Dal capitale - capitalista al capitalismo (^)

I termini capitale e capitalista sono entrati in uso verso la metà del diciottesimo secolo per indicare i mezzi di produzione e il loro proprietario o gestore.
Per quanto riguarda il capitale, Adam Smith distingue in due parti la quantità di beni in possesso di una persona.

"Quella parte da cui egli si attende di ricavare un reddito è chiamata il suo capitale. L'altra è quella destinata al suo consumo immediato." [1776, Adam Smith, Libro II, capitolo 1]

Smith non usa il termine capitalista, preferendo una circonlocuzione ("il proprietario del capitale"; "la persona i cui capitali vengono impiegati") o un sostantivo concreto e specifico (agricoltore, fabbricante, mercante all'ingrosso, commerciante al minuto). [1776, Adam Smith, si veda in particolare il Libro II, capitolo 5].

David Ricardo fornisce la seguente definizione di capitale:

"Il capitale è quella parte della ricchezza di un paese che è impiegata nella produzione, e consiste di cibo, indumenti, strumenti, materie grezze, macchinari, ecc. necessari per rendere produttivo il lavoro." [1817, David Ricardo, Capitolo V, Sui salari]

Ricardo impiega il termine capitalista con moderazione, ricorrendo più spesso ai sostantivi concreti e specifici di fabbricante e agricoltore.

Né Adam Smith né David Ricardo sembra che abbiano mai utilizzato  il termine "capitalismo".  Una possibile spiegazione potrebbe essere che questi due autori, pur essendo colpiti dalla elevata produttività risultante dalla introduzione di una nuova organizzazione del lavoro e dall'impiego di nuovi macchinari, non hanno ritenuto che il più ampio uso di capitale, lo sviluppo del commercio e la crescita della produzione indicassero l'inizio di un nuovo periodo storico, da qualificare con un nuovo appellativo.
Adam Smith e David Ricardo erano certamente consapevoli dell'avvento di una maggiore libertà di commercio (quanto meno in Inghilterra e in rapporto alle limitazioni dell'epoca feudale e mercantilista), che aveva liberato energie e portato ad una divisione del lavoro, tecnica e sociale, molto più produttiva.
Essi si erano resi conto che la produzione aveva assunto una dimensione nuova e che quantità maggiori di capitale (rispetto al lavoro) e capacità imprenditoriali più elevate erano necessarie in una impresa industriale. Ma questo significava solo che l'attenzione doveva essere concentrata sul capitale (fisso e circolante) e sul modo in cui esso veniva impiegato dal capitalista (ad es. la divisione del lavoro).
Oltre a Smith e Ricardo, molti altri studiosi come Charles Babbage (1832) e Andrew Ure (1835) si applicarono al compito di riflettere sul progresso delle arti meccaniche e di illustrare le novità della tecnica al servizio della produzione.

Talmente importante era diventato il ruolo del capitale nella vita sociale che Karl Marx diede alla sua opera più importante il titolo "Das Kapital"; e questo fatto testimonia la centralità che anche Marx (o soprattutto Marx) ha accordato alla tecnologia e alla produzione industriale.
In "Lavoro salariato e capitale" Marx formulò la seguente definizione di capitale:

"Il capitale consiste di materie grezze, strumenti di lavoro e mezzi di sussistenza di ogni tipo, che sono impiegati al fine di produrre nuovi materiali grezzi, nuovi strumenti di lavoro e nuovi mezzi di sussistenza."  Un po' più oltre egli aggiunge "Il capitale, anche, è un rapporto sociale di produzione." [1849, Karl Marx]

Per sottolineare l'importanza che Marx attribuisce al capitale, vale a dire agli strumenti tecnologici di produzione, nel formare la società, è sufficiente fare riferimento al famoso passaggio contenuto nella "Miseria della filosofia":

"I rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale." [1847, Karl Marx]

Pur impiegando spesso i termini "capitale" e "capitalista" Marx non utilizzò mai la parola "capitalismo" preferendo l'espressione "modo di produzione capitalistico" o "forma capitalistica di produzione" per designare ciò che aveva luogo nella sfera di vita sociale ed economica.

Ad alcuni potrebbe quindi apparire sorprendente il fatto che nessuno dei tre economisti classici (Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx) abbia ritenuto necessario impiegare il termine specifico di "capitalismo" per designare un determinato periodo storico.

La parola "capitalismo" apparve all'inizio del ventesimo secolo ed è stata utilizzata in maniera diffusa a partire da quel momento.
Il merito (o demerito) della sua concezione e diffusione spetta ad una diversa categoria di studiosi. Si tratta di sociologi e storici, di origine tedesca e di tendenze, per lo più, socialiste o liberali.
Nel 1902 fu pubblicato un testo poderoso dal titolo "Der Moderne Kapitalismus" [Il capitalismo moderno]. In quelle pagine, il suo autore, Werner Sombart, tracciò le radici del capitalismo dai tempi antichi all'età moderna. Egli definì il capitalismo come

"una organizzazione economica di scambio, in cui normalmente due gruppi diversi della popolazione, i possessori cioè dei mezzi di produzione ... ed i lavoratori nullatenenti, collaborano a un processo produttivo razionale uniti dal mercato." [1902, Werner Sombart].

In un altro testo, "Der Bourgeois" (1913) Sombart identificò lo spirito del capitalismo nell'unione della passione per l'attività e il rischio con l'acume e il calcolo economico. [1913, Werner Sombart]
Sul tema dello spirito del capitalismo era già apparso il famoso scritto di Max Weber, "Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus" [1904-1905, Max Weber].

Quindi, il termine capitalismo si è affermato all'inizio del ventesimo secolo nei circoli accademici ed è stato adottato da critici, generalmente di orientamento socialista che, giustamente, indirizzavano la loro attenzione su alcuni aspetti negativi (passati e presenti) connessi alla meccanizzazione del lavoro e all'indigenza sociale, tralasciando spesso però, di mettere in luce le nuove possibilità aperte dalla rivoluzione nei mezzi e nelle forme di produzione.
Durante il ventesimo secolo, il termine è stato usato anche troppo, e non sempre correttamente, in molti luoghi e da molte persone. È quindi importante identificare ed elencare i tratti caratteristici essenziali e originari di ciò che è conosciuto attualmente sotto il nome di "capitalismo".

 

Capitalismo: caratteristiche (^)

Per individuare le caratteristiche principali del capitalismo facciamo riferimento ancora una volta agli scritti classici di Smith, Ricardo e Marx.
In quegli scritti tre aspetti appaiono in primo piano come i pilastri degli atteggiamenti mentali e comportamentali del capitalista, in contrasto con il modo di pensare e di agire del periodo mercantilista. Essi fanno riferimento a:

Libera ricerca dell'interesse personale (individui)
Esistono due fattori impliciti nella libera ricerca dell'interesse personale:
        -  Innanzitutto, ciò significa che tutti i vincoli di status sono messi da parte e l'essere umano è libero di perseguire ciò che suggeriscono i propri desideri e inclinazioni e non quello che è imposto da un potere esterno (la chiesa, lo stato, la famiglia, la corporazione, ecc.). Questo produce come risultato una liberazione delle energie degli individui (singoli o in associazione) che precedentemente rimanevano non solo inutilizzate ma erano, in genere, bloccate da convenzioni sociali e costrizioni legali.
     -  In secondo luogo, un interesse personale duraturo non solo è compatibile con l'interesse degli altri ma è, spesso, la strada migliore per promuovere entrambi; sviluppando liberamente le proprie inclinazioni e dedicandosi validamente alle proprie occupazioni, ognuno si preoccuperà di ricercare l'utilizzo migliore di risorse scarse, con il risultato di migliorare non solo la propria situazione ma quella di ognuno [vedi 1776, Adam Smith]. Chiaramente stiamo qui facendo riferimento all'interesse personale di produttori onesti e di consumatori accorti.

Nel complesso, l'interesse personale non ha nulla a che fare con il comportamento puramente egoistico o con benefici che affluiscono solo ad una singola persona (o a un'industria o a una nazione) a scapito delle altre. Inoltre, questo non avrebbe nulla a che fare con il capitalismo in quanto sarebbe al di là della sfera di possibilità del capitalista che non può controllare la diffusione dei benefici a causa del suo ruolo circoscritto e di un potere limitato nell'influenzare le decisioni altrui. E questo fatto ci introduce al secondo aspetto principale del capitalismo industriale.

Libero commercio internazionale (relazioni)
L'affermarsi di un libero commercio internazionale con i suoi due risvolti di competizione (all'interno di un settore di produzione) e di cooperazione (tra settori produttivi) rappresenta una rottura totale con le convenzioni e le pratiche del mercantilismo (regolamentazioni statali e protezionismo). A questo riguardo, vi sono due aspetti che sono stati messi in luce dagli economisti classici:
        -  lo scambio porta a cambiamenti positivi.
Secondo Smith, la cooperazione tra gli esseri umani, che si manifesta nella forma della divisione del lavoro, si accresce notevolmente attraverso la moltiplicazione degli scambi. E questo porta a cambiamenti, intesi come miglioramenti, nei modi di produzione in vista di una più elevata produttività, al fine di soddisfare i bisogni di un maggior numero di consumatori.
        -  lo scambio arreca benefici reciproci.
Ricardo è colui che, meglio di tutti, ha sottolineato il fatto che il commercio internazionale arreca benefici reciproci anche quando i beni scambiati sono prodotti nello stesso paese a più buon mercato, perché ciò che conta sono i vantaggi relativi derivanti dalla divisione del lavoro. Per Ricardo, un commercio libero da vincoli è il modo più sicuro per far sì che ognuno tragga un guadagno e un beneficio. Si potrebbe prendere il suo argomentare a favore del libero commercio internazionale come una estensione e un rafforzamento della tesi dell'interesse personale:

"Nell'ambito di un sistema di commercio totalmente libero ... la ricerca del vantaggio individuale si lega in maniera ammirevole con il bene universale di tutto l'insieme." [1817, David Ricardo, Sul commercio estero]

Cosicché, una maggiore produzione e un consumo a più buon mercato sono i risultati, nel medio-lungo periodo, di una migliore allocazione del capitale derivante da una dinamica di scambi liberi (competizione e cooperazione). E questo porta a far emergere un altro aspetto del capitalismo industriale.

