di equilibrio del bilancio statale. Secondo il movimento, proprio queste politiche
  -  caricano un peso intollerabile sulle spalle dei poveri (accrescendo i debiti, spingendo verso una riduzione delle spese sociali, ecc.);
  -  allargano il divario tra ricchi e poveri.

A una primo impatto tutti questi sembrano deplorevoli misfatti contro cui occorre mobilitarsi, lottando per la loro scomparsa e per la riparazione di ogni torto.
Prima di passare all'azione è però necessario analizzare, con senso critico
  -  la ragionevolezza di alcune accuse;
  -  le prove a sostegno di alcune accuse.

Solo dopo aver compiuto ciò possiamo avere una immagine chiara della realtà non invalidata da miti, mistificazioni, omissioni. Solo alla fine di un tale esame possiamo prendere nuovamente in considerazione gli atteggiamenti e gli argomenti del movimento anti-globalizzazione per vedere se essi rappresentano una analisi veritiera e sensata della situazione.

 

I miti del movimento anti-globalizzazione (^)

Il movimento anti-globalizzazione ha costruito il suo nome e le sue fortune attraverso l'invenzione e la diffusione di alcuni miti che vengono ripetuti di sovente, sono creduti da molte persone, ma nonostante ciò rimangono pur sempre gonfiate ed evidenti distorsioni della realtà. Essi fanno riferimento a:

  - L'esistenza di un libero mercato. In un mondo composto da stati e super-stati, ognuno impegnato a proteggere la sua area economica con tariffe; dove i paesi ricchi spendono ogni giorno 1 miliardo di dollari in sovvenzioni all'agricoltura; dove alcune zone sono quasi totalmente escluse dal commercio a causa di ostacoli burocratici imposti dallo stato; dove la saga ricorrente delle riduzioni tariffarie è intrecciata con l'introduzione di nuove tariffe (sull'acciaio, sulle scarpe, sui tessili, sulla pasta, sulle automobili, ecc.), il diffondere l'idea dell'esistenza di un mercato internazionale libero non è solo propaganda ma è puro e semplice inganno (o auto-inganno). Inoltre, insistere sulla convinzione che viviamo in un mondo dove si attua il libero commercio equivale a prendere in giro in maniera crudele i produttori dei paesi in via di sviluppo considerato che i dazi sui beni manifatturieri imposti sulle loro economie da parte del mondo industrializzato sono quattro volte più elevati dei dazi su prodotti equivalenti che provengono da altri paesi industrializzati [1999, Thomas Hertel e Will Martin].

  -  Le posizioni ultra-liberiste del potere statale. L'utilizzare la parola liberale (nel suo significato originario di essere a favore della libertà) in relazione allo stato è, per dirla in maniera eufemistica, un infortunio linguistico.  Lo stato è una organizzazione di dominio e di controllo in cui si annidano, per lo più, atteggiamenti estremamente illiberali. Una certa apertura mostrata recentemente verso altri stati deriva dalla pura necessità di far fronte a nuove tecnologie e di difendersi dalle minacce alla sua sopravvivenza rappresentate da nuovi desideri e nuovi poteri. Questo non dovrebbe nascondere il fatto che i maggiori ostacoli alla liberalizzazione (libertà di circolazione, di commercio, di espressione) sono venuti e probabilmente continueranno a venire dalle élite statali. Per cui, parlare di ultra-liberalismo facendo riferimento al potere statale è una assurdità completa e totale. La libertà sta avanzando contro e nonostante lo stato.

  -  Il potere delle organizzazioni internazionali. Nonostante il fatto che lo stato nazionale sia in declino, esso è ancora la fonte della maggior parte delle manifestazioni di potere. Le organizzazioni internazionali sono composte da rappresentanti designati dagli stati nazionali; le decisioni prese dalle organizzazioni internazionali sono attuate dagli stati nazionali solo se i parlamenti nazionali le ratificano. Persino un piccolo stato può andare avanti a lungo disattendendo risoluzioni internazionali; se uno stato incontra problemi essi provengono generalmente da un altro stato come risultato di una guerra tra due poteri sovrani. Le organizzazioni economiche internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale) si basano strettamente sul potere statale e prestano risorse finanziarie ad altri stati che, in molti casi, le hanno sperperate o sono venuti meno alla restituzione senza che l'organizzazione internazionale potesse fare altro che provvedere con un nuovo prestito. Per tutte queste ragioni, parlare di organizzazioni internazionali come entità autonome potenti è anch'esso un mito vuoto, e senza sostanza.

  -  Il potere delle compagnie multinazionali. L'idea che le multinazionali siano libere di muoversi sulla faccia della terra, installandosi dove fa loro comodo, commerciando in base a regole da loro imposte; tutto ciò rappresenta invenzioni mitiche che non reggono neppure ad una analisi superficiale. Innanzitutto, in molti paesi gli investimenti stranieri sono stati a lungo proibiti o sono ancora regolati in maniera stretta. [2001, Johan Norberg]. Le cosiddette società globali sono soggette a leggi nazionali il che significa talvolta il dover presentare il proprio caso davanti ai governi nazionali (cioè versare tangenti) solo per poter sopravvivere e operare. In secondo luogo, le attività delle compagnie multinazionali sono sottoposte a uno scrutinio continuo da parte di investitori (per individuare i rischi economici) e attivisti (per individuare danni sociali). Un boicottaggio (vedi il caso della Shell) ha un impatto quasi immediato nel far cambiare posizioni; questo non è il caso per gli stati nazionali. La ragione è semplice: ci vogliono anni perché una grande compagnia costruisca la sua reputazione ma ci vuole poco per distruggerla qualora agisca in maniera da compromettere la sua rispettabilità sociale e affidabilità economica. Lo stato invece, non ha di questi problemi. Ne segue che la presunta potenza delle multinazionali è, in molti casi, solo una costruzione dell'immaginario collettivo. Senza l'appoggio monopolistico dello stato esse hanno potere, nel loro specifico ambito commerciale, solo grazie al favore dei consumatori. Niente di più e niente di meno.
 

Le mistificazioni del movimento anti-globalizzazione (^)

Nella sua lotta contro la globalizzazione, il movimento utilizza anche argomentazioni che mistificano i problemi in discussione nel senso che, con un impiego ad arte di parole e di espressioni, fa apparire totalmente sbagliato e riprovevole quello che è, in realtà, largamente accettabile e ragionevole.
Questo è evidente soprattutto negli accuse rivolte alle compagnie multinazionali. Esaminiamo alcune di queste argomentazioni:

  - Massimizzazione dei profitti. Nella vita di ogni giorno, le decisioni di natura economica consapevolmente prese dalle persone sono dirette verso la massimizzazione dei benefici, ad esempio quando si vende o si compra qualcosa. Chiaramente, noi non siamo solo delle macchine economiche calcolatrici, ma quando si tratta di transazioni economiche agiamo (o sarebbe consigliabile agire) in tal modo. Comperare al prezzo più alto e vendere a quello più basso può essere un comportamento caritatevole da promuovere ma non è un modo di agire economico. Perciò, rimproverare ad una impresa, unità economica per eccellenza, di comportarsi in una maniera che è propria dell'agire economico sembra qualcosa privo di ogni giustificazione. L'associazione emotivamente ingannevole di parole magiche  (multinazionale-profitto-massimizzazione) fa apparire un crimine quello che è nella natura delle cose. Sarebbe molto meglio se si passasse al setaccio da dove derivano i profitti, se dalla vendita di burro o di bombe. Questo è il vero problema.
  Approfondendo ulteriormente il tema, è necessario sottolineare il fatto che la massimizzazione del profitto è assunta come un dato scontato. Nella realtà, questo non è qualcosa che può essere sempre conseguito, poste le restrizioni che si frappongono al raggiungimento di quell'obiettivo. Per citarne solo alcune: il comportamento di altri individui che perseguono lo stesso obiettivo, i rischi e le incertezze che fanno parte di ogni impresa economica, le doti di creatività e di forza di volontà necessarie solo per operare senza affondare, e così via. A motivo di tutto ciò, una unità economica (ad es. una grande impresa) mira di sovente a massimizzare la sicurezza piuttosto che il profitto. In generale, una società presente da tempo sulla scena economica si propone di conseguire profitti nel lungo periodo (vale a dire, un flusso continuo e regolare di profitti) piuttosto che il massimo profitto possibile nel breve termine.
  Nonostante ciò, questa idea della massimizzazione dei profitti, anche se non corrisponde alla realtà, sopravvive come un potente strumento propagandistico. Essa evoca emozioni profonde di rigetto in quanto è stata associata a uno sfruttamento straordinario dei lavoratori, tenuti quasi in una condizione di schiavitù. Tuttavia, se qualcuno ha un minimo di conoscenza storica dovrebbe sapere che la schiavitù non portava affatto alla massimizzazione dei guadagni data la bassa produttività e l'incuria nel lavoro da parte di moltissimi schiavi. Lo stesso è stato vero per il lavoro forzato o, più recentemente, nei casi in cui il lavoratore odia e disprezza totalmente il suo lavoro. I movimenti delle "relazioni umane" e delle "risorse umane" hanno mostrato, con abbondanza di dati, che gli individui hanno bisogno di essere motivati e soddisfatti per essere altamente produttivi (in termine di merci prodotte e quindi di profitti). Un semplice sfruttamento può apparire come una spiegazione semplice di un buon profitto, ma è solo un dato esplicativo molto sciocco e fuorviante.