Libero sviluppo tecnologico (strumenti).
Miglioramenti negli strumenti produttivi sono apparsi lungo tutto il corso della storia. Molte scoperte hanno avuto luogo in Cina assai prima della Rivoluzione Industriale ma hanno trovato un ambiente politico e sociale non molto ricettivo, se non del tutto ostile. Anche in Inghilterra, prima e durante la Rivoluzione Industriale, gli inventori hanno sopportato pesanti difficoltà come mostrano ampiamente alcuni episodi relativi a William Lee (telaio per maglieria, 1598), John Kay (navetta volante, 1733) e James Hargreaves (macchina per filare, 1765) [si veda 1905, Paul Mantoux, Seconda Parte, capitolo 1]. È solo durante il secolo diciannovesimo che i miglioramenti tecnologici degli strumenti produttivi sono stati non solo ben accetti ma anche promossi e i nuovi strumenti hanno trovato la loro celebrazione nell'esposizione universale di Londra (Crystal Palace Exhibition, London 1851). La libertà di sperimentare e di inventare si sono quindi uniti con la libertà di agire alla ricerca dell'interesse personale e di scambiare in vista del conseguimento di benefici reciproci. L'elenco di tutti coloro che si sono applicati creativamente nel miglioramento delle arti meccaniche comprende moltissimi individui. Talvolta abbiamo solo i nomi di coloro che, da ultimi, hanno perfezionato e brevettato i miglioramenti di parecchi altri che li hanno preceduti.

Uno dei migliori studiosi e un sostenitore entusiasta nel rappresentare il modo di produzione capitalistico come dominato e animato dalla tecnologia è Karl Marx [1867, Karl Marx, vedi soprattutto il Libro I capitolo XIII]. Per Marx, quello che è conosciuto sotto il nome di capitalismo è soprattutto il costante rivoluzionamento dei mezzi di produzione; per questo motivo il tratto distintivo del modo di produzione capitalistico è rappresentato dalla spinta della tecnologia che distrugge tutte le precedenti forme di produzione divenute obsolete e retrograde [vedi 1961, Kostas Axelos].

Perché il capitalismo potesse emergere e consolidarsi, il sistema economico dominante, vale a dire il mercantilismo [si veda 1931, Eli F. Heckscher], doveva essere analizzato criticamente e rimosso praticamente. Questo è ciò che Adam Smith ha compiuto dal punto di vista teorico nella sua opera maggiore e ciò che i nuovi mercanti e imprenditori capitalisti hanno realizzato attraverso il loro agire quotidiano.

I tratti capitalistici che sono stati messi in luce precedentemente sono tutte istanze anti-mercantilistiche. In particolare, il continuo progresso tecnologico è l'aspetto centrale che caratterizza l'età del capitalismo (in quanto industrialismo); ma il suo emergere è possibile solo sulla base della libertà individuale di agire per soddisfare interessi personali e della libertà di commerciare per soddisfare bisogni personali.
Tutti questi aspetti sono così strettamente legati tra di loro che la scomparsa o la riduzione di uno di essi incide notevolmente sul mantenimento degli altri. Per fare un esempio, le restrizioni al libero commercio influenzano negativamente le opportunità creative di nuove invenzioni e il ritmo di introduzione di nuovi congegni. Nei fatti, gli ostacoli alla circolazione dei prodotti agiscono anche come barriere alla circolazione di idee e alle espressioni creative. [si veda 1905, Paul Mantoux]

Tutti i tratti che caratterizzano il capitalismo (e cioè, l'interesse personale, il commercio internazionale e lo sviluppo tecnologico) hanno un filo comune rappresentato dalla parola "libero" in quanto la libertà sta alla base e interconnette tutti gli aspetti dell'attività del capitalista. Si potrebbe dire che senza libertà (di agire, di scambiare, di inventare) non ci sarebbe stato il capitalismo. Al tempo stesso, non dovremmo identificare il capitalismo con la libertà, in quanto la libertà è un concetto più vasto e più profondo, che è esistito nelle menti e negli animi degli individui molto prima che venisse formulata la nozione di capitalismo.
Inoltre, non possiamo identificare il capitalismo con taluni aspetti quali la ricerca del profitto, l'esistenza dei mercati o l'utilizzo delle macchine e la proprietà personale dei mezzi di produzione.
Infatti, per quanto riguarda il guadagno monetario, Max Weber ha giustamente messo in luce che

"la sete di lucro, l'aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile, non ha di per sé stessa nulla in comune col capitalismo. Questa aspirazione si ritrova preso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti; si può dire presso all sorts and conditions of men, in tutte le epoche di tutti i paesi della terra, dove c'era e c'è la possibilità obiettiva." [1904-1905, Max Weber]

Per quanto concerne poi  la presenza di mercati e scambi, Adam Smith ha riconosciuto come intrinseca alla natura umana "la propensione a trafficare, barattare e scambiare una cosa per l'altra." [1776, Adam Smith, Libro I, capitolo 2]. Uno storico famoso come Fernand Braudel arriva al punto di identificare la società con lo scambio (o "i giochi dello scambio") quando afferma:

"La moneta è una invenzione molto antica, se per essa intendo qualsiasi mezzo che accelera lo scambio. E senza scambio non c'è società." ("La monnaie est une très vielle invention, si j'entends par là tout moyen qui accélère l'échange. Et sans échange, pas de société.") [1985, Fernand Braudel]

Infine, le macchine e gli strumenti sono sempre esistiti, persino in talune forme sofisticate e altamente ingegnose come gli automi. Non tutti sono diventati mezzi di produzione, ma quando ciò si è verificato, essi sono stati, quasi sempre e dappertutto, proprietà di specifici individui.
Per questa ragione, l'affermare che il capitalismo "è un sistema economico in cui i mezzi di produzione sono di proprietà privata" [1998, Larry Allen] significa coprire con il termine "capitalismo" quasi l'intero corso della storia socio-economica.

Sulla base di queste considerazioni, sarebbe profondamente ingannevole prendere alcuni tratti della personalità (la ricerca del guadagno), alcuni aspetti dell'esistenza (lo scambio), o l'uso e la proprietà di talune risorse (i mezzi di produzione) come i tratti distintivi del capitalismo. Perché, anche l'esame più superficiale mostra che queste realtà sono sempre esistite (anche quando sono state represse o messe fuori legge) e cesseranno di esistere solo quando l'avventura umana si sarà conclusa.
Quello che si può affermare invece è, semplicemente, che il capitalismo è:

-  l'assumere una posizione di rilievo da parte del capitale industriale (le macchine) rispetto ad altri fattori di produzione (terra, lavoro);
-  il venire in primo piano del capitalista industriale il quale, svolgendo inizialmente il ruolo di mercante imprenditore, diventa la figura centrale di una nuova forma di organizzazione economica e sociale;
-  il rendersi conto dei vantaggi che si possono conseguire evitando o rimuovendo tutte le restrizioni feudali e mercantilistiche al commercio e alla produzione.

Il capitalismo (ovvero, l'industrialismo) è allora un modo di produzione che si basa sull'uso esteso del capitale (macchine meccaniche) da parte del capitalista (proprietario o utilizzatore del capitale) libero da convenzioni derivanti dallo status o da restrizioni imposte dallo stato, riguardanti la produzione e il commercio.

 

Anticapitalismo come post-capitalismo (^)

Le caratteristiche stesse del capitalismo (libertà di agire, di scambiare, di inventare) portavano ad un rivoluzionamento continuo di tutte le precedenti situazioni statiche.
Il capitalismo industriale è una rivoluzione permanente fatta di ampliamenti del mercato, sviluppi della tecnica, nuovi ruoli degli individui e relazioni sociali su più vasta scala.
Lo studioso che meglio di tutti ha compreso e ritratto questo aspetto del capitalismo, vale a dire dell'industrialismo, è Karl Marx. Egli è il più apologetico celebratore del modo di produzione capitalistico e di quella che viene ritenuta la sua forza motrice, la borghesia.
Nei suoi scritti, la borghesia diventa una classe mitica, con sovrumani poteri, capace di compiere imprese che nessuno aveva immaginato o osato prima di allora.

"La borghesia, storicamente, ha svolto nella storia un ruolo altamente rivoluzionario." "Ha compiuto meraviglie che oltrepassano di gran lunga le piramidi d'Egitto, gli acquedotti Romani, e le cattedrali Gotiche; ha condotto spedizioni che mettono in ombra tutte le precedenti migrazioni dei popoli e le crociate." [1848, Karl Marx - Friedrich Engels]

Per Marx ed Engels vi è qualcosa di peggiore dell'essere sfruttato nell'ambito del modo capitalistico di produzione e consiste nell'essere lasciato al di fuori di questo sconvolgimento sociale e tecnologico, permanente e inarrestabile, dal quale un giorno sarebbe emersa una nuova umanità e una nuova società.
Perché

"la borghesia non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione, e quindi i rapporti di produzione, e con ciò l'insieme delle relazioni sociali." [1848, Karl Marx - Friedrich Engels]

Per questa ragione, Marx ed Engels vedono il capitalismo, o meglio, il modo capitalistico di produzione, soltanto come una fase storica, una forma economica di produzione che verrà superata quando le forze produttive (esseri umani, strumenti tecnici) avranno raggiunto un più elevato grado di sviluppo. Questo sviluppo porterà a una rottura che condurrà al di là dei rapporti capitalistici di produzione divenuti, a quel punto, fattori negativi che restringono e limitano lo sviluppo ulteriore degli esseri umani.

Per Marx ed Engels le caratteristiche del capitalismo (interesse personale, mercato mondiale e sviluppo tecnologico sostenuto) rappresentano le basi su cui costruire la società post-capitalistica. Essi non sono certo a favore di interessi acquisiti, mercati nazionali protetti o pratiche anti-tecnologiche.
Essi individuano nello sviluppo pieno del capitalismo la strada verso il superamento di tutte le divisioni e fratture esistenti, in particolare quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e quella tra campagna e città. Inoltre, nella loro visione, il contrasto tra lo stato politico e la società civile sarà risolto a vantaggio della società civile attraverso la estinzione dello stato.

Per tutti questi motivi, Marx ed Engels sono al tempo stesso, i celebratori del capitalismo industriale e i prefiguratori di un nuovo mondo, oltre il capitalismo.
Il loro anticapitalismo esprime, al tempo stesso, sentimenti e pensieri ultra-capitalisti e post-capitalisti. Ultra-capitalisti in quanto essi vogliono la realizzazione piena del programma e delle tendenze capitaliste (libertà individuale, scambi mondiali, iper sviluppo tecnologico); post-capitalisti perché essi si rendono conto che il capitalismo raggiungerà un punto di resa decrescente in termini di progresso e dovrà perciò essere messo da parte se si vuole che l'umanità avanzi e che si attui la liberazione piena di tutti gli esseri umani.

Marx ed Engels sono stati molto chiari nel considerare il capitalismo industriale solo come una fase storica, allorché le forze produttiva inanimate (le macchine) dominano la vita degli individui. Una volta che il modo capitalistico di produzione ha esaurito la sua missione rivoluzionaria creando il regno dell'abbondanza e al tempo stesso sviluppando tutte le forze produttive, esso va accantonato. Per questa ragione l'anticapitalismo di Marx ed Engels non ha nulla a che vedere con la nostalgia per un lontano passato pre-capitalistico ma con l'ansia di conseguire la libertà e il benessere che una società post-capitalistica, costruita sulle realizzazioni del capitalismo, riuscirà a portare a tutti, dappertutto.

 

Anticapitalismo come neo-mercantilismo (^)

L'avvento e l'avanzata del capitalismo industriale non si sono effettuati in maniera tranquilla e indolore, nemmeno quando vi era qualche vantaggio da ricavarne, nel breve o lungo periodo.
Per alcuni individui, il lavoro in comune in una manifattura ha significato il compiere gesti semplici ripetitivi, come nel famoso esempio  della fabbrica di spilli [1776, Adam Smith, Libro I, capitolo 1]. In casi come questo, l'essere umano si è trovato ridotto alla funzione di un ingranaggio di una macchina.

In quanto alla concorrenza industriale, essa poteva significare la perdita dei mezzi di sostentamento perché metodi o strumenti di produzione più efficienti venivano introdotti, col risultato di rendere alcuni produttori non più competitivi economicamente. Chiaramente, questa dinamica pur essendo vantaggiosa per i consumatori nel loro complesso, non era di (immediato) sollievo per coloro che avevano perduto il lavoro (salari) o visto fallire l' impresa (profitti).

Coloro che si trovarono a soffrire delle trasformazioni  introdotte dal capitalismo industriale svolsero spesso un duplice ruolo:
    -  essi opposero il capitalismo, avendo sperimentato sulla propria pelle i suoi duri effetti;
    -  essi vennero usati come giustificazione per opporsi al capitalismo in quanto sistema produttivo impietoso.

L'animosità e l'attività anti-capitalista si sono indirizzate contro le tre caratteristiche del capitalismo industriale precedentemente messe in luce, vale a dire:

Interesse generale contro interesse personale
La celebrazione dell'interesse personale come espressione di una società composta da individui razionali e responsabili e sfociante in un benessere universale era un portato della visione cosmopolita risalente all'illuminismo. Non era però né adatta né sostenibile in un mondo di stati nazione quale stava diventando l'Europa del diciannovesimo secolo.
L'interesse degli individui (self-interest) era ritenuto intrinsecamente egoistico e doveva essere sostituito dall'interesse generale. Questo interesse generale doveva essere espresso e rappresentato da una entità di livello superiore. Questa entità era lo stato nazione.
Sulla scia di Rousseau e degli ideologi della Rivoluzione Francese, l'interesse generale (o interesse pubblico/nazionale) divenne, sotto lo stato nazione, l'obiettivo accettabile alla cui promozione doveva sottostare il comportamento di tutti.

Questa è una mossa necessaria da parte della classe politica dirigente e dei suoi associati. Infatti, gli strati parassitari non possono farsi paladini dell'interesse personale al pari degli individui produttivi. L'interesse degli strati parassitari è in aperto contrasto e opposizione con l'interesse reale di lungo termine di ognuno. Per questo motivo essi usano l'espressione "interesse generale" che è così generica da poter essere riempita con qualsiasi contenuto.
I mediatori, soprattutto quando ottengono i loro mezzi di sopravvivenza o di opulenza rappresentando i cittadini (uomini politici), influenzando la gente (giornalisti) o pensando di fornire servizi amministrativi alle persone (burocrati), sono praticamente obbligati a parlare dell'interesse generale o nazionale o pubblico, inventando una astrazione fittizia che va al di là dei singoli esseri umani fatti di carne ed ossa. [si veda 1852, Karl Marx, sezione III e sezione VII].  Questo presunto interesse "generale", dissociato dagli interessi di ognuno e di tutti, non sopravviverebbe un istante ad un serio esame, se non fosse per il suono emotivamente accattivante delle parole (pubblico, nazionale) che sembrano così elevate ed attraenti quanto sono nei fatti vuote e fuorvianti.

La formazione e il consolidamento degli stati nazionali, al posto dello sviluppo di una comunità mondiale, ha portato ad un altro effetto negativo.

Protezionismo nazionale contro commercio internazionale
La crescita del commercio mondiale che pareva una tendenza così irresistibile e inarrestabile del capitalismo industriale ha trovato un ostacolo notevole negli stati nazionali d'Europa e nello stato federale d'America.
Di certo il protezionismo aveva radici più profonde di quello che siamo portati a credere dalle opere di Marx e dalle sue celebrazioni di un mercato mondiale; a questo riguardo, gli scritti di Frédéric Bastiat risulterebbero più istruttivi [1845-1847, Frédéric Bastiat]. Il parlamento inglese rimase protezionista fino al 1846 (abolizione delle leggi sul grano che ne tassavano l'importazione); in Francia il governo mantenne le barriere protezionistiche fino al 1860 quando fu stipulato il trattato commerciale Anglo-Francese. I ceti politici in Germania, mentre stabilivano con lo Zollverein (1834) un'area interna di libero scambio, conservarono il protezionismo nei confronti dei paesi stranieri, trovando un sostegno teorico negli scritti di Friedrich List [1841, Friedrich List]. Il congresso americano introdusse una tariffa protezionistica nel 1816 ampliandola nel 1824 includendo un maggior numero di prodotti, riducendola solo nel 1846 e nel 1857. [1997, Bruce Bartlett]

Cosicché, è solo verso la metà del secolo diciannovesimo, e soprattutto dopo il trattato commerciale Anglo-Francese e il risultante incremento del commercio internazionale, che la libertà degli scambi sembrò avere un futuro sicuro.
Ma, nel 1879 il governo tedesco, sotto la pressione delle grandi imprese, introdusse una tariffa protezionistica, imitato ben presto dal governo francese (1881 e 1892) e da quello italiano (1887). Negli Stati Uniti il Congresso approvò la tariffa McKinley nel 1890. Da quel momento in poi si verificò, dappertutto, l'adozione di ogni sorta di restrizioni ulteriori al movimento dei beni (tariffe, quote) e delle persone (passaporti, limiti agli ingressi e visti di immigrazione). Il mondo stava per essere trasformato in una serie di gabbie territoriali all'interno delle quali ogni stato si attribuiva una illimitata sovranità di restringere, respingere, reprimere.

Quell'insieme di competizione e di cooperazione del capitalismo industriale che avrebbe dovuto trasformare il mondo intero, sollevando le condizioni (materiali e culturali) di tutti gli individui, venne cancellato e il suo posto fu preso dalla lotta per la supremazia politica e per il dominio mondiale tra stati nazione (imperialismo, militarismo). Questo porterà a due Guerre Mondiali e a molti altri crimini osceni e folli.
Industrie nazionali, sindacati nazionali e uomini politici nazionali fecero lega comune contro la libertà di commercio, in nome di un mercato regolato. Sotto questa espressione molto attraente si potevano trovare, assai spesso, pratiche restrittive monopolistiche introdotte a favore di alcuni produttori e a scapito di tutti i consumatori.

Occupazione stabile contro innovazione tecnologica
L'introduzione di macchine per tessere e di altri strumenti meccanici venne combattuta da coloro che pensarono (a ragione o a torto) che queste macchine li stavano privando del lavoro e dei mezzi per vivere. La più famosa rivolta contro le macchine fu quella promossa da Ned Ludd nei distretti del Nottinghamshire, Lancashire, Cheshire e Yorkshire tra il 1811 e 1816, con la distruzione dei telai meccanici. Coloro che si opponevano a questi nuovi strumenti non si resero conto dei benefici che essi avrebbero portato in tempi brevi, in particolare:
        -  un incremento nella produzione che avrebbe ridotto il prezzo dei prodotti, beneficiando un vasto numero di persone, vale a dire tutti in quanto consumatori;
        -  la possibilità di soddisfare ulteriori bisogni, a seguito del risparmio effettuato sull'acquisto di beni a più buon mercato; ciò avrebbe richiesto l'applicazione di nuove energie e capacità umane in altri settori produttivi, incrementando la domanda di lavoro.

Questo è, in ogni caso, ciò che si è verificato a partire dal momento in cui il primo arnese venne introdotto. Questo è anche parte di ciò che costituisce il processo civilizzatore che libera l'essere umano dalla fatica necessaria per ricavare l'indispensabile alla sopravvivenza e gli consente di godere di tempo per coltivare ogni tipo di piacevole attività.

Se, in un dato momento della storia, avessimo optato per la sicurezza dell'impiego, sempre e comunque, saremmo ancora ad usare candele di cera prodotte da bravi artigiani, ci affideremmo ancora ad un servizio postale condotto da temprati messaggeri a cavallo, e utilizzeremmo tuttora un sistema di riscaldamento basato su camini la cui manutenzione dà lavoro ad una schiera di giovani spazzacamini. Tutte queste occupazioni sono state eliminate dall'avanzata della tecnologia; nonostante ciò,  sono apparse altre occupazioni, superiori in numero e contenuto, per il soddisfacimento di un maggior numero di bisogni e in maniera migliore.

Sulla base di questi tre punti (interesse generale, protezionismo nazionale e occupazione stabile), atteggiamenti e comportamenti anti-capitalisti si sono diffusi e hanno preso il sopravvento quasi dappertutto nel mondo. Ne è conseguito che gli aspetti che rappresentavano il nucleo centrale del capitalismo (interesse personale, commercio internazionale, sviluppo tecnologico) sono scomparsi o sono stati in gran parte alterati mentre rimaneva in vita soltanto l'involucro esteriore (le fabbriche e la produzione di beni su larga scala).