  -  Minimizzazione dei costi del lavoro. Le compagnie multinazionali sono accusate di impiantarsi dove i salari sono più bassi. Questa è una affermazione che ha bisogno di essere precisata in quanto, in sé e per sé, non sta in piedi. Se fosse vera avremmo risolto, da molto tempo, la maggior parte dei problemi derivanti dalla mancata industrializzazione di molti paesi.
  In teoria, una impresa lasciata operare senza allettamenti o restrizioni di sorta, ha interesse a installare la sua produzione in quelle aree dove, presi in conto tutti i costi di trasporto (materie prime, beni finiti) la produttività dei lavoratori (vale a dire, la relazione tra valore monetario della produzione e costi monetari del lavoro) è più elevata.
  Individui senza alcuna capacità produttiva o privi di un comportamento lavorativo regolare, o che vivono in luoghi dove mancano infrastrutture, dove non vi è sicurezza per le persone e per i beni, in altre parole, situazioni di produttività molto bassa e di rischio molto elevato non attraggono nessuna impresa anche se i salari sono di fame o i più bassi in assoluto dell'intero pianeta.
  Inoltre, anche quando e dove questo trasferimento di alcune produzioni verso zone meno congestionate avrebbe un senso dal punto di vista sociale ed economico, esso non ha luogo in maniera diffusa come si pretende, essendo ostacolato da potenti interessi acquisiti sia nel cosiddetto centro (ad esempio, proteggendo l'occupazione corrente attraverso sussidi all'industria nazionale) sia nella periferia (ad esempio, ponendo ostacoli agli investimenti in quanto le élite locali hanno paura dei cambiamenti sociali che potrebbero scaturire dall'industrializzazione).
  Per questi motivi, l'affermazione che le multinazionali trasferiscono la loro produzione dove i salari sono più bassi fa parte soltanto della propaganda nazionalista più becera.  Comunque, anche assumendo che le multinazionali si installino dove i salari sono più bassi (non i più bassi), questo dovrebbe essere ritenuto un aspetto positivo del loro comportamento e non certo una azione riprovevole. Tale comportamento delle multinazionali (che sfortunatamente non corrisponde spesso alla realtà) non dovrebbe essere nient'affatto oggetto di critica per varie ragioni:
  -  ragioni morali. Il trasferire la produzione verso aree in cui i salari sono più bassi dovrebbe essere considerato una maniera meritoria e progressista di espandere l'industrializzazione (posto che siamo a favore di ciò) e di migliorare il livello economico di vita nelle regioni arretrate.
  -  ragioni sociali. Il trasferimento di alcune produzioni da luoghi altamente congestionati a regioni a basso tasso di industrializzazione rende possibile una rigenerazione sociale di entrambe le aree, dal punto di vista naturale e culturale.
  -  ragioni economiche. Il trasferire la produzione dove i costi salariali sono più bassi (in presenza di un livello comparativamente accettabile di produttività) significa che, a causa della diminuzione dei costi di produzione associata a una concorrenza universale, i consumatori a basso reddito ovunque nel mondo possono permettersi di acquistare beni che erano una volta riservati alle persone ricche o ai ceti medi.

  -  Impiego di donne e bambini nelle fabbriche. L'impiego di donne e bambini nelle fabbriche richiama, ancora una volta, le immagini del peggiore sfruttamento della Rivoluzione Industriale e appare come un fenomeno che non può essere difeso sotto nessun punto di vista. Almeno fino a quando esaminiamo il problema un po' più a fondo, iniziando dalla situazione di molte donne e bambini nei paesi sottosviluppati.
  In quei paesi vi sono ragazzi che vivono per strada, mendicando o facendo qualsiasi cosa per sopravvivere; vi sono donne che lavorano duramente nei campi; sono esse che mantengono la famiglia, sfruttate dalla cerchia dei congiunti e specialmente dagli uomini. In presenza di queste situazioni, trovare lavoro in una multinazionale,  dove i salari sono generalmente più elevati che altrove, sarebbe la realizzazione di un sogno, un primo poderoso passo verso l'emancipazione e la riappropriazione di autonomia. Purtroppo, l'idea di abbandonare il villaggio rurale per andare a lavorare in una fabbrica distante molte miglia viene presentata alle donne come un tradimento delle usanze familiari e delle necessità della famiglia stessa, abituata a subordinare la libertà dell'individuo alle esigenze del gruppo. Per questo motivo ogni sorta di dicerie e di bugie vengono diffuse all'indirizzo di quelle ragazze che lavorano al di fuori del cerchio ristretto (della famiglia, del vicinato); si mormora persino che esse si siano date alla prostituzione. [2001, Johan Norberg].
  Una posizione simile, solo meglio presentata, è sostenuta da molti critici della globalizzazione che nei loro scritti [vedi 2000, Naomi Klein] si lamentano del fatto che le imprese attraggono le donne dai loro villaggi o che molti minori sono occupati in fabbriche dappertutto nel mondo. Questa posizione apparentemente umanitaria ha portato, ad esempio, il Congresso Americano a minacciare di sospendere le importazioni dai paesi in cui vi erano fabbriche che utilizzavano il lavoro minorile. Il risultato è stata la cacciata dal posto di lavoro di migliaia di ragazzi che lavoravano nell'industria tessile del Bangla Desh e nell'industria dei tappeti del Nepal [2001, Johan Norberg]. Oppure, ha spinto il Governo Francese, in occasione della Coppa del Mondo di Calcio del 1998 a mettere al bando palloni prodotti in Pakistan dove si impiegava il lavoro dei minori. In questi e altri casi, la maggior parte dei ragazzi si è data successivamente alla prostituzione, all'accattonaggio e al furto, mentre alcuni sono rimasti nascosti a compiere lavori peggio pagati in condizioni ancora peggiori  [2001, Tomas Larsson]. Tutto ciò grazie all'impulso "umanitario" di burocrati e politicanti occidentali ben pasciuti dietro la spinta di protestatari molto superficiali e molto ignoranti. Per definire tutto ciò non vi è migliore espressione che il vecchio detto: "la strada che porta all'inferno è lastricata di buone intenzioni."
  Chiaramente, celati dietro motivi umanitari, vi sono, molto spesso, ragioni mercantilistiche di protezione dei produttori nazionali e del mercato interno. Se politicanti e anti-globalizzatori avessero davvero a cura la condizione umana e non fossero mossi dalla loro base elettorale o dalle loro false e narcisistiche spinte umanitarie, essi scoprirebbero che, laddove il commercio è stato liberalizzato, il lavoro minorile è diminuito in quanto i produttori sono riusciti a collocare le loro produzioni nell'ambito di un mercato più esteso ottenendo guadagni più elevati e potendo offrire, al tempo stesso, migliori salari ad una manodopera adulta. [2002, Dexter Samida]

  -  Essere più potenti di molti stati nazionali. Questa idea deriva dal fatto che il bilancio di alcune multinazionali è più grande di quello di alcuni stati nazionali. Ma questo non dice molto riguardo all'ammontare di potere che si ha e che si esercita a meno che non si cada nella trappola sciocca di identificare il potere con il denaro. Se ciò fosse vero, la persona più ricca al mondo sarebbe anche la più potente. Se abbiamo una conoscenza anche solo superficiale della storia, questa appare come una scempiaggine colossale se solo si riflette alla sorte dei ricchi Ebrei, cacciati via o mandati nelle camere a gas da un ex-pittore fallito e squattrinato divenuto uomo politico.
  La verità è che le multinazionali non sono libere di investire in qualsiasi paese anche se lo volessero (ancora nel 1998, investimenti diretti da parte di stranieri erano proibiti in 131 su 161 paesi in via di sviluppo) [2001, Johan Norberg]; dove esse possono operare lo fanno con il rischio di essere espropriate dagli stati nazionali come è accaduto non di rado negli anni'60 e '70; esse devono attenersi alle regole burocratiche (spesso senza senso) fissate dagli stati nazionali e, ciò che è più importante, devono accattivarsi il favore degli uomini politici al potere, vale a dire distribuire mazzette anche solo per condurre la loro attività senza troppi ostacoli. Non c'è quindi da stupirsi del fatto che non vi sia una corsa a installarsi in molti stati in quanto i costi probabili potrebbero superare i possibili profitti.
  Ad ogni modo, l'assunzione implicita più importante contenuta in questa affermazione è che le multinazionali non sono gestite da dirigenti eletti democraticamente mentre ciò avviene in molti stati nazionali. Questa argomentazione formalistica non coglie affatto il punto centrale per quanto riguarda il controllo e l'influenza esercitata dalle persone coinvolte.
  Nei confronti di una multinazionale i consumatori  possono esercitare, ogni giorno, un certo potere attraverso le loro scelte di acquisto. Questo è vero soprattutto se il marchio della multinazionale è chiaramente distinguibile e quindi anche facile oggetto di decisione. Gli stessi consumatori in quanto elettori hanno, al contrario, solo la possibilità di designare i loro padroni una volta ogni 4-5 anni.
  Inoltre, se questi consumatori come attivisti sociali sono contro la politica di una multinazionale, un boicottaggio ben concertato porta risultati nel giro di giorni o settimane. Invece, quando viene dichiarato un embargo nei confronti di un paese, le persone possono invecchiare senza vedere risultati o meglio, i risultati paradossali sono di dare più forza alla cricca al potere che può arricchirsi con il contrabbando praticando prezzi esorbitanti per beni scarsi.

Nel complesso, molte accuse contro le compagnie multinazionali sono solo fumo che annebbia la vista e i cervelli; esse non vanno al cuore del problema che è quello di accertare se queste imprese sono:
  -  monopolistiche (impedendo la concorrenza, poggiando sul protezionismo statale)
  -  antisociali (effettuando produzioni inutili o dannose)
  -  inquinanti (scaricando sostanze tossiche nell'ambiente).
È contro queste imprese MAI (monopolistiche, antisociali, inquinanti), siano esse locali, nazionali o multinazionali, che l'attenzione e la lotta di ognuno dovrebbe focalizzarsi fino a quando esse non siano mai più presenti sulla faccia della terra.

 

Le omissioni del movimento anti-globalizzazione (^)

Oltre i miti e le mistificazioni, vi sono anche strane omissioni da parte émostrano, ancora una volta, le tendenze (mercantilismo) e le inclinazioni (pro-statismo) illiberali del movimento.
Le società multinazionali e le organizzazioni internazionali sono accusate di spingere verso una politica di libero scambio. Le conseguenze, secondo il movimento anti-globalizzazione, sono le seguenti:

  - Allargare il divario tra ricchi e poveri. Il problema riguardante questa accusa, anche se risultasse vera, è che passa sotto silenzio l'aspetto centrale che è quello di vedere se il libero scambio migliora le condizioni di tutti e soprattutto quelle dei più poveri. Il problema non è quello di accertare se i ricchi diventano ancora più ricchi ma se i poveri stanno migliorando la loro condizione e stanno uscendo dal loro stato di povertà. In maniera paradossale, la logica degli anti-globalizzatori basata sull'invidia potrebbe portare ad accettare una situazione che si deteriora per tutti, posto che il divario si riduca. Quello che essi implicitamente e paradossalmente accetterebbero è una corsa verso il peggioramento delle condizioni generali che è il modo più sicuro e più semplice per ridurre il divario.
Chiarito questo aspetto sotto il profilo teorico, è necessario insistere sul fatto che, in realtà, le politiche di liberalizzazione introdotte alla fine del secolo 20° hanno permesso a milioni di individui, soprattutto in Asia (Cina, India, Corea del sud, Singapore, ecc.) di lasciare alle spalle la povertà e di intraprendere un cammino di progresso sociale e di emancipazione economica [2001, Johan Norberg]. A questo proposito, mentre il sogno Maoista di rendere quasi ogni villaggio autosufficiente nella produzione di acciaio ha dato come risultati una dissipazione colossale di energie, uno spreco di risorse, carestie, e la morte per fame di 30 milioni di persone tra il 1958 e il 1961, il processo di liberalizzazione iniziato nel 1978 ha portato alla moltiplicazione degli scambi e ha permesso ai contadini Cinesi di raddoppiare il loro reddito nel corso di 6 anni. Il primo esperimento può aver ridotto (o persino abolito) il divario tra ricchi e poveri perché i più indigenti sono morti e ognuno ha visto peggiorare la propria condizione; il secondo può aver accresciuto il divario ma ciò non ha alcun rilievo per nessuno tranne che per menti invidiose e malsane.

  -  Distruggere l'ambiente. L'accusa che alcune industrie multinazionali inquinano l'ambiente (vera in alcuni casi) dovrebbe essere più appropriatamente rivolta agli stati nazionali che sono incaricati di proteggere l'ambiente. In realtà, gli stati nazionali sono i maggiori responsabili dei guasti ambientali in quanto:
  -  inquinatori diretti: ne fa testimonianza la situazione nella ex Unione Sovietica o in molti paesi sottosviluppati in cui i maggiori soggetti inquinanti sono le imprese di proprietà dello stato o controllate dallo stato.
  -  protettori di inquinatori: i produttori possono inquinare solo grazie a leggi statali (o alla non applicazione da parte dello stato di protocolli internazionali), a concessioni statali, a diritti statali di sfruttamento, a licenze commerciali garantite dallo stato.
  Contrariamente a quanto ritengono taluni anti-globalizzatori, alcune ricerche hanno mostrato che, in generale, le società multinazionali sono maggiormente rispettose degli standard ecologici in confronto alle imprese locali, a causa di fattori di immagine internazionale e per via delle loro pratiche produttive più moderne [2000, David Wheeler].

  -  Caricare un peso intollerabile sulle spalle dei più poveri (pagamenti del debito, tagli nelle spese statali, ecc.). Un aspetto strano in tutti i discorsi del movimento anti-globalizzazione è che le politiche degli stati dei paesi arretrati sono raramente messe in discussione o vengono menzionate solo incidentalmente quando si parla di debiti accumulati. Il prendere denaro in prestito in quantità eccessiva e il susseguente spreco di risorse finanziarie sono fattori quasi completamente ignorati mentre il discorso viene focalizzato sul peso degli interessi e sulle condizioni imposte per ottenere ulteriori prestiti. L'immagine che ne deriva distrae l'attenzione dal problema reale che consiste nel fatto che le élite politiche sia nei paesi industrializzati che in quelli arretrati hanno utilizzato i soldi della gente per sostenersi gli uni gli altri e per perpetuare situazioni di alienazione, corruzione, oppressione.
  Inoltre, ciò che è stranamente omesso è il fatto che i 41 paesi più indebitati ricevono in aiuto finanziario più di quanto essi paghino per interessi sul debito [2000, World Bank]. Questo significa che l'interesse è totalmente coperto dai donatori.
  Infine, una larga fetta di spese statali in paesi molto arretrati dominati da regimi illiberali serve per mantenere l'esercito, la burocrazia, l'élite politica. Per cui, tagli nelle spese statali non significa gran ché in riferimento a investimenti sociali in quanto essi o erano quasi inesistenti o potrebbero essere ancora finanziati attraverso il bilancio statale se gli strati parassitari venissero messi da parte e gli sprechi fossero aboliti. [2002, Brink Lindsey]

  -  Cancellare le identità culturali. La cosiddetta omogeneizzazione delle identità culturali (o imperialismo culturale o americanizzazione) è un fenomeno che è:
  -  erroneamente presunto. Sostenere l'idea che esiste una cultura occidentale omogenea e che acquistare beni o vedere pellicole cinematografiche prodotte in occidente occidentalizzi una persona equivarrebbe a credere che esista una cultura Indiana omogenea e che se continuiamo a frequentare un ristorante indiano o a comprare prodotti indiani diventeremo perfetti indiani. Sfortunatamente la mente umana non è così flessibile da permettere alle persone di cambiare pelle così facilmente. Inoltre, la gente può avere gusti in comune senza essere o diventare l'uno la copia dell'altro.
  -  erroneamente esagerato. La dinamica tra cultura locale e altre espressioni culturali provenienti dall'esterno è molto più complessa di quanto assunto in maniera semplicista dai critici della globalizzazione. I produttori e i distributori internazionali di beni e di servizi sono consapevoli di ciò e per questo essi cercano di adattarsi alle culture locali. Oltre a ciò, le persone stesse riadattano i beni e i messaggi del produttore globale ai loro specifici gusti e bisogni. È questo un processo di creolizzazione che è stato presente in tutti i tempi e in tutti i luoghi [vedi 2000, John Beynon e David Dunkerley eds., Parte B: Globalization and Culture]
  -  erroneamente attaccato. Le identità culturali che sono minacciate di scomparsa attraverso un flusso globale di messaggi culturali sono, nella maggior parte dei casi, identità nazionali inventate che sono state fabbricate e di sovente imposte dagli stati nazionali. La loro estinzione è un processo salutare perché potrebbe permettere il riemergere di culture locali all'interno di una esperienza globale, come dovrebbe essere sempre stato nel villaggio globale del pianeta terra.
  Nel complesso, l'unità e la varietà delle culture umane si rafforzano attraverso la libertà di scambi e il libero flusso di messaggi.  Pluralità culturali universali in sintonia tra di loro costituiscono una realtà molto più desiderabile che distinte identità nazionali in conflitto.

L'omissione più seria in tutte le notazioni critiche del movimento anti-globalizzazione riguarda un attore il cui ruolo viene stranamente minimizzato e il cui comportamento viene stranamente abbellito. Questo attore è lo stato nazionale.
Anche quando lo stato nazionale sembra sottoposto ad attacco da parte degli anti-globalizzatori è solo un governo specifico che è messo in discussione come se il problema non fosse lo stato in sé stesso (la burocrazia, l'esercito, gli strati parassitari, ecc.) ma un particolare governante.
Questo perché lo stato, nella mente delle persone cosiddette di destra e di sinistra, è ancora considerato la macchina insostituibile e la struttura indispensabile per la vita in società. Il loro convincimento (conscio o inconscio) è che, senza lo stato la civiltà sprofonderebbe e la società cadrebbe a pezzi. L'equazione stato=civiltà=società è così fortemente radicata nel loro cervello che non c'è da sorprendersi del fatto che l'entità "stato" (in quanto forma di organizzazione e di dominio) venga omessa nei loro discorsi come uno dei possibili diretti responsabili del disordine che affligge così tante persone.

In realtà lo stato è ritenuto dal movimento anti-globalizzazione più una vittima dell'avidità delle grandi imprese che non un geniale ingannatore. E questo è molto strano perché anche nei testi di alcuni anti-globalizzatori strane cose appaiono [2000, George Monbiot]. Per esempio, in un luogo abbiamo che lo stato fa il pieno di tasse senza fornire i servizi e lasciando che altri (il cosiddetto settore privato) intervenga e faccia pagare ciò che è già coperto dalle tasse. In un altro luogo abbiamo l'amministrazione municipale che, dopo aver deciso la distruzione di talune aree storiche del centro cittadino, coinvolge il settore privato in questa opera nefasta e ripartisce con esso i profitti. Quasi dappertutto abbiamo lo stato che mette ogni bene all'asta, anche l'aria pulita, e al tempo stesso, fa apparire sé stesso come la vittima anche quando è il solo vero colpevole.

 

I buoni temi del movimento anti-globalizzazione (^)

Nonostante miti, mistificazioni e omissioni, non tutto nel campo anti-globalizzazione dovrebbe essere trattato con disdegno. Vi sono aspetti affrontati dal movimento
In generale essi sono temi di cui si occupano anche altri movimenti che non si definiscono anti-globalizzazione. Detto questo, è pur sempre meritorio che alcuni settori del movimento anti-globalizzazione abbiano unito la loro voce, in particolare prendendo posizione per:
  -  la protezione dell'ambiente
  -  il miglioramento delle condizioni lavorative
  -  la libertà di espressione e di movimento.
In questo saggio, la critica nei confronti del movimento anti-globalizzazione non si indirizza di certo contro queste posizioni. Infatti, esse non portano minimamente al rifiuto del globalismo ma al suo esatto opposto. Ciononostante, talvolta esse sono prese a pretesto per introdurre il protezionismo, assicurare il monopolismo e sostenere il parassitismo.
Questo è, ad esempio, il caso se esaminiamo alcune proposte avanzate dal movimento anti-globalizzazione che potrebbero apparire molto sensibili e sensate ma solo ad una analisi molto superficiale.