Non ci sarebbe nulla da rimarcare o da rimpiangere in tutto ciò se la nuova realtà avesse rappresentato un progresso, verso una società più avanzata oltre il capitalismo.
Invece, l'affermarsi di questa sorta di anticapitalismo ha portato in maniera diretta alla riproposizione e reintroduzione di una precedente forma di organizzazione socio-economica: il mercantilismo. Tenuto conto che la tecnologia era progredita e il potere degli stati nazionali era cresciuto in confronto al tempo in cui dominava l'originario mercantilismo (tra la metà del sedicesimo e la metà del diciottesimo secolo), questo nuovo (ma non così nuovo) sistema di organizzazione socio-economica è stato qualificato da alcuni con il nome di neo-mercantilismo.

L'anticapitalismo come neo-mercantilismo ha trionfato dalla Russia all'Italia, dalla Germania agli Stati Uniti, e si è radicato anche in Inghilterra, l'ultimo bastione del capitalismo puro.
Gli appellativi sotto i quali si è affermato il neo-mercantilismo (comunismo, fascismo, new deal, welfare state) come pure i simboli e le forme istituzionali del suo dominio sono differenti; ma tutti condividono la stessa opposizione agli aspetti centrali del capitalismo, vale a dire la libertà di produrre (laisser faire) e di commerciare (laisser passer) senza impacci, e attuano gli stessi o simili provvedimenti (il mercato regolamentato, il protezionismo nazionale, ecc.) facendo ricorso agli stessi o a simili messaggi (il capitalismo come la legge della giungla, lo stato come l'insostituibile benevolo padre, la difesa dell'interesse nazionale come priorità assoluta, ecc.).

L'anno 1883, lo stesso in cui è scomparso il maggior esponente dell'anticapitalismo come post-capitalismo (Karl Marx), ha visto la nascita del maggior esponente dell'anticapitalismo come neo-mercantilismo (John Maynard Keynes).
Con Keynes il pensiero economico moderno è stato capovolto. Adam Smith  raffigurò un nuovo sistema di produzione della ricchezza basato sulla divisione delle mansioni e sulla mano invisibile del libero mercato, un sistema che egli caratterizzò in opposizione al mercantilismo e che sarebbe stato successivamente definito capitalismo. In maniera paradossale, nel secolo ventesimo, taluni studiosi hanno definito questo nuovo mercantilismo, basato come il precedente sulla mano pesante dello stato che interferisce di continuo e dovunque nell'economia, come capitalismo moderno o tardo-capitalismo.

Dal momento che la definizione del problema e la raffigurazione della situazione è un aspetto molto importante nel far avanzare la conoscenza, occorre esaminare ulteriormente la trasformazione del "capitalismo" al fine di accertare se sussistano motivi sostanziali per accogliere la tesi della sua continua esistenza sotto forma di tardo capitalismo o se non sarebbe più fruttuoso, per il progresso della scienza, fare riferimento al capitalismo come ad un fenomeno passato e definitivamente tramontato.

 

La trasformazione del capitalismo (^)

L'immagine del capitalismo tratteggiata sulla base degli scritti classici di Smith, Ricardo, Marx, ha messo in luce i seguenti aspetti:

capitale industriale vale a dire macchine e materiali  grezzi che sostituiscono la terra come il fattore più importante di produzione;
libera concorrenza tra produttori di piccole e medie dimensioni che sostituisce le pratiche restrittive e monopolistiche retaggio delle corporazioni medioevali;
nuovi protagonisti (inventori e imprenditori) provenienti dai più disparati settori della società, i quali diventano promotori di nuove imprese industriali, sostituendo lo stato mercantile, interventista e dirigista.

Passando in rassegna e analizzando la situazione verso la fine del diciannovesimo secolo scopriamo che, in rapporto a questa visione classica, quasi tutto stava cambiando, e non solo a causa del progresso tecnologico. Con riferimento agli aspetti centrali del capitalismo stavano avendo luogo le seguenti trasformazioni:

- Capitale: dall'industria alla finanza
Quello che si intende per "capitale" è essenziale rispetto alla questione complessiva di definire il capitalismo e di valutarne l'esistenza o la scomparsa.  Nel pensiero di Adam Smith, il denaro può essere considerato parte del capitale circolante ma solo nella misura in cui attiva la produzione e facilita il commercio.

"Il denaro, ... la grande ruota della circolazione, il grande strumento del commercio, come ogni altro strumento degli scambi ... non origina alcuna parte del reddito della società che lo utilizza" [1776, Adam Smith, Libro II, Capitolo 2].

Questo significa che il denaro (monete d'oro e d'argento) non rappresenta il fondamento della ricchezza di un paese, mentre lo sono la produzione e il commercio. La Spagna era ricchissima di oro e di argento ma è stato in Inghilterra che la Rivoluzione Industriale si è prodotta perché lì è emerso il capitale reale, cioè i nuovi strumenti tecnologici inventati da individui capaci e perseveranti, e utilizzati produttivamente da persone perspicaci e determinate (un esempio per tutti, Richard Arkwright, il barbiere). Questa dinamica ha dato vita al modo di produzione capitalistico.
L'industria produce la ricchezza ma la ricchezza non produce, necessariamente, l'industria. In effetti, quanto più la ricchezza si accumula in alcune mani, tanto più è probabile che venga impiegata in speculazioni parassitarie, attraverso le quali il denaro è mezzo per generare ulteriore denaro, senza neanche passare attraverso lo stadio della produzione di beni.

Il passaggio dall'industria (imprese) alla finanza (banche) è un processo lungo che si può far risalire alla istituzione della Banca d'Inghilterra nel 1694 sulla base di "motivi puramente politici ... relativi alla necessità di finanziare la guerra di William of Orange con Louis XIV." [1919-1920, Max Weber]; e che continua con l'istituzione da parte di Napoleone della Banca di Francia (1800) per facilitare la collocazione dei titoli del debito statale, in altre parole per finanziare la macchina statale.

Ma è alla fine del diciannovesimo secolo, quando gli stati nazionali d'Europa promuovono le loro avventure imperialistiche e imboccano la strada che li porterà alla guerra totale tra di loro, che gli interessi finanziari prendono il sopravvento sotto la direzione e protezione dello stato.
La commistione stretta tra stato e finanza era già stata messa in luce da Marx alla metà del diciannovesimo secolo con riferimento alla situazione francese:

"Con l'appellativo di aristocrazia finanziaria dobbiamo intendere non solo i grandi promotori di prestiti e gli speculatori su fondi pubblici, in rapporto ai quali è immediatamente ovvio che i loro interessi coincidono con gli interessi del potere statale. Tutta la finanza, tutto il sistema affaristico delle banche, è intrecciato nella maniera più stretta con i prestiti statali." [1852, Karl Marx]

Nel 1902 John Hobson qualifica gli interessi finanziari come "la forza trainante del motore imperiale" e identifica nel bisogno di trovare sbocchi per gli investimenti finanziari la ragione principale dell'imperialismo. La tesi che collega l'imperialismo con l'acquisizione di nuovi mercati per una produzione industriale in crescita viene scartata sulla base dei dati statistici che mostrano uno scarso commercio tra paesi industrializzati e non, a causa dello scarso potere di acquisto dei soggetti colonizzati. [1902, John Hobson].

Lenin segue Hobson nella sua analisi dell'imperialismo come fenomeno che ha la sua origine negli interessi finanziari. L'imperialismo, l'ultima fase del capitalismo, viene caratterizzato come "capitalismo di transizione, o più esattamente come capitalismo morente" [1916, Vladimir I. Lenin]. Dopo questa fase, la guerra tra gli stati capitalistici porterà direttamente al collasso finale del sistema capitalistico.
In "Stato e Rivoluzione" Lenin definisce l'età dell'imperialismo come

"l'epoca del capitale bancario, dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato." [1917, Vladimir I. Lenin]

Quello che non sembra chiaro nelle analisi di questi autori o, in alcuni casi, nei volgarizzatori delle loro idee, è il fatto che quello che essi chiamano capitalismo finanziario o capitalismo di stato non ha più nulla a che fare, nel bene e nel male, con lo spirito e la pratica originari del capitalismo. Si tratta non di un semplice cambiamento di pesi ma di una trasformazione totale di atteggiamenti e di protagonisti. Nel nuovo scenario i produttori industriali sono ancora al lavoro, ma sono nel retroscena, in posizione sottomessa nei confronti degli attori provenienti dal mondo della finanza i cui investimenti esteri sono mosse politiche dettate dagli interessi statali e sono, raramente, fonte di profitti dal punto di vista dell'industria nel suo complesso. Nelle parole di uno storico inglese, il metro di giudizio è "il Potere, non il Profitto." [1956, A. J. P. Taylor]

A questo punto, la nozione originaria di capitale come risorse industriali è, nei fatti, totalmente perduta e il capitale è identificato con la moneta e con qualsiasi supporto monetario. Non c'è bisogno di dire che, una volta raggiunto questo stadio, siamo completamente al di fuori della concezione di Adam Smith e siamo ritornati indietro alla visione mercantilista di quel che costituisce la vera ricchezza di una nazione, identificata allora con l'ammontare accumulato di pezzi monetari d'oro e d'argento, e ora in guadagni finanziari derivanti da depositi bancari e da prestiti allo stato.

- Mercato: dalla concorrenza alla concentrazione
Il capitalismo è stato spesso caratterizzato dall'esistenza di una concorrenza continua tra produttori, così accesa e feroce da danneggiare le relazioni tra gli individui. Questa visione è stata spesso più una invenzione di giornalisti in cerca di immagini forti e di scrittori altamente critici della realtà che non un dato effettivo. Nei fatti, la tendenza a controllare il mercato o, per dirla in maniera meno cruda, a dividerselo in maniera amichevole, è stata sempre presente tra i produttori. [vedi 1776, Adam Smith, Libro I, capitolo X)
Qualunque sia stata la realtà, durante la seconda metà del secolo diciannovesimo, la concorrenza tra le imprese si è attenuata ed è stata sostituita, in alcuni casi, da accordi riguardanti il livello di prezzi di vendita e l'ammontare di produzione consentita.