 

I cattivi rimedi del movimento anti-globalizzazione (^)

Alcune componenti del movimento anti-globalizzazione sostengono una serie di obiettivi e di misure che, a loro avviso, correggerebbero gli squilibri del potere e della ricchezza favorendo i paesi più deboli e più poveri. I provvedimenti principali fanno riferimento ai seguenti punti:
  -  il Commercio Equo
  -  la Cancellazione del Debito
  -  la Tobin Tax
Esaminiamo brevemente ognuno di essi per vedere se le proposte avanzate vanno davvero nella direzione giusta di promuovere lo sviluppo personale e sociale.

- il Commercio Equo
  L'espressione "Commercio Equo" è molto attraente e convincente e nulla può essere obiettato se non fosse per il fatto che essa è stata coniata in opposizione al "Commercio Libero". Gli anti-globalizzatori vedono il commercio equo in antitesi al commercio libero, e sono a favore del primo e contro il secondo.
  Il concetto di commercio equo non è nuovo e le sue origini non depongono a vantaggio degli abitanti dei paesi che si ritiene vengano sostenuti dagli anti-globalizzatori.  Nel 1881, alcuni uomini politici e di affari fondarono in Inghilterra la "Fair Trade League" (Lega per il commercio equo) che aveva come programma la introduzione di tariffe a protezione dell'industria britannica contro la competizione proveniente da  potenze industriali emergenti come la Germania e gli Stati Uniti [1951, Keith Hutchinson]. Uno degli esponenti più vociferanti della Lega era Joseph Chamberlain, il sostenitore delle politiche nazionaliste e imperialiste attuate dallo stato inglese verso la fine del secolo 19°.  Egli era a favore di un sistema di tariffe protettive e preferenziali per salvaguardare l'impero contro i beni provenienti da altri paesi, una politica in totale contrasto a quella praticata in precedenza, basata sul libero commercio mondiale.
  Quando l'Inghilterra era una economia in ascesa, il grido di battaglia era "commercio libero" ("free trade"); quando altri paesi stavano emergendo sotto il profilo industriale e la stavano sorpassando, il grido di battaglia si trasformò in "commercio equo" ("fair trade"). Questo slogan non ebbe inizialmente successo ma alla lunga trionfò, considerato che tariffe all'importazione vennero introdotte nel 1932 da un governo presieduto da Neville Chamberlain, figlio di Joseph.
  Quindi, sulla base degli eventi storici, si potrebbe sostenere che "commercio equo" è un eufemismo utilizzato da nazioni di vecchia industrializzazione (invece del più prosaico termine protezionismo) non appena esse vedono un declino relativo della loro supremazia economica; e che il protezionismo è lo strumento sempre ricorrente impiegato dal queste nazioni per (cercare di) mantenere i nuovi paesi emergenti in una posizione subordinata, frenando le loro energie per paura di perdere ricchezze e potere. Non è un caso che lo slogan "commercio equo" è stato prodotto dall'occidente ed è lì che viene ripetuto più spesso che altrove. E ancora, non è un caso che uno dei testi più popolari degli anti-globalizzatori [2000, Naomi Klein] inizia con il lamento per la scomparsa delle industrie di confezionamento di capi di vestiario in un quartiere di Toronto, produzioni che sono state trasferite in paesi meno industrializzati e più competitivi.
  "Commercio equo non commercio libero" è quindi la posizione di quelli che, nei paesi ricchi industrializzati hanno perso energie e creatività e vorrebbero fermare il tempo o ritornare all'epoca quando i loro genitori o nonni erano i detentori del potere e della ricchezza.  Questa posizione è condivisa dalle cleptocrazie e burocrazie nei paesi arretrati, le quali hanno paura che l'industrializzazione, lasciata libera di svilupparsi, rafforzerà e darà fiducia agli individui e li incoraggerà a porre fine alla corruzione e alle costrizioni. Questo potrebbe spiegare perché le attività industriali vengano confinate in zone specifiche (Export Processing Zones) sotto lo stretto controllo del potere statale.
  "Commercio equo è commercio libero" rappresenta la posizione di quelle persone ricche di energia e di creatività, soprattutto donne, le quali, dappertutto nel mondo, stanno lottando per emergere contro tutti gli ostacoli introdotti dalle burocrazie internazionali e dalle cleptocrazie nazionali. Per citare solo un esempio, Nancy Abeid Arahamane, una donna della Mauritania, aveva trovato un importatore tedesco per il formaggio dal latte di cammello prodotto nel suo piccolo caseificio in Nouakchott, Mauritania. Quello che non sapeva era che senza una speciale direttiva del Super Stato Europa, ratificata dai Parlamenti di tutti gli stati dell'unione, essa non poteva esportare il formaggio prodotto dal latte di cammello [11/5/2001, Herald Tribune]. Questo e altri casi (tessili, calzature, biciclette, prodotti agricoli, acciaio, ecc.) costituiscono un atto d'accusa pesante contro le politiche di tutti quegli stati che innalzano barriere commerciali di ogni tipo, sono sostenuti da slogans mistificatori come quello del "commercio equo" e, per pulirsi la coscienza sporca e tenere tutti buoni, si fanno paladini dell'aiuto economico ai paesi arretrati.
E questo ci porta ad un altro cattivo rimedio del movimento anti-globalizzazione.

la Cancellazione del Debito
  Nel corso degli ultimi decenni del 20° secolo il debito di molti paesi arretrati è salito a livelli incredibili e ha quindi spinto all'intervento le istituzioni finanziarie, le rappresentanze politiche, le organizzazioni assistenziali.
  Il ventaglio di provvedimenti proposti va dal dilazionamento del debito, alla sua riduzione, fino alla sua totale cancellazione. Quest'ultima è la posizione assunta, ad esempio, dalla Chiesa Cattolica e da altre confessioni cristiane. Da un punto di vista religioso, e soprattutto da una prospettiva cattolica, questa è una richiesta perfettamente comprensibile in quanto è in linea con l'idea di dare senza ottenere nulla in cambio. E anche se i fondi concessi sono stati impiegati male, l'inclinazione del cattolico è quella di concedere il perdono.
  Per coloro che accettano interamente questa visione di dare e perdonare, sempre e dappertutto, non si può obiettare nulla sul tema della cancellazione del debito. Invece, se l'attenzione è rivolta allo sviluppo, è molto importante vedere se le risorse concesse sono state impiegate bene o sono state sprecate in funzioni parassitarie e in imprese assurde, e se è sensato trasferire/prestare ulteriori risorse e a chi.
  Il problema sorge dal fatto che anche molti anti-globalizzatori che non condividono la visione cattolica di dare e perdonare hanno, nonostante ciò, abbracciato totalmente la causa della cancellazione del debito senza interrogarsi sul ruolo svolto e sui risultati prodotti dall'assistenza finanziaria nella seconda metà del secolo 20°. Se essi avessero gettato anche solo uno sguardo superficiale si sarebbero resi conto che l'assistenza finanziaria ha rappresentato l'ostacolo principale allo sviluppo degli individui nei paesi arretrati. Questa politica ha prodotto risultati nefasti quali:
  -  il sostenere regimi criminali e cricche parassitarie
  -  il distruggere l'autorealizzazione e l'autostima delle persone.
  Per questi motivi, è quasi incredibile scoprire che molti anti-globalizzatori sono non solo a favore della cancellazione del debito (la qual cosa potrebbe essere comprensibile in quanto esso viene pagato anche da coloro che non ne hanno tratto alcun beneficio) ma anche per la continuazione e l'ampliamento dell'aiuto finanziario; e, incredibile ma vero, senza che vengano poste condizioni in termini di risanamento del bilancio statale.
  Questo è come dare un assegno in bianco ad un furfante che dirige un ospizio per orfanelli perché lo utilizzi nel modo che più gli aggrada e con questo ritenere di aver aiutato persone in stato di bisogno.  Il continuare negli aiuti finanziari agli stati rappresenta la strada più sicura per mantenere al potere imbroglioni e ladri, sempre e dappertutto. Infatti, le analisi hanno mostrato una stretta correlazione tra aiuti ricevuti e abusi sociali ed economici. Gli stati più indebitato sono anche quelli con i regimi più corrotti e illiberali [2002, Fraser Institute]. Per cui, se queste tendenze e pratiche continuano a prevalere, il termine aiuto dovrebbe essere preso come un vocabolo che qualifica una dipendenza permanente e un ostacolo certo allo sviluppo. Il fatto che il movimento anti-globalizzazione è determinato a proseguire su questa strada disastrosa è indicato chiaramente da un'altra proposta, e cioè da un altro cattivo rimedio.

la Tobin Tax
  La Tobin Tax, dal nome dell'economista che ne ha suggerito l'idea, è una tassa sulle transazioni finanziarie. Lo scopo è di controllare/ridurre i movimenti speculativi di risorse fianziarie e di far affluire agli stati somme ulteriori da impiegare per lo sviluppo delle regioni arretrate. Ancora una volta intenzioni lodevoli mascherano risultati molto dubbi, per non dire altro. Innanzitutto, non ci dobbiamo attendere che gli stati siano capaci di distinguere tra speculazioni improduttive e investimenti utili; per questo motivo, se futuri flussi di risorse finanziarie trovano conveniente indirizzarsi verso paesi scarsamente industrializzati, la Tobin tax agirà come una imposta sugli investimenti che si dirigono verso quelle regioni che si intende aiutare. In secondo luogo, la tassa richiede elevati livelli di controlli riguardanti qualsiasi transazione internazionale; questo significherebbe il trionfo totale delle burocrazie statali sulle energie imprenditoriali e produttive. Infine, l'idea che i proventi raccolti dagli stati (la stima varia da 10 a 100 miliardi di dollari l'anno) saranno trasferiti ad altri stati che li impiegheranno per promuovere lo sviluppo, è, sulla base delle esperienze precedenti, follia pura. Ci ritroveremmo quindi nella situazione peggiore dove il denaro raccolto sarà usato, in misura anche maggiore del presente, per mantenere al potere governanti dispostici e per tenere buoni soggetti privi di speranza.