Nell'ambito di un clima sociale caratterizzato dalla libertà, questi accordi non rappresentano nulla di così grave da doversene preoccupare eccessivamente, per tre ragioni:

Intesa sui prezzi. Questi patti tra produttori sono continuamente a rischio di collasso, soprattutto se una impresa ha buone ragioni (a causa di nuovi strumenti tecnici, migliori prodotti, esigenze di liquidità, ecc.) di credere che può trarre guadagno da una ripresa della concorrenza.
Concorrenza straniera. Vi sono sempre alcuni produttori che non fanno parte dell'accordo, di solito industrie cosiddette "straniere" che possono scompigliare la realtà basata sul patto.
Potenziali nuovi produttori. C'è sempre la possibilità di nuovi produttori che sorgono quando gli accordi generano profitti esorbitanti a causa di prezzi troppo elevati o di eccessive limitazioni alla produzione.

In ogni caso, questi patti sono sempre soggetti a modifica e, nella realtà, non durano a lungo. Essi producono un misto di competizione e di cooperazione tra produttori e tra produttori e consumatori, alla ricerca dinamica di un equilibrio.

Sfortunatamente, questa dinamica ha ricevuto un colpo mortale a seguito dell'entrata nell'arena economica di un nuovo attore che si è comportato come un pachiderma in un negozio di porcellane: lo stato.
Con il pretesto di regolare e agevolare l'economia nazionale e la vita in comune, lo stato è intervenuto in ciascuno degli aspetti sopra elencati che riguardavano produttori e consumatori. Quello che ne è seguito può essere riassunto facendo riferimento ad alcuni fatti.

Intesa sui prezzi. Per far desistere le imprese dall'accordarsi sui prezzi, lo Sherman Act (1890) negli USA dichiarò queste pratiche illegali. Il risultato fu l'inizio di una serie di fusioni e la nascita di imprese conglomerate al posto di molte società distinte.  Le nuove conglomerate non avevano bisogno di accordi in quanto la fissazione dei prezzi avveniva ora sotto il controllo di un'unica impresa gigantesca o veniva determinato dall'impresa leader nel settore. Tutto perfettamente legale ma anche tutto perfettamente assurdo dal punto di vista degli interessi dei consumatori. Infatti, le pratiche monopolistiche erano state incoraggiate e sanzionate con l'approvazione e la benedizione dello stato.

Concorrenza straniera. Durante la seconda metà del secolo diciannovesimo la formazione di un mercato mondiale sembrava una tendenza inarrestabile.  Sfortunatamente si trattava più di una aspirazione da parte di alcune imprese commerciali e industriali che una realtà con solide fondamenta. Quando sono sorti problemi, invece di risolverli attraverso l'applicazione di volontà e di creatività, gli appartenenti alla confederazione delle industrie nazionali e dei sindacati dei lavoratori, hanno imboccato, quasi dappertutto, la scappatoia della protezione da parte dello stato, richiedendo l'introduzione di tariffe e quote all'importazione. Questo ha eliminato o ridotto notevolmente, in molti casi, la concorrenza straniera e accresciuto il potere monopolistico delle grandi imprese nazionali, il tutto grazie allo stato nazionale. Il rapporto causale stretto tra l'introduzione delle tariffe e la crescita dei monopoli è così evidente che il presidente della American Sugar Refining Company ammise apertamente davanti alla Commissione Industriale del Congresso che la Dingley Tariff (1897) negli USA era "la madre di tutte le concentrazioni" ("the mother of all trusts.") [1965, Peter d'A. Jones]

Potenziali nuovi produttori. Le imprese sorte ai tempi della Rivoluzione Industriale erano impegnate nella produzione di beni materiali. L'espansione ulteriore dell'economia ha portato ad attribuire un ruolo importante alla produzione di cosiddetti servizi pubblici (trasporti, gas, elettricità, ecc.) e allo sfruttamento di risorse naturali (soprattutto petrolio). In tutti questi casi lo stato è intervenuto avocando a sé la proprietà e il controllo monopolistici o concedendo a qualche compagnia i diritti esclusivi di sfruttamento, e ritagliandosi una fetta dei guadagni attraverso la tassazione. Queste imprese sono state classificate sotto la (falsa) categoria di monopoli naturali e sono state qualificate come attività di interesse nazionale; per questi motivi, necessariamente, dovevano essere poste sotto il (presunto) benevolo controllo dello stato nazionale, con la totale esclusione di potenziali nuovi produttori. Non solo la concorrenza in questi settori era proibita per legge ma lo era anche la produzione per autoconsumo (ad es. la produzione di elettricità in Italia). Un ulteriore incoraggiamento alla concentrazione a scapito della competizione può essere individuato nella politica degli acquisti da parte dello Stato Federale Americano che ha favorito le grandi compagnie. Per fare un esempio, nel corso della seconda Guerra Mondiale, dieci grandi società hanno ricevuto un terzo di tutti gli ordinativi di materiale bellico; durante lo stesso periodo, 500.000 piccole imprese sono fallite negli USA. [1965, Peter d'A. Jones]

Attori: dagli individui alle istituzioni
Uno dei protagonisti principali della Rivoluzione Industriale è stato il commerciante imprenditore che, in molti casi, si è trasformato in imprenditore industriale.
Al fine di espandere gli affari, molto spesso gli imprenditori avevano bisogno di ulteriori risorse per introdurre migliori macchinari e per comperare maggiori quantità di materie prime.
Questo, tra gli altri fattori, ha portato ad un cambiamento radicale di coloro che avrebbero svolto il ruolo principale negli affari. Dopo l'originaria fase capitalistica nella quale gli imprenditori industriali avviavano l'impresa con risorse più o meno limitate e la gestivano in prima persona, passiamo ad una seconda fase nella quale gli uomini d'industria vengono assistiti e, in alcuni casi, sostituiti da dirigenti e personale tecnico, e sono controllati, nello svolgimento dei loro affari, da istituzioni finanziarie e da grandi azionisti. Nel terzo libro del "Capitale" Marx descrive la presenza delle società per azioni e parla della separazione tra direzione e proprietà. Questo segna il venir meno in importanza del capitalista individuale e spinge Marx a dichiarare che ciò

"significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell'ambito dello stesso modo di produzione capitalistico." [1894, Karl Marx]

A conferma della stessa tendenza, Thorstein Veblen all'inizio del ventesimo secolo mette in luce il contrasto, all'interno della società americana, tra l'ingegnere da una parte e lo speculatore finanziario dall'altra. [1904, Thorstein Veblen]

In Europa, il peso crescente nell'economia assunto dallo stato e dalle istituzioni finanziarie (la banca, la borsa) significa che l'agire e il decidere si spostano dai centri industriali di Manchester e Lyon, ai centri politici e finanziari di London e Paris.
Il maggior ruolo occupato dallo stato e dalle istituzioni ad esso collegate è stato salutato con favore da molti intellettuali. Ad esempio, i membri della American Economic Association in occasione della sua fondazione (1885) dichiararono:

"Noi consideriamo lo stato come una entità il cui attivo operato è una delle condizioni indispensabili per il progresso umano." [1965, Peter d'A. Jones]

La prima metà del secolo ventesimo, con le lunghe Guerre Mondiali intramezzate da una lunga depressione, testimonia la sottomissione degli individui e la ascesa a posizioni di dominio delle istituzioni, prima fra tutte lo stato. Durante questa fase, continuata per un notevole periodo anche dopo la guerra, tutto viene a cadere sotto il controllo amministrativo dei funzionari statali e dell'apparato burocratico, persino nel paese considerato il più capitalistico tra tutti, gli USA.

Questi aspetti di istituzioni finanziarie e di concentrazioni monopolistiche si sono rafforzati l'uno con l'altro in quanto le istituzioni finanziarie avevano moltissimo da guadagnare da fusioni gigantesche. È stato stimato che i profitti di borsa del sindacato promotore della fusione della U. S. Steel nel 1901 ammontarono alla cifra incredibile di  62.500.000 dollari. [1965, Peter d'A. Jones]

Per quanto riguarda il più vasto ruolo svolto da grandi organizzazioni, in particolar modo lo stato, esso è stato accolto con favore o accettato senza problemi sia dai conservatori che dai progressisti, sia dai rivoluzionari che dai reazionari (qualunque significato si attribuisca a questi termini); tutti hanno visto in ciò o un passo necessario verso il socialismo o il solo modo per opporsi ad esso.  Otto von Bismark e Rudolf Hilferding possono essere visti come due esponenti di queste differenti prospettive, uniti solo dal desiderio di attribuire allo stato un potere crescente.

Di fronte a questa situazione, è appropriato affermare che ci siamo allontanati di molto dall'ambiente e dalla visione economica di Adam Smith. In questo cosiddetto "capitalismo" nel quale lo stato occupa un posto così importante, il rumore delle macchine (capitale) e le voci degli imprenditori (capitalisti) giungono come un suono lontano. In questa realtà, di certo né il capitale né i capitalisti occupano il posto centrale come tratteggiato negli scritti di Smith, Ricardo e Marx.

In breve, la realtà è stata modificata totalmente ma il vocabolario, per motivi misteriosi o mistificatori, è rimasto estraneo al cambiamento. Il neo-mercantilismo viene chiamato moderno capitalismo e i liberali (liberals) sono, negli Stati Uniti, i sostenitori dell'intervento statale e gli oppositori del laisser-faire. A causa di questo cattivo uso dei termini, molti non si rendono conto della trasformazione colossale che ha avuto luogo e che non si riflette nel linguaggio comune. Questo fatto non costituirebbe un problema se non fosse che le parole che usiamo servono a costruire ed esprimere i pensieri. E vocaboli impropri o irrilevanti portano direttamente a ragionamenti fallaci.

 

Il declino del capitalismo (^)

Mentre hanno luogo tutte queste trasformazioni che avrebbero non solo cambiato i tratti essenziali del capitalismo ma lo avrebbero annullato del tutto, il solo aspetto che sembra sopravvivere è il cambiamento tecnologico. Comunque, esso non avviene più al ritmo sostenuto di una volta, perché il capitalismo ha iniziato a perdere colpi anche quando l'industria rimaneva il centro pulsante della società.
  Il declino del capitalismo, preludio alla sua estinzione, è il risultato di tre debolezze rispetto alle forze dominanti del potere politico e finanziario. Queste debolezze appaiono come:

Mancanza di energia
  Il capitalismo emerge in opposizione alle limitazioni e regolamentazioni del mondo feudale e alle pratiche mercantiliste dello stato. Ma, paradossalmente, il successo stesso dell'impresa capitalistica è alla radice di una perdita di energia la cui causa può essere sintetizzata in una sola parola: burocratizzazione. Due fenomeni sono alla base della burocratizzazione dell'impresa:

incremento delle dimensioni. La crescita nelle dimensioni fino a un certo punto permette una maggiore produttività; infatti rende necessario introdurre migliori procedure standardizzate per mezzo di nuove figure professionali che gestiscono, controllano, amministrano l'impresa. È soltanto una espansione continua e irragionevole, non basata su motivazioni produttive razionali, che porta alla formazione di pachidermi industriali, impacciati nell'agire e lenti nel reagire.
intrusione dello stato. Lo stato che, durante la fase di ascesa del capitalismo, rimane o viene tenuto in disparte (almeno in Inghilterra), si ripresenta con maggior forza, individuando nelle grandi imprese le riserve migliori da cui estrarre più facilmente risorse (tassazione) e su cui riversare pesi (regolamenti) per ingraziarsi i favori della gente (l'elettorato) soprattutto nell'epoca della democrazia di massa.

  Gli effetti negativi della burocratizzazione delle imprese, come conseguenza dell'incremento di dimensioni e dell'intrusione dello stato, raggiungono il loro apice nei casi di salvataggio statale o di statalizzazione vera e propria delle imprese, fenomeni che non dovrebbero essere nemmeno contemplati se fossimo davvero in una società capitalistica.
Ogni ulteriore accrescimento delle dimensioni dell'impresa capitalistica, mentre offre l'apparenza di un rafforzamento, in realtà indebolisce l'originario spirito degli imprenditori a tal punto che essi non hanno più la forza di ribellarsi alle interferenze dello stato e alle sue imposizioni e limitazioni, per quanto inutili o insensate esse siano. E questo è alla base di un'altra mancanza.

Mancanza di speranza
La mancanza di energia porta a una mancanza di speranza e di fiducia che qualcosa possa mai essere conseguito non solo contro lo stato ma al di fuori dello stato.
Quando questa convinzione si impadronisce della mente delle persone (imprenditori, lavoratori) si verifica una corsa inevitabile verso il rifugio e la sicurezza, che significa mettere ogni singola impresa sotto le ali protettive dello stato. I capitalisti di un tempo (1751) che avevano risposto a Colbert che domandava cosa lo stato potesse fare per loro: "laissez-nous faire", hanno, nel corso del tempo, perso sempre più la speranza di essere capaci di agire senza l'assistenza dello stato. Essi non sono più irritati o pieni di paura per l'intervento dello stato; anzi lo richiedono sotto forma di protezione dalla concorrenza straniera (tariffe), di assistenza alla produzione (credito a tasso agevolato), di aiuto ai lavoratori (cassa integrazione guadagni) e così via.
Questa tendenza di fare affidamento all'aiuto dello stato è stata presente tutto il tempo, soprattutto in alcuni paesi in cui lo spirito del capitalismo industriale e del liberismo non sono mai stati molto forti (ad es. in Francia e in Italia). Ma, quando ha contagiato anche l' Inghilterra durante il ventesimo secolo, questo ha rappresentato un segno rivelatore che una fase storica si era conclusa.
Il declino del capitalismo, manifestatosi attraverso una mancanza di energia e di speranza, avrebbe potuto essere arrestato se non si fosse aggiunta una ulteriore carenza.

Mancanza di idee
Soprattutto durante il ventesimo secolo, la ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti e di nuovi prodotti si è concentrata nei centri e nei laboratori delle grandi imprese industriali; ma, nonostante investimenti enormi, le scoperte veramente rivoluzionarie e quelle che hanno portato profitti (da un punto di vista economico e sociale) sono state il risultato di singoli individui al di fuori del mondo degli affari, talvolta occupati nelle loro ricerche da casa. Questo può apparire stupefacente per coloro che sono cresciuti fiduciosi che le grandi organizzazioni fossero entità altamente produttive e creative.
In realtà, la comunità industriale del ventesimo secolo non solo non è dietro (stimolando, finanziando) a molte delle maggiori scoperte ma, talvolta, non si rende nemmeno conto che è stato conseguito un salto tecnologico che potrebbe avere utilizzi molto proficui per tutti.
Questo è accaduto, ad esempio, per la macchina fotocopiatrice, di cui nessun uomo d'affari ragionevole sembrava immagine un qualche possibile uso. È accaduto di nuovo per il computer, il cui maggior produttore (IBM) non ha saputo vedere alcun utilizzo a livello personale. Per questo la rivoluzione informatica è stata promossa e guidata da individui che sperimentavano nelle loro autorimesse o assemblavano componenti a casa. L'unione di elaboratori elettronici e comunicazione è stata il prodotto di studenti che volevano risolvere il problema di inviare informazioni (come nel caso del modem) o da individui isolati alla ricerca di modi migliori di condividere la conoscenza (Tim Berners-Lee e la nascita del World Wide Web) [1999, Tim Berners-Lee]. Un caso esemplare di mancanza di idee è rappresentato di nuovo da quella che era un tempo la maggiore produttrice al mondo di computers, ridotta a chiedere ad uno studente fuori corso di produrre un sistema operativo per le sue macchine. E possiamo continuare con il sistema operativo Linux, impiegato al giorno d'oggi dalla maggior parte dei servers del mondo, la cui origine non ha nulla a che vedere con il mondo delle grandi imprese; o la rivoluzione MP3 (condividere files musicali direttamente tra computers), iniziata da un ragazzo di 19 anni, che ha colto totalmente di sorpresa l'industria musicale.
Il fatto strano non è che queste cose sono avvenute ma che molti ancora considerano le grandi imprese "capitalistiche" il centro della creatività e il motore del progresso, come nella fase più avanzata della Rivoluzione Industriale. Questo non è più il caso da un pezzo ed è perciò abbastanza strano chiamarle ancora imprese capitalistiche.

Tutto il discorso svolto fino ad ora, porta alla semplice constatazione che definire questo deserto di energie, speranze, idee con il nome di capitalismo è una cosa insensata che fa la pari con la qualificazione di socialismo attribuita agli orrori del regime stalinista. Entrambi sono perfidi inganni che non dovrebbero essere accettati da alcun essere raziocinante e informato, e certamente non dalla comunità scientifica.
Durante il secolo ventesimo l'originario imprenditore capitalistico non solo si è adattato alla mentalità burocratica ma la ha adottata nella condotta degli affari, mescolando economia e politica, intrecciandosi con il potere dello stato e facendo pressioni per ottenere protezione e favori.
Lo spirito capitalistico era finito.

 

Il superamento del capitalismo (^)

Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è ancora, in gran parte, quello costituito da industrie, mercati e innovazioni tecnologiche, come ai tempi del capitalismo.
Ma, come la vista di una estesa pianura non dovrebbe rappresentare le fondamenta della convinzione che la terra è piatta, così l'esistenza di industrie, mercati e macchine non dovrebbe essere presa come base per credere che il capitalismo è ancora vivo e in buona salute.
Infatti, se non rimaniamo alla superficie ma andiamo un po' più a fondo nella nostra analisi, scopriamo che, per la maggior parte del ventesimo secolo, lo scenario economico ha mostrato le seguenti realtà:

Industrie:  industrie di proprietà dello stato, industrie controllate dallo stato, industrie regolamentate dallo stato. Il dirigismo statale è apparso sotto forma di New Deal (USA), Commissariat général du Plan (Francia), National Economic Development Council (Regno Unito), Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica (Italia), solo per citare alcuni esempi.
Mercati:  mercati nazionali, mercati protetti, mercati regolati. L'idea di un mercato mondiale libero non era nei programmi di chicchessia, qualunque fosse l'etichetta politica sotto cui operava (conservatori, vecchi liberali, socialdemocratici, ecc.).
Tecnologia:  sviluppo della tecnologia per scopi militari; più vigorosa protezione di nuove invenzioni attraverso brevetti; rallentamento relativo nell'introduzione e nella diffusione di miglioramenti tecnologici durante la prima metà del secolo ventesimo.

Pur in presenza di queste trasformazioni, ci sono intellettuali, uomini politici, giornalisti, scrittori, che hanno continuato e continuano a usare il termine capitalismo come se niente di sostanziale fosse accaduto; oppure vi hanno aggiunto una serie di qualificazioni per renderlo accettabile. Definizioni paradossali come "capitalismo di stato" o "capitalismo monopolistico" sono state introdotte, e questo mostra quanto forte possa essere il potere di vocaboli familiari e di convinzioni a lungo coltivate.
Idee molto radicate sono dure a morire, come è stato sottolineato da Keynes in una delle sue frasi più citate: "Le persone pratiche, che si ritengono immuni da influenze intellettuali, sono di solito succubi di qualche economista defunto." [1936, John Maynard Keynes]
Attualmente, molte persone (se non la maggior parte) sono ancora schiave delle idee di qualche economista morto da tempo (molto probabilmente, delle idee di Keynes). Ad esempio, molti credono ancora che le ricette economiche di Keynes, fornendo giustificazioni teoriche all'intervento dello stato, hanno salvato il capitalismo da sicura rovina.  Sarebbe più corretto ed appropriato affermare che Keynes ha posto l'ultimo chiodo nella bara del capitalismo e ha dato rispettabilità ad un sistema economico che, in mancanza di un nome migliore e più originale, è stato chiamato neo-mercantilismo.