Alla fine, le proposte degli anti-globalizzatori realizzerebbero quella "corsa verso l'abisso" ("race to the bottom") che essi imputano alla globalizzazione, ma che giungerebbe invece come risultato delle loro politiche. Questa dinamica diabolica si è già verificata in precedenza, e se continuiamo a dimenticare il passato saremo condannati a ripeterne gli stessi rovinosi errori.

 

I presunti ispiratori del movimento anti-globalizzazione (^)

Il movimento anti-globalizzazione comprende persone con esperienze politiche molto differenti e con situazioni sociali ed economiche molto varie.
Per usare l'ambigua ma ancora largamente diffusa categorizzazione di destra e sinistra, sotto le stesse insegne dell'anti-globalizzazione possiamo trovare persone che vanno dall'estrema destra all'estrema sinistra.
Mentre è facilmente comprensibile il fatto che frange nazionalistiche (la destra) siano contro il globalismo, è difficile accettare che individui che sostengono una visione che è a favore dell'internazionalismo (la sinistra) possano essere contro il globalismo.
Per questo motivo è necessario far riferimento, anche se molto sinteticamente, agli scritti di due dei maggiori esponenti dei movimenti socialista e anarchico per accertarci se le loro idee possono offrire un qualche supporto alle posizioni degli anti-globalizzatori.

- Karl Marx

Se esaminiamo il testo politico più famoso di Marx ed Engels, il Manifesto dei Comunisti, rimaniamo impressionati dalla esaltazione della borghesia industriale come forza originante del commercio mondiale.

  "La borghesia, attraverso lo sfruttamento del mercato mondiale, ha dato un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo in ogni paese. Con gran dispiacere dei Reazionari, ha eliminato la base nazionale su cui l'industria si reggeva. Tutte le industrie di antica data sono state distrutte o vengono quotidianamente distrutte. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civilizzate, industrie che non lavorano più materie prime indigene, ma materie prime provenienti dalle zone più remote; industrie i cui prodotti sono consumati non solo all'interno del paese, ma in ogni parte del globo. Al posto dei vecchi bisogni, soddisfatti dalla produzione del paese, troviamo nuovi bisogni, che richiedono per la loro soddisfazione i prodotti di terre e climi lontani. In luogo dell'antico isolamento locale e nazionale per cui un paese bastava a sé stesso, abbiamo scambi in ogni direzione, una universale interdipendenza tra le nazioni. Questo avviene sia nella produzione materiale che in quella intellettuale. Le creazioni culturali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. L'unilateralità  e la grettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle numerose letterature nazionali e locali sorge una letteratura mondiale." [1848, Karl Marx e Friedrich Engels]

Questa quasi estatica celebrazione del ruolo rivoluzionario della borghesia e questa esaltazione del mercato mondiale deriva dal fatto che, secondo Marx ed Engels, la società post-capitalistica che essi prevedono è il risultato dello sviluppo massimo e della diffusione ovunque nel mondo del modo di produzione capitalistico.
Il progresso inesorabile del capitalismo è considerato la premessa essenziale per il superamento del capitalismo stesso e per la nascita della società socialista. Contro di ciò si pongono, secondo Marx ed Engels, alcune forze reazionarie che sono ritenute, a torto, socialiste, solo perché sono contro la borghesia. Marx ed Engels definiscono questo movimento anti-capitalista e anti-borghese con l'appellativo di socialismo feudale.

"Il socialismo feudale: in parte lamentela, in parte buffonata; a metà strada tra il rimpianto del passato e la paura apocalittica del futuro; talvolta, capace di colpire al cuore la borghesia con la sua critica arguta e incisiva; pur tuttavia, sempre ridicolo nei suoi effetti, a causa della sua totale incapacità di capire il movimento dinamico della storia moderna. L'aristocrazia, per avere un seguito, sventolava come bandiera la sacca del mendicante. Ma la gente, ogniqualvolta si univa ad essi, vedeva sul loro dorso gli antichi stemmi feudali, e li abbandonava con sghignazzi rumorosi e irriverenti." [1848, Karl Marx e Friedrich Engels]

Sfortunatamente Marx ed Engels hanno errato nell'assumere che il mercato mondiale rappresentasse già una realtà scontata e nel ritenere che le classi feudali parassitiche, vale a dire, ai giorni nostri, i politici, i burocrati e le categorie professionali con interessi acquisiti protetti, avessero perso il loro potere. In realtà, essi avevano e tuttora hanno un seguito ed esercitano una notevole influenza. Lo stesso Marx è stato usato e continua ad essere usato per fini che sono in contrasto totale con il suo messaggio originario; questo è stato possibile distorcendo la sua concezione generale, passando sotto silenzio ed eliminando alcune idee scomode.
Per alcuni appartenenti al movimento anti-globalizzazione che si dichiarano marxisti, giungerebbe forse come una sorpresa scioccante apprendere che Marx era a favore di:

  - il libero commercio
"In generale ... il sistema protezionistico è conservatore mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità ... In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario che io [Karl Marx] voto in favore del libero scambio." [1848, Discours sur la question du libre-échange]

  - il lavoro dei bambini
"Dal sistema della fabbrica, come si può seguire nei particolari negli scritti di Robert Owen, è nato il germe dell'educazione dell'avvenire, che collegherà per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro produttivo con l'istruzione e la ginnastica non solo come metodo per aumentare la produzione sociale, ma anche come unico metodo per produrre uomini di pieno e armonico sviluppo". [1867, Karl Marx].
-  "... con una stretta regolamentazione del tempo di lavoro secondo i diversi gruppi di età e con altre misure di salvaguardia dei bambini, una unione precoce del lavoro produttivo con l'istruzione rappresenta uno dei mezzi più potenti per la trasformazione dell'odierna società." [1875, Karl Marx]

la meccanizzazione estesa
Marx ha sostenuto l'introduzione di tutte quelle innovazioni tecnologiche che potevano rendere il lavoro più produttivo, accorciare la giornata lavorativa e sostituire l'essere umano nei compiti più duri e ripetitivi. Questa posizione è riassunta sinteticamente nell'affermazione che "in una società comunista le macchine svolgerebbero un ruolo maggiore che nella società borghese." [1867, Karl Marx]

Queste sono idee che sono state completamente obliterate e, quel che è peggio, attribuite agli oppositori del socialismo e perciò condannate e combattute.
Consapevole delle distorsioni operate nei confronti del suo pensiero da persone che si professavano ardenti marxisti, non è sorprendente il fatto che Marx stesso sembra abbia dichiarato "Io non sono Marxista".
Quello che si può affermare con una certa sicurezza è che gli anti-globalizzatori non sono marxisti, qualsiasi cosa essi possano pensare e proclamare.

 

Piotr Kropotkin

L'anarchico è una persona per la quale i concetti di patria e di stranieri non hanno alcun significato. I confini nazionali e i passaporti nazionali sono, per un anarchico, invenzioni idiote dello stato nazionale, vale a dire prodotti di un racket protezionistico e monopolistico dominato da una banda di farabutti.
Per questo motivo, quando esponenti statali (uomini politici, burocrati, poliziotti, ecc.) denunciano la presenza di elementi anarchici nel movimento anti-globalizzazione essi stanno soltanto utilizzando a vanvera una parola passe-partout che tende a coinvolgere i nemici storici dello stato, ignorando che gli anarchici sono, per definizione e per portato logico, a favore del globalismo (libera circolazione di persone, idee, beni) vedendo in ciò la via più potente per la scomparsa dello stato e la condizione più appropriata e più naturale per lo sviluppo di ogni essere umano.
Per la stessa ragione, qualsiasi persona che si ponga sotto le insegne del movimento anti-globalizzazione dichiarandosi anarchico mostra di non avere la più pallida idea di quello per cui si battono gli anarchici. In questo caso, quell'individuo è una persona estremamente confusa che non sa davvero cosa stia facendo o di cosa stia parlando.
Per rendersi conto di ciò è sufficiente scorrere gli scritti di uno dei più preparati tra gli anarchici: Piotr Kropotkin. La sua concezione dell'organizzazione sociale ha influenzato molte delle menti migliori del 20° secolo (tra queste, Patrick Geddes e Lewis Mumford).
Sulla base dello sviluppo industriale del 19° secolo, Kropotkin, come Marx ed Engels, era (fin troppo) fiducioso che le barriere erano state rimosse. Egli vedeva che

"le industrie di ogni genere si decentrano e si distribuiscono per tutto il globo; e dappertutto una varietà, una integrata varietà, di commerci si sviluppa, al posto della specializzazione." [1906, Piotr Kropotkin]

Per Kropotkin non c'è bisogno di introdurre tariffe per rendere l'industrializzazione possibile. Infatti,

"non avendo il capitale alcuna patria, i capitalisti Tedeschi e Inglesi, accompagnati da ingegneri e sovraintendenti dei loro stessi paesi, hanno introdotto in Russia e in Polonia industrie manifatturiere i cui beni competono per qualità con i migliori prodotti inglesi. Se le dogane venissero abolite domani, le industrie avrebbero tutto da guadagnarci." [1906, Piotr Kropotkin]

Per Kropotkin la diffusione di piccole e medie industrie trova un ostacolo non nei costi tecnici di produzione ma nelle difficoltà della commercializzazione. Egli suggerisce la formazione di piccole cooperative di produttori per la vendita dei loro beni, mentre non condivide affatto l'introduzione di barriere protettive che renderebbero la commercializzazione ancora più difficile per i piccoli produttori, troppo deboli ed isolati per sostenere con successo i loro diritti presso il potere politico.
Egli concepisce uno sviluppo universale che conduce alla formazione di comunità regionali che diventano auto-sufficienti per quanto riguarda i prodotti di base dell'esistenza.

"La tendenza presente dello sviluppo economico nel mondo è ... di indurre sempre più ... ogni regione, presa in senso geografico, a fare affidamento soprattutto sulla produzione sul posto delle necessità principali della vita.  Non di ridurre, sia chiaro, il commercio mondiale: questo può ancora crescere nel complesso; ma limitarlo allo scambio di quello che occorre davvero scambiare e, al tempo stesso, accrescere immensamente lo scambio di novità, di prodotti dell'arte locale o nazionale, delle nuove scoperte e invenzioni, della conoscenza e delle idee." [1899, Piotr Kropotkin]

Queste sono tutte posizioni molto interessanti che non hanno nulla a che vedere con il protezionismo e con il controllo del commercio da parte di una qualsiasi istituzione, e di certo, men che meno da parte dello stato come sostenuto dagli anti-globalizzatori. Non vi è neppure alcuno spazio per la distribuzione di sussidi all'agricoltura. Quello che Kropotkin sottolinea è l'autosufficienza alimentare derivante dalla dinamica della libera produzione e del libero scambio.  Ciò che invece abbiamo attualmente, a seguito dell'intervento "regolatore" dello stato, è la sovrapproduzione di beni alimentari in alcune aree, beni che devono essere conservati, distrutti o venduti sotto costo, danneggiando la coltivazione e la commercializzazione di colture di altre aree. In altre parole, l'esatto opposto di quanto sostenuto da Kropotkin, il tutto grazie all'intervento statale.
Kropotkin è anche a favore della sostituzione del lavoro umano con le macchine.

"In tutti i casi in cui si può ottenere un risparmio di lavoro umano attraverso l'uso di una macchina, la macchina è benvenuta e verrà utilizzata." [1899, Piotr Kropotkin]

Egli sottilinea il fatto che, al tempo stesso

"il lavoro fatto a mano si estenderà molto probabilmente alle rifiniture artistiche di molti oggetti che sono attualmente eseguiti interamente in maniera industriale; ed esso rimarrà sempre un fattore importante nella crescita di migliaia di mestieri freschi e nuovi." [1899, Piotr Kropotkin]

Kropotkin è stato anche il più coerente e intelligente sostenitore dell'unione di lavoro manuale e lavoro intellettuale nell'educazione dei bambini per raggiungere quella che egli chiama "l'éducation intégrale." [1899, Piotr Kropotkin]
Tutte queste sono differenze cruciali tra la prospettiva degli anti-globalizzatori, basata sulla difesa dei controlli statali e dell'intervento statale [vedi soprattutto gli scritti di Susan George] e la visione anarchica che esige la rimozione di tutti gli ostacoli (tranne quelli giustificabili dal punto di vista ecologico) alla diffusione delle industrie e degli scambi e certamente non fa affidamento a qualsivoglia intervento statale.
Quello che si può affermare nuovamente con una certa sicurezza è che gli anti-globalizzatori non sono anarchici, qualsiasi cosa essi possano pensare e proclamare o, meglio, qualsiasi cosa la propaganda degli stati nazionali possa proclamare e voglia far credere.

 

I veri ispiratori del movimento anti-globalizzazione (^)

Le posizioni di due dei maggiori esponenti dei movimenti socialista e anarchico sono quindi in netto contrasto con l'ideologia degli anti-globalizzatori.
Per questo motivo è necessario identificare i veri ispiratori del movimento per evitare qualsiasi ambiguità e incomprensione riguardo ai loro veri fini.
Essendo l'anti-globalizzazione una reazione al liberalismo politico, all’internazionalismo economico e al cosmopolitismo culturale, è necessario guardare in direzione dei critici di queste tendenze per trovare le fonti reali della maggior parte di ciò che viene detto e fatto dal movimento.
Tre personaggi sono qui assunti come rappresentativi del movimento anti-globalizzazione. Con ciò non si vuole suggerire che essi siano gli ispiratori del movimento ma solo che le tesi sostenute dal movimento possono essere fatte risalire a questi protagonisti.
Essi sono:
  -  Ferdinand Lassalle (nazionalismo politico)
  -  Friedrich List (nazionalismo economico)
  -  Johann Gottfried von Herder (nazionalismo culturale)

- Ferdinand Lassalle (nazionalismo politico)
Ferdinand Lassalle è stato uno degli esponenti di punta del movimento dei lavoratori tedeschi verso la metà del secolo 19°.
Il suo pensiero politico è incentrato sull'impotenza dei lavoratori a migliorare in maniera autonoma la loro situazione economica (a causa della "legge ferrea dei salari") e sull'importanza attribuita ad un agente esterno, lo stato, per l'emancipazione della classe lavoratrice.
A motivo del ruolo attribuito allo stato, il socialismo di Lassalle è un socialismo di stampo puramente nazionale. Marx notò questo aspetto quando scrisse: "Lassalle, in contrapposizione al Manifesto dei Comunisti e alle correnti socialiste anteriori, ha concepito il movimento dei lavoratori dal punto di vista più grettamente nazionale." [1875, Karl Marx] In un altro passaggio Marx rimproverò al programma del partito dei Lavoratori Tedeschi (la cui politica si basava sul pensiero del Lassalle) di essere "persino infinitamente più arretrato di quello del partito per il Libero Commercio" [1875, Karl Marx]. In altre parole, secondo Marx, il partito del Libero Commercio ispirato dalla borghesia era molto più avanzato del partito dei Lavoratori Tedeschi basato sul "socialismo" di Lassalle.
In Lassalle, al pari degli anti-globalizzatori dei nostri giorni, troviamo la paura del mercato mondiale accusato di controllare la vita dei lavoratori ("gli operai non possono comprendere come la loro sorte individuale sia condizionata dalla situazione del mercato mondiale.") [1862, Ferdinand Lassalle]. Al contrario, Marx vide nella formazione del mercato mondiale la condizione necessaria per la rivoluzione mondiale che avrebbe reso possibile ai lavoratori di riprendere in mano il controllo della propria esistenza.
Il testo più importante di Lassalle è una confutazione degli scritti di Frédéric Bastiat, un arguto e appassionato sostenitore del libero scambio; in esso troviamo esposta una politica che vede lo stato preposto a sovraintendere alla produzione e alla distribuzione. Per Lassalle il libero scambio universale è la fonte della sovrapproduzione e delle crisi commerciali. Questa è la ragione per cui lo stato deve intervenire.
Nel Programma di Gotha del partito dei Lavoratori tedeschi, che si ispira al pensiero di Lassalle, uno degli obiettivi centrali è l'instaurazione dello "stato libero". Marx metterà totalmente in ridicolo questo fine politico dichiarando esplicitamente: "La libertà consiste nel trasformare lo stato da organo sovrapposto alla società in uno completamente subordinato ad essa, e anche al giorno d'oggi, le forme di stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la 'libertà dello stato'."  [1875, Karl Marx]
In sostanza, due punti principali del programma di Lassalle, il rifiuto del libero commercio e l'accettazione dell'intervento statale, sono sostenuti anche dal movimento contro la globalizzazione, all'interno di una visione che può essere definita, in entrambi i casi, di socialismo nazionale.

Friedrich List (nazionalismo economico)
Friedrich List era un economista autodidatta che si è battuto per l'introduzione di tariffe, sostenendo che questo avrebbe permesso la formazione di industrie in quei paesi (nello specifico, la Germania) che si erano incamminate in ritardo (rispetto all'Inghilterra) sulla strada dell'industrializzazione.
La sua posizione non era affatto quella di un protezionismo generalizzato e permanente. Infatti, egli era a favore dell'abolizione delle barriere doganali tra gli stati tedeschi in modo da costituire un'ampia zona di libero scambio. Inoltre, egli era contrario all'instaurazione di tariffe sui prodotti agricoli. Infine, la protezione accordata alle industrie non doveva durare in maniera indefinita ma solo il tempo (breve) necessario perché si rafforzassero per poter competere su un piano di parità.
Nonostante ciò, il protezionismo industriale è rimasto associato al nome di List e qualsiasi qualificazione ulteriore è svanita.
Vi sono due aspetti del pensiero di List che sono stati accolti da alcune correnti del movimento anti-globalizzazione. Essi sono:

  - La opposizione tra l'economia politica (basata sulla nazione) e l'economia cosmopolita (basata sul mondo nel suo complesso). Questa presunta opposizione tra la nazione e il mondo fa sostenere a List che "ciò che è innocente, utile nel commercio del globo in generale può nuocere ed esser dannoso nel commercio del paese, e viceversa".  [1841, Friedrich List] Le proposte di List sono incentrate espressamente sulla nazione e a vantaggio della crescita della nazione ("il benessere della nazione"; "gli interessi nazionali"), a cui è subordinato ogni aspetto economico. Questo punto è condiviso da molti anti-globalizzatori che sarebbero d'accordo sul fatto che "il governo è non soltanto autorizzato, ma costretto a limitare e a regolare nell'interesse della nazione un commercio in sé stesso  innocente." [1841, Friedrich List]

  -  La protezione delle cosiddette "industrie nascenti". La tesi di List, non sempre presentata in modo coerente, è che le nuove industrie hanno bisogno di barriere protettive per rafforzarsi in modo da essere capaci di competere sul mercato mondiale. Al tempo stesso, egli non è a favore di tariffe durature e, ciò che può sembrare strano, non raccomanda l'introduzione di tariffe protettive elevate per industrie che siano al loro stadio iniziale di esistenza. Egli espressamente afferma: "Quando le manifatture si trovano ancora nello stadio iniziale del loro sviluppo, le tariffe protettive devono essere molto moderate; esse debbono accrescersi a poco a poco, mano a mano che aumentano nel paese i capitali intellettuali e fisici" [1841, Friedrich List]. Infatti, una regione non industrializzata ha bisogno di essere aperta anche per attirare alcune industrie, e non scoraggiarle con barriere di ogni tipo.