Ad ogni modo, ci sono stati anche taluni studiosi che si sono resi conto del fatto che importanti cambiamenti avevano avuto luogo e che ci si stava muovendo verso un sistema sociale ed economico sostanzialmente diverso dal precedente.
Lo stesso Keynes, nel 1926 scrisse un saggio dal titolo rivelatore: "La fine del laissez-faire" [1926, John Maynard Keynes] nel quale, dopo aver tratteggiato l'ascesa e la caduta del concetto e della pratica del "laissez-faire", dichiarò di essere a favore dell'intervento regolatore di istituzioni al di sopra dell'individuo. In un altro saggio dal titolo "Autarchia economica" egli sostenne la necessità di passare, in maniera realistica, ad una economia basata sull'autarchia nazionale e sull'isolamento economico, ponendosi quindi sostanzialmente contro il "laissez-passer". [1933, John Maynard Keynes].
Essendo questi due fattori (laissez-faire, laissez-passer) i tratti qualificanti che differenziano il capitalismo dal mercantilismo, non è molto chiaro come la loro scomparsa possa essere conciliata con la sopravvivenza del capitalismo. Di certo questo fatto non rientrava nelle preoccupazioni di Keynes perché, a suo giudizio, il capitalismo internazionale e individualista

"non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non mantiene quel che ha promesso. In breve, non ci piace, e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo." [1933, John Maynard Keynes]

Non è quindi sorprendente che, a seguito di un simile atteggiamento mentale, egli abbia formulato raccomandazioni che hanno contribuito così tanto alla fine del capitalismo.

Nel periodo tra le due Guerre Mondiali, quando in molti paesi sia avanzati che arretrati lo stato aveva assunto il controllo dell'economia, alcuni studiosi hanno cercato di definire la nuova realtà usando termini come "collettivismo burocratico" [1939, Bruno Rizzi] o "società manageriale" [1941, James Burnham] per caratterizzare una società dominata dallo stato e dalla nuova classe di managers e burocrati.
Dopo la guerra, sono apparse altre analisi che hanno utilizzato i termini di "società industriale" [1962, Raymond Aron] e "stato industriale" [1967, John Kenneth Galbraith] per definire la forma di produzione e di organizzazione sociale delle società avanzate.

Ci sono stati anche saggi e articoli che hanno presentato o predetto una convergenza tra le economie cosiddette socialiste e quelle cosiddette capitaliste, sotto il controllo benevolo di uno stato regolatore.
Altre analisi sono state critiche del ruolo dello stato, denunciando la comparsa di una Nuova Classe di strati privilegiati che utilizzano il potere statale per sfruttare le masse e tenerle in una posizione di subordinazione; o hanno lanciato segnali di allarme focalizzando l'attenzione sul ruolo sempre più rilevante occupato dal complesso militare-industriale all'interno dello stato, vedendo in ciò una minaccia al sistema politico rappresentativo. [1961, Dwight D. Eisenhower]

Ciò che tutti questi testi hanno in comune, in modi differenti, è di mettere in luce l'importanza assunta dallo stato come produttore, datore di lavoro, distributore e distruttore di risorse. [1966, Paul A. Baran e Paul M. Sweezy; 1967, Report from Iron Mountain]
Lo stato moderno, nelle parole di Marx ed Engels " non è altro che il comitato per gestire gli affari della borghesia nel suo complesso." [1848, Karl Marx e Friedrich Engels]. Questo può essere stato il caso alla metà del secolo diciannovesimo, ma la realtà del secolo ventesimo non offre molti motivi per confermare questa idea.
Dal tempo del Manifesto dei Comunisti in poi, lo stato è diventato, sempre più, una entità con una sua propria struttura, non subordinata ad alcuno, impegnata a gestire in prima persona i propri "affaires", consapevole di sicuro dell'esistenza di altri attori di un certo peso ma non certo al servizio di un altro potere interno o esigenza nazionale che non fosse la propria sopravvivenza. A questo scopo, i prezzi sono stati regolati o lasciati liberi di fluttuare, le tariffe protezionistiche sono state introdotte o abolite, le imprese sono state nazionalizzate o de-nazionalizzate, tutto avendo di mira il supremo interesse dello stato e delle casse dello stato, e cioè la cerchia politica dominante, gli strati associati, il loro potere e la loro ricchezza materiale.

Due esempi classici della supremazia del potere politico rispetto alle esigenze e influenze economiche possono essere desunti dalla storia della industria dell'acciaio negli Stati Uniti.
Il 6 Aprile 1962, la U.S. Steel Company decise di aumentare il prezzo base dell'acciaio di circa il 3,5 %. Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy (Partito Democratico) non era d'accordo e si schierò contro l'aumento, forse perché doveva ripagare i Sindacati per l'appoggio ottenuto alla sua elezione. Una settimana più tardi, i dirigenti della U.S. Steel Company si trovarono praticamente costretti a cancellare gli incrementi di prezzo.

Quaranta anni dopo, nel Marzo 2002, un altro presidente degli Stati Uniti, George W. Bush jr, appartenente ad un diverso partito (Partito Repubblicano), decise di innalzare fino al 30% le tariffe protettive riguardanti lo stesso settore produttivo (acciaio). Ad un osservatore superficiale potrebbe apparire come se tutto fosse cambiato, con il mondo della produzione di nuovo al posto di comando, ma sarebbe questa una lettura fuorviante dell'evento. In realtà, il nuovo capo ha bisogno di coltivarsi il favore dell'elettorato in alcuni stati chiave. L'elezione al Congresso di rappresentanti del suo partito e le sue future possibilità di essere rieletto hanno la precedenza assoluta rispetto a decisioni basate su razionali miglioramenti produttivi per il lungo periodo e su sviluppi tecnologici del settore. Lo sguardo è rivolto alle faccende elettorali e non ai problemi economici. L'economia, nel suo complesso, è ancora una volta sottomessa alla politica.

La convinzione fallace che lo stato non è altro che il comitato d'affari della borghesia capitalistica è stata parecchie volte infranta dalla realtà.  Sfortunatamente le idee fallaci hanno una propria vita, non dipendente da fatti concreti, soprattutto se esse sono sostenuto e promosse da interessi acquisiti particolarmente forti. E nulla è così resistente come l'interesse dello stato nel far credere alle persone che esse vivono in una società libera, con un libero mercato, che ogni scompenso e disagio economico deriva dal capitalismo, presente sempre e dappertutto, ragion per cui lo stato deve essere presente continuamente per proteggere tutti.

Nonostante ciò, non tutti sono stati così creduloni da accettare che il capitalismo esista ancora.
Schumpeter, in uno scritto che risale al 1946 in cui fa riferimento all'antagonismo crescente tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, prevedendo in un certo qual modo quella che sarà chiamata la "guerra fredda" afferma che

"si tratta di una guerra tra un paese cosiddetto socialista ed un paese cosiddetto capitalista". ("it is a war between a supposedly socialist and a supposedly capitalist country.") [1947, J. A. Schumpeter]

Nel 1951 è apparso un libro che tratteggiava la storia politica ed economica dell'Inghilterra a partire dal 1880, dal titolo rivelatore "Il declino e la caduta del capitalismo inglese" [1951, Keith Hutchinson].
Nel 1959 Adolf A. Berle, un acuto studioso del capitalismo, che aveva già pubblicato nel 1932 un testo magistrale sulla realtà della moderna società per azioni, scrisse in un settimanale di larga diffusione:

"In America esso [il capitalismo] smise di esistere all'incirca intorno al 1920 e 1930." [Adolf Berle in 1975, Richard T. Gill]

Se questo è il caso, e molte esperienze e dati della realtà ci inducono a credere che sia così, dovremmo ricavare alcuni insegnamenti che ci aiutino a prendere una posizione chiara per quanto concerne atteggiamenti mentali e comportamentali nella controversia tra capitalismo e anticapitalismo.

 

Oltre il capitalismo e l'anticapitalismo (^)

Come sottolineato precedentemente, capitalismo è una parola che è divenuta di uso corrente all'inizio del ventesimo secolo per designare una società caratterizzata da due aspetti principali:
    -  il dominio del capitale (sotto forma di strumenti meccanici produttivi)
   -  il dominio dei capitalisti (nel ruolo di imprenditori individuali).
Sarebbe stato possibile fare a meno del termine capitalismo in quanto parole più appropriate avrebbero potuto essere utilizzate per designare quel periodo come, ad esempio, industrialismo, sistema industriale, società industriale, età della meccanizzazione [1948, Siegfried Giedion].
Successivamente, quando entrambi questi aspetti dominanti hanno subito un declino e la politica, attraverso lo stato, ha preso il sopravvento, una nuova denominazione avrebbe dovuto emergere per designare il nuovo periodo.
Infatti, dopo che il mercantilismo è stato sostituito dal capitalismo (industrialismo), è accaduto che, soprattutto nel corso del secolo ventesimo, il capitalismo è stato soppiantato da una versione aggiornata del mercantilismo caratterizzata da:

Finanza statale: lo stato prende il posto degli individui come il maggiore fornitore di liquidità per costituire o ampliare una impresa. Questo avviene attraverso il controllo del credito per mezzo di istituzioni finanziarie sottoposte ad una banca centrale controllata dallo stato;
Dirigismo statale: lo stato condiziona (o cerca di condizionare) le decisioni dei produttori e dei consumatori, acquisendo la proprietà e dirigendo direttamente una larga parte dell'industria e decidendo come e dove allocare le risorse;
Assistenzialismo statale: lo stato si sostituisce alla Chiesa nel ruolo di padre benevolo e compassionevole da cui tutti si aspettano protezione, aiuto, favori.

Questi ed altri cambiamenti hanno trasformato il capitalismo così profondamente e ampiamente che, con riferimento alla realtà del secolo ventesimo, dovremmo abbandonare l'uso del termine capitalismo perché non più appropriato, per quante ulteriori qualificazioni vi si aggiungano oltre quella di capitalismo industriale (ad es. capitalismo finanziario, capitalismo di stato, capitalismo monopolistico, ecc.). Infatti, mentre industria e capitalismo sono due termini che possono integrarsi l'un l'altro, tutti gli altri sono in totale contraddizione con esso, almeno se prendiamo i classici testi di Smith, Ricardo e Marx come punti di riferimento. Se consideriamo il capitale, vale a dire i mezzi di produzione sotto forma di macchine (capitale fisso) e materie prime (capitale circolante), come un fattore centrale del modo capitalistico di produzione, diventa allora abbastanza strano utilizzare la stessa parola, come nella espressione "capitale finanziario", per designare, ad esempio, avventure puramente speculative in cui non è previsto alcun tipo di produzione; l'espressione è quindi un pervertimento nell'uso del linguaggio perché dà l'idea che rimaniamo ancora nell'area del capitalismo (cioè industrialismo), solo di un tipo differente di capitalismo. Oltre a ciò, questo cosiddetto capitalismo finanziario è così intriso di regolamentazioni statali e così dominato da cricche politiche monopolistiche da ridurre in farsa i tratti di libertà e di concorrenza propri del capitalismo.