Detto ciò, l'immagine che si ricava da interpreti e seguaci e, in alcuni passaggi del testo, da List stesso, è quella di industrie concepite come bambini che hanno bisogno di una estrema protezione alla nascita e fino a quando sono capaci di camminare con le proprie gambe. Questa immagine è molto convincente però è non solo errata ma anche foriera di disastri.
Infatti in molti casi, gli ultimi venuti sulla scena industriale sono stati capaci di imparare dagli esperimenti e dagli errori dei primi arrivati; per questo motivo, industrie che si formano o si stabiliscono in a nuova regione possono introdurre le ultimissime attrezzature tecnologiche senza il bisogno (e il costo) di passare attraverso le varie fasi tecnologiche. Questo fa capire come mai, ad esempio, nazioni di vecchia industrializzazione accusino le nazioni di nuova industrializzazione di vendere sottocosto (dumping). La spiegazione è semplice: le cosiddette industrie nascenti si presentano in vita già ben equipaggiate per competere, senza la zavorra del passato.
Inoltre, dove e quando le industrie sono protette esse sono molto facilmente inclini ad assumere il cattivo vizio di richiedere una protezione continua. L'esperienza del passato mostra che le industrie nascenti protette dallo stato rimangono permanentemente in uno stato di dipendenza infantile. Questa è quasi una legge universale che si applica anche a bambini viziati e iperprotetti. Nel caso dell'industria, la qualifica di nascente è più importante del sostantivo industria; esse sono trattate come bambini che probabilmente non diventeranno mai entità robuste e autonome.
Il nazionalismo economico, basato sul protezionismo statale, ci conduce ad un altro ispiratore del movimento anti-globalizzazione.

Johann Gottfried von Herder (nazionalismo culturale)
Johann Gottfried von Herder è ricordato come una delle prime voci che si è levata a favore delle culture popolari ritenute ciascuna depositaria di caratteristiche specifiche degne di rispetto. Il merito di questa concezione è, purtroppo, ridotto o addirittura cancellato quando essa viene sostenuta in opposizione al cosmopolitismo e in unione con il nazionalismo politico ed economico. In questo caso produce il nazionalismo culturale, vale a dire:
  -  la convinzione dell'esistenza di una cultura nazionale anche quando e dove esistevano solo tradizioni locali.
  -  la richiesta di protezione di queste presunte culture nazionali contro influssi cosiddetti stranieri.
Quello che è avvenuto nei fatti è che da molte espressioni culturali locali, è stata prodotta artificialmente una cultura nazionale attraverso l'imposizione a tutti gli abitanti di un certo territorio, di alcune tradizioni dominanti, lo sradicamento di tutte le altre manifestazioni e l'esclusione dei contributi culturali esterni come se questi fossero germi contagiosi.
Questo processo è evidente soprattutto in relazione alla lingua. Johann Gottlieb Fichte, ad esempio, ha sostenuto nei suoi "Reden an die deutsche Nation" (1807-1808) [Discorsi alla Nazione Tedesca] la tesi che la presenza di vocaboli stranieri in una lingua può corrompere la moralità propria di un popolo. Friedrich Jahn sembra che abbia affermato in un pubblico discorso che "colui che permetteva a sua figlia di imparare il Francese era come se la indirizzasse verso la prostituzione." [1960, Elie Kedourie]
Nel corso della prima metà del secolo 20° queste idee hanno trovato attuazione nelle politiche culturali di molti stati nazionali, non solo quelli dittatoriali come il fascismo e il nazional socialismo, ma anche delle cosiddette repubbliche democratiche come lo stato francese con le sue misure contro le minoranze linguistiche (ad es. i Corsi).
Nella vita contemporanea, sempre con riferimento alla Francia, queste idee sono apparse nelle posizioni politiche dell'allora ministro della cultura, il socialista Jack Lang, con la sua difesa della lingua francese, del cinema francese, della musica francese, e così via.
Gli anti-globalizzatori hanno incorporato nel loro modo di pensare questo aspetto di difesa delle culture nazionali (dato per scontato che qualcosa di simile possa o debba esistere) e di protezione delle identità nazionali (posto che questa sia una causa sensata). Sfortunatamente, la maggior parte di loro non ha afferrato il fatto che
  -  la cultura non è un fenomeno territoriale, limitato da confini nazionali, da tenere protetta contro modifiche "esterne";
  -  la cultura non è un fenomeno statico, ma, al contrario, una realtà in continua trasformazione che non può rimanere la stessa (identidem) se merita il nome stesso di cultura.
Per questi motivi una identità culturale nazionale costituisce una espressione senza senso, oltre ad essere una realtà inesistente che non tiene conto né delle tradizioni locali né degli aspetti globali.

Nel suo complesso, i punti di riferimento del movimento anti-globalizzazione appartengono ad un mondo fatto di stati nazionali. Lo scopo (consapevole o inconsapevole) dei suoi promotori e sostenitori è quindi quello di puntellare lo stato nazionale che è a rischio di scomparsa per l'avanzata del villaggio globale, la qual cosa causerebbe problemi a coloro che hanno privilegi che possono perdere o che hanno semplicemente paura di trovarsi dalla parte dei perdenti.

 

Sentimenti, Figure, Fatti del movimento anti-globalizzazione (^)

Il movimento anti-globalizzazione, come già sottolineato, è molto composito, inclusivo delle più disparate posizioni politiche, tutte unite però, volenti o nolenti, dalla difesa dello stato nazionale (stato assistenziale, stato protezionista, stato territoriale). Per completare questo quadro abbastanza sintetico del movimento è necessario adesso evidenziare alcuni sentimenti, figure e fatti relativi al movimento e allo scenario complessivo in cui le azioni del movimento hanno luogo.

Sentimenti
  I sentimenti sono desunti dalle posizioni tenute da molte persone nel movimento e dal loro modo di ragionare. Molto speso questi sentimenti sarebbero negati apertamente anche qualora venisse chiarito che essi derivano necessariamente dalle posizioni politiche sostenute. Nonostante ciò, fino a quando permangono tali posizioni politiche, rimangono anche (in maniera inconscia) i sentimenti ad esse associati, e cioè:

  - L'invidia. L'insistere sul divario tra ricchi e poveri invece di esaminare a fondo la realtà per vedere se  alcuni poveri (e in questo caso, quali poveri) stanno migliorando la loro situazione, rivela una mentalità basata sull'invidia. Questo è lo stesso gretto sentimento che porta qualcuno a notare che l'erba del vicino è più verde. Tale rilievo è di solito associato alla convinzione che ciò è il risultato di sottili inganni o di sporchi giochi da parte del vicino. Il focalizzare l'attenzione sui ricchi sarebbe più che appropriato qualora la loro ricchezza derivasse dallo sfruttamento dei poveri, ma in tal caso il problema da affrontare sarebbe quello specifico dello sfruttamento. A questo proposito va detto che vi sono molte persone benestanti (ad esempio quelle che vivono nei paesi scandinavi) che hanno costruito il loro benessere contando sulla loro propria energia e creatività. Tutto ciò viene totalmente ignorato nel discorso degli anti-globalizzatori ed è per questo che l'invidia è il termine appropriato per qualificare il sentimento che sta dietro l'argomentazione del divario. L'invidia è aggravata da un altro tratto poco raccomandabile.

  -  L'ingordigia. La situazione personale non è vista in relazione al soddisfacimento di bisogni salutari in maniera appropriata (dal punto di vista quantitativo e qualitativo) ma in relazione al continuo accumulo di ricchezza. Facciamo riferimento, in questo caso, a persone che vivono in paesi ricchi e alle loro lamentele che la globalizzazione li sta rendendo più poveri (meno ricchi) o che sta rallentando la crescita dei loro redditi. Il fattore ingordigia si cela dietro molti discorsi degli anti-globalizzatori ogni qual volta fanno la loro comparsa termini come "de-industrializzazione" o espressioni come "corsa verso il basso" ("race to the bottom"). Alcune persone nei paesi industrializzati hanno paura che il loro accumulo di ricchezze non possa crescere indefinitamente, e questo timore fa sorgere un altro sentimento presente nel movimento.

  -  L'insicurezza. Il movimento anti-globalizzazione è l'espressione più evidente della paura da parte del mondo ricco nei confronti di nuove dinamiche perturbatrici. Quando gli anti-globalizzatori parlano di riduzione delle dimensioni industriali (downsizing) e di delocalizzazione (delocation) essi fanno riferimento a qualcosa che riguarda i paesi ricchi. Questi fenomeni, che possono contribuire alla "ascesa dal basso" delle persone nei paesi arretrati (beni industriali a più buon mercato, migliori opportunità di lavoro) sono visti come una minaccia all'opulenza e alla sicurezza delle vecchie nazioni industrializzate e quindi dei suoi abitanti più o meno ricchi. Se assommiamo tutto ciò con la paura nei confronti dei cosiddetti stranieri che vengono accusati di rubare il lavoro e di modificare il modo di vita della gente del luogo, abbiamo un quadro chiaro della paranoia che colpisce le frange più nazionalistiche del movimento anti-globalizzazione.  Questo atteggiamento di paura si è propagato, volente o nolente, all'intero movimento. Ne è testimonianza l'uso generalizzato, a destra come a sinistra, del termine "clandestino" per designare individui che vengono da paesi extra-Europei e i cui movimenti sono pesantemente limitati.

Questi sentimenti sono stati prodotti e trasmessi da una serie di figure che gravitano principalmente nell'area della politica nazionale.

Figure
  Le figure principali che caratterizzano il movimento anti-globalizzazione sono:

Il giornalista alla ricerca di fatti sensazionali (veri o inventati). Senza il pesante intervento dei mezzi di comunicazione di massa che hanno agito come cassa di risonanza il movimento non avrebbe raggiunto in così breve tempo una posizione di preminenza. Ad esempio, la dimostrazione di Seattle contro l'Organizzazione Mondiale del Commercio è stata una ghiotta occasione per il mondo dell’informazione di massa, in cui i giornalisti parlavano di fotografi che scattavano immagini di cineoperatori che filmavano i dimostranti [vedi Time Magazine, 13 Dicembre 1999]. È stata un caso esemplare della spettacolarizzazione della politica. Nessun movimento ha avuto una tale risonanza globale in così breve tempo come il movimento anti-globalizzazione.

- I personaggi collegati con lo stato. Il movimento, soprattutto negli USA, è stato alimentato da uomini politici (ad es. Ross Perot, Pat Buchanan) e attivisti sindacali preoccupati di una fuga dell'occupazione verso aree meno sviluppate (ad esempio il Messico dopo l'introduzione del Nafta, il North America Free Trade Agreement). In realtà, gli anni '90 hanno visto risultati economici spettacolari degli statunitensi, smentendo apertamente la tesi della "corsa verso il basso". [1999, Michael Cox e Richard Alm]. Comunque, è vero che industrie superate e scarsamente competitive sono fallite (come avviene di solito) e questo è stato sufficiente per attivare quanto hanno qualcosa da perdere dall'avanzata della libertà e del progresso tecnologico.

- L'attivista politico deluso. Dopo il collasso del comunismo e la fine dei miti di rigenerazione sociale totale, il movimento anti-globalizzazione è arrivato al momento giusto per riempire un vuoto, prontamente coperto dall'attivista politico in cerca di una causa. Molti individui giovani (e non più giovani) insicuri e ansiosi hanno abbracciato la causa dei poveri e dei lavoratori contro le potenti multinazionali senza preoccuparsi molto di controllare se essi non stessero, contemporaneamente, fornendo un sostegno allo sfruttamento statale basato sui controlli e sulle restrizioni statali alla libertà di movimento (di individui, beni, prodotti culturali).

Quello che è degno di nota è il fatto che molte di queste figure continuano a ripetere le loro argomentazioni anche in presenza di fatti che dovrebbero scuotere profondamente le loro certezze. Vediamone alcuni.

Fatti
  Il movimento anti-globalizzazione è caratterizzato da strane contraddizioni che rivelano le sue radici nel solco ideologico dello statismo e la sua incapacità (o meglio mancanza di volontà) di trascenderlo attraverso analisi serie e comportamenti creativi.

  Il vocabolario dei suoi esponenti principali è pieno di termini presi dall'armamentario dello statismo. Le parole magiche di pubblico e di privato sono impiegate spesso e l'identificazione disonesta di pubblico=stato è usata implicitamente come un dato scontato. Per essi la società è lo stato e la società esiste solo in quanto stato e regole statali. Questo è il motivo per cui il libero scambio non è accettabile in quanto trascende la sfera dello stato.
  Questo produce una serie di contraddizioni beffarde che non vengono notate né dai protagonisti né dagli osservatori e commentatori sociali. Ciò rafforza la costatazione del carattere superficiale e proprio di una moda come essenza di buona parte del movimento.
  Per fare un esempio, i capi politici dei paesi più industrializzati sono accusati di agire da globalizzatori o di essere a favore della globalizzazione. Questi sono gli stessi individui che introducono rigide misure di controllo alle frontiere nei confronti delle persone e innalzano tariffe contro la libera circolazione dei beni. Al tempo stesso esiste un gruppo anti-globalizzazione che agisce sotto la sigla  "No Borders" (No alle frontiere). Questi sono chiaramente casi in cui il significato delle parole e il senso della realtà sono stati capovolti, con i presunti globalizzatori intenti a costruire muri e gli anti-globalizzatori intenti ad abbatterli. Per cui abbiamo falsi globalizzatori a favore di confini netti per persone e beni, e falsi anti-globalizzatori che si battono per la libertà di movimento per tutti, dappertutto.
  Un altro strano caso è il fatto che il logo di un libro contro i logo è diventato esso stesso un nuovo logo, protetto per legge. Essendo quel libro come una bibbia per gli anti-globalizzatori, questo fatto dovrebbe far riflettere molte persone sulla coerenza e lucidità di uno dei maggiori portavoce del movimento. Questo appunto si applica a molte icone globali del movimento (Naomi Klein, José Bové, Susan George, ecc.) che sono presenti sulla scena globale delle conferenze e delle pubblicazioni attraverso organizzazioni transnazionali e multinazionali dell'editoria per diffondere il loro messaggio anti-globalizzazione. Un comportamento molto snob e che dovrebbe suscitare molte perplessità.

Fuori da questa confusione e, in genere, fuori da qualsiasi confusione, è difficile che sorga qualcosa di buono. Infatti, questo è il terreno più favorevole per gli agitatori sociali e i mestatori politici per mettere in atto le loro imprese a metà strada tra il tragico e il ridicolo.
In tempi recenti, alcuni settori del movimento anti-globalizzazione hanno rifiutato questa etichetta e si stanno chiamando "new global". Ma la soluzione non consiste nel cambiare denominazione ma nel cambiare idee e comportamenti, lasciandosi cioè alle spalle un modo di pensare e di agire basato sullo stato come il motore supremo e passare ad un paradigma basato sulla libertà e la cura degli individui e delle comunità da parte degli individui e delle comunità stesse. Per questo dobbiamo andare al di là del globalismo e dell'antiglobalismo.

 

Oltre il globalismo e l'antiglobalismo (^)

Questo scritto ha voluto puntualizzare molte argomentazioni avanzate dal movimento anti-globalizzazione e ha cercato di mostrare che il globalismo non è un complotto reazionario messo in atto da potenti pescecani ma l'attività rivoluzionaria di molti piccoli pesci che navigano gli oceani e che comunicano liberamente l'uno con l'altro.
Le tesi del movimento anti-globalizzazione ci riportano direttamente verso l'abbraccio stritolatore del Grande Fratello lo stato nazionale che non è stato mai il difensore della comunità locale e il protettore del singolo.
Il messaggio "pensa globalmente, agisci localmente" ("think globally act locally") è stato capovolto dagli anti-globalizzatori che agiscono a livello globale (da Seattle a Praga, da Goteborg a Genova) ma pensano su basi molto ristrette e limitate al breve termine.
Le minacciose visioni presentate da alcuni profeti di sventura, ad esempio l'immagine di alcune multinazionali che dominano il mondo è più un incubo inventato che non una possibilità reale come hanno mostrato alcuni episodi recenti (ad es. il collasso e la ritirata di compagnie di telecomunicazione che si erano estese troppo). Più apriamo il mondo ad una concorrenza libera e salutare, più le grandi compagnie saranno costrette a ristrutturarsi su modelli più dinamici. Enormi conglomerate in un mondo aperto sono come dinosauri sulla via dell'estinzione o della riduzione a dimensioni più appropriate. Al pari dei pochi grandi computer (mainframes) di una volta, esse sono ridimensionate e sostituite da un numero infinito di piccoli nodi che costituiscono la rete.
L'attenzione principale dovrebbe essere focalizzata non su i MacDonalds di questo mondo ma sui MacArthur (i generali) e sui McCarthy (i politici); altrimenti essi prevarranno sempre con i loro nefasti interventi anche dopo che gli hamburger e il fast food non saranno più di moda.
Il globalismo è, per molte persone, la sola via per sfuggire l'oppressione politica, la povertà economica, l'alienazione culturale.
Comunque, anche questa grande visione di emancipazione collegata al globalismo non rappresenta il nucleo della questione essendo ancora piena delle limitazioni e distorsioni connesse con un discorso basato sull’opposizione tra globalismo e antiglobalismo.
Come al solito, l'oggetto del contendere è più semplice e più chiaro di quanto si pensi e si concentra su una parola semplice e chiara, come è sempre stato fin dall'inizio dei tempi: LIBERTÁ.
Il vero problema non è globalismo contro antiglobalismo ma liberazione contro assoggettamento, soprattutto nei confronti dello stato nazionale con la sua schiera di produttori monopolistici protetti e consumatori parassitari (la burocrazia, l'esercito, ecc.).
La posta in gioco non è il globalismo o il localismo ma la libertà e nient'altro che la libertà.
Non c'è bisogno di ammassare dati o scrivere poderosi trattati per mostrare che la libertà è un valore umano e la servitù non lo è, che la terra appartiene all'umanità tutta ed è affidata alla cura delle generazioni presenti e future e non è un racket territoriale segnato da confini, gestito da governanti nazionali e dai loro corrotti o ingenui sostenitori.
Per questo motivo, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento si svolga un dibattito sulla globalizzazione, dopo aver ascoltato attentamente le varie posizioni e argomentazioni e dopo aver elaborato nella nostra mente tutte le possibili implicazioni, dovremmo chiederci sinceramente: dove sta la libertà? chi sta davvero sostenendo la libertà? come possiamo sviluppare al meglio la libertà?
In base alle risposte dovremmo sapere da che parte stiamo.

 


 

Referimenti (^)

Questo scritto è quasi totalmente privo di dati statistici in quanto essi sono facilmente reperibili in molti documenti presenti sul Web e in taluni libri, in particolare i testi di Johan Norberg (2001) e di Brink Lindsey (2002). Ad ogni modo, una posizione a favore della libertà non ha bisogno del sostegno delle statistiche. Si tratta di una questione morale che poggia le sue fondamenta sulla natura umana e sulla desiderabilità del suo sviluppo.

[1785] Immanuel Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten [Fondazione della Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari, 1980]

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[1848] Karl Marx and Friedrich Engels, Manifest der kommunistichen Partei [The communist manifesto, Penguin, Harmondsworth, 1968]

[1848] Karl Marx, Discours sur la question du libre-échange  [Discorso sulla questione del libero scambio, Editori Riuniti, Roma, 1971]
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[1862] Ferdinand Lassalle,  Capitale e Lavoro, Samonà e Savelli, Roma, 1970

[1867] Karl Marx,  Das Kapital, erster Band [Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1972 ]

[1871] Lewis Carroll,  Through the Looking Glass, Penguin Books, Harmondsworth, 1985

[1875] Karl Marx, Critique of the Gotha Programme [Critica del programma di Gotha, Feltrinelli, Milano, 1970]

[1899] Piotr Kropotkin,  Fields, Factories and Workshops Tomorrow, Harper & Row, New York, 1974

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