Forse è nostro destino il fatto di riuscire a definire una fase storica solo in retrospettiva, quando è finita o volge al termine; la nostra epoca non fa eccezione, contrariamente a quanto altri possano sostenere [vedi 1970, Daniel Bell e Irving Kristol eds., Introduction]
Per cui, considerato che, durante il ventesimo secolo, l'attore principale della scena sociale ed economica è risultato lo stato, sembra appropriato designare quel periodo con il nome di statismo.
Lo statismo è un sistema socio-economico caratterizzato da:

Potere statale. Lo stato avoca e concentra in sé il potere di intervento su tutte le sfere della vita sociale.
Entrate statali. Lo stato assorbe una consistenze porzione di risorse. In molti paesi Europei le entrate statali arrivano al 40 - 50% del prodotto interno lordo [fonte: OECD 2002].
Impiego statale. Lo stato fissa e controlla le regole sull'impiego e rappresenta (esso stesso e attraverso i settori a lui collegati) il maggiore datore di lavoro di un paese.

Coloro che sono a favore o contro il capitalismo sembra non si siano o non si vogliano rendere conto che una entità molto potente, lo stato, ha sostituito l'imprenditore capitalistico e quindi il sistema di relazioni capitalistiche.
È quindi evidente che sia i sostenitori che gli avversari del capitalismo sono entrambi su posizioni erronee perché sostengono o combattono qualcosa che non esiste più.
Indichiamo brevemente perché il loro contendere è fuori tempo e fuori luogo.

Sostenitori del capitalismo: confondono il problema.
A coloro che sono a favore del capitalismo andrebbe fatto presente che:
    -  l'era della produzione meccanica ha dato luogo alla produzione automatizzata effettuata attraverso congegni elettronici;
    -  la fornitura di servizi è diventata relativamente molto più importante della produzione di beni e questo riduce l'importanza della classe dei capitalisti (i commercianti-imprenditori).
In altre parole, il tempo in cui il macchinario (cioè, il capitale industriale) dominava con il capitano d'industria sul ponte di comando, è finito. Questo non significa che non si producono più beni industriali o che non ci sono più imprenditori industriali; significa solo che queste non sono più le caratteristiche principali della fase storica attuale. [vedi 1973, Daniel Bell; 1980, Alvin Toffler].
Per quanto riguarda la libertà e la concorrenza (commerciare, intraprendere, assumere rischi, ecc.), questi sono tratti e tendenze comuni a tutte le età e a tutti i popoli in misura diversa; non è né appropriato né accurato caratterizzarli come aspetti esclusivamente capitalistici. Essi non scompariranno fino a quanto esisterà la speranza e la voglia di far avanzare l'avventura umana.

Avversari del capitalismo: confondono il bersaglio
Gli oppositori del capitalismo in maniera similare fanno riferimento a realtà che avevano un peso molto tempo fa, nel bene e nel male. Ad esempio:
    -  l'importanza (almeno in teoria) ancora attribuita alla proprietà dei mezzi di produzione rivela una posizione che non tiene conto dei profondi cambiamenti dal punto di vista legale e sociale che hanno riguardato i lavoratori, i direttori d'impresa e gli azionisti [1932, Adolf A. Berle jr. e Gardiner C. Means].
    -  l'importanza attribuita ad una forza-lavoro fisicamente robusta, come ai tempi della fabbrica organizzata secondo il modello del taylorismo, passa sotto silenzio il ruolo svolto nell'economia moderna dall'informazione e dalla conoscenza, e i cambiamenti profondi nei rapporti di produzione connessi alla necessità di un uso generalizzato dell'informazione e del padroneggiamento di conoscenze appropriate [1988, Shoshana Zuboff].  Questo riduce progressivamente il ruolo e il peso della classe operaia e mette fine alla sua funzione di palingenesi sociale in quanto componente centrale e maggioritaria della società.

Coloro che sono a favore o contro il capitalismo si trovano quindi bloccati in una posizione estremamente scomoda, che non favorisce per nulla il progresso della conoscenza. Essi non vogliono dire addio né ai capitalisti né agli operai, ma questo è ciò che è accaduto nelle esperienze sociali più avanzate. Essi non vedono il declino di importanza del "capitale" e dell'economia nel suo complesso. Questa tendenza, con tutta probabilità,  continuerà ad accentuarsi una volta che la produzione sia eseguita dappertutto con strumenti automatici, la povertà sia ridotta e i temi della cultura e dell'ecologia (cioè, una esistenza salutare in un ambiente salutare) siano diventati dappertutto questioni più importanti e urgenti dei problemi materiali ed economici (cioè, il procurarsi i mezzi per l'esistenza).

La storia si caratterizza per l'emergere di nuove realtà e per questa ragione gli storici inventano nomi per definire periodi che esprimono un determinato modo di vivere e di pensare. Il fatto che per gli ultimi cento anni siamo rimasti bloccati con il termine capitalismo mentre lo statismo stava dominando sempre più, significa solo che gli storici hanno perso il contatto con la realtà (mancanza di percezione) o la capacità di cogliere le novità (mancanza di visione). E questo ha effetti del tutto negativi sul progresso personale e sociale.

Infatti, e arriviamo al punto centrale di questo saggio, è a favore o contro lo statismo che il dibattito e l'azione avrebbero dovuto focalizzarsi. Ciò dovrebbe avvenire soprattutto adesso che anche lo statismo è in declino e nuovi fenomeni stanno presentandosi che trascendono l'orizzonte limitato imposto dallo stato. È dunque tempo di far partire il dibattito, adesso, lasciandosi indietro coloro che si rifiutano ancora tenacemente di lasciar funzionare il cervello e sono ancora aggrappati a idee obsolete utilizzando parole obsolete.

Tra i molti racconti che O. Henry scrisse, ce ne è uno riguardo due individui divisi da una inimicizia profonda a causa di un fatto avvenuto di recente, o almeno questo è quanto siamo portati a credere. Alla fine del racconto scopriamo che la ragione del loro rancore è qualcosa avvenuto molti e molti anni prima, ma per le due persone è come se il tempo si sia fermato a quel fatto e tutte le loro idee e azioni sono ancora orientati verso quell'evento.
Forse lo stesso è avvenuto per i sostenitori e gli avversari del capitalismo. Essi vivono in un mondo di loro invenzione, scomparso da tempo, fabbricando scenari che non hanno né effettive connessioni né positive ripercussioni sulla realtà attuale.
Dovremmo lasciare  le idee morte a riposare sepolte con i morti.
Abbiamo, ogni giorno, una vita nuova da costruire.

 


 

Riferimenti (^)

La lettura di questo saggio non sostituisce di certo la lettura di tutti o della maggior parte dei libri su cui questo testo è basato. Infatti, uno degli obiettivi è di stimolare la lettura (o rilettura) di alcuni scritti classici e di documenti meno conosciuti, con una mente aperta e sgombra da preconcetti.

[1776] Adam Smith,  An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, The University of Chicago, Chicago, 1990

[1817] David Ricardo,  Principles of Political Economy and Taxation, Penguin, Harmondsworth, 1971

[1832]  Charles Babbage,  On the Economy of Machinery and Manufactures [Sull'economia delle macchine e delle manifatture, Utet, Torino, 1863]

[1835]  Andrew Ure,  The Philosophy of Manufactures, [Filosofia delle manifatture, Utet, Torino, 1863]

[1841] Friedrich List, Das nationale System der politischen Oekonomie [Il sistema nazionale dell'economia politica, Utet, Torino, 1936]

[1845] Karl Marx,  Misère de la philosophie, Réponse à la philosophie de la misère de M. Proudhon [Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma, 1971]

[1845-1847] Frédéric Bastiat,  Sophismes économiques, Paris

[1848] Karl Marx and Friedrich Engels, Manifest der kommunistichen Partei [The communist manifesto, Penguin, Harmondsworth, 1968]

[1849] Karl Marx,  Wage Labour and Capital, Lawrence and Wishart, London, 1977 [Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, Roma, 1971]

[1850] Frédéric Bastiat,  Harmonies économiques, Paris [Armonie economiche, Utet, Torino, 1945]

[1852] Karl Marx, The Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte, Lawrence and Wishart, London, 1977

[1867] Karl Marx,  Das Kapital, erster Band [Il capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1972]

[1894] Karl Marx,  Das Kapital, dritter Band [Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma, 1972]

[1902] John Hobson,  Imperialism. A study, Allen & Unwin, London, 1905 [Imperialismo, Isedi, Milano, 1976]

[1902] Werner Sombart,  Der Moderne Kapitalismus [Il capitalismo moderno, Utet, Torino, 1967]

[1904] Thorstein Veblen,  The Theory of Business Enterprise, The New American Library, New York, 1932 [La teoria dell'impresa, Franco Angeli Editore, Milano, 1970]

[1904-1905] Max Weber,  Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus [L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1965]

[1905] Paul Mantoux,  La révolution industrielle au siècle XVIII [La rivoluzione industriale, Editori Riuniti, Roma, 1977]

[1906] John Hobson,  The Evolution of Modern Capitalism, The Walter Scott Publishing, London, new and revised edition 1916

[1910] Rudolf Hilferding,  Das Finanzkapital [Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano, 1976]

[1913] Sombart, Werner  Der Bourgeois [Il Borghese, Longanesi, Milano, 1978]

[1916] Vladimir I. Lenin,  Imperialism [L'imperialismo, Editori Riuniti, Roma, 1979]

[1917] Vladimir I. Lenin, The State and Revolution, Penguin, London, 1992  [Stato e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma, 1979]

[1919-1920] Max Weber, General Economic History, Collier Books, New York, 1961

[1926] John Maynard Keynes,  The end of laissez-faire [La fine del laissez-faire: http://www.panarchy.org/keynes/lasciarfare.1926.html]

[1931] Eli F. Heckscher, Merkantilismen, Stockolm [Il Mercantilismo, Utet, Torino, 1936]

[1932] Adolf A. Berle jr. and Gardiner C. Means,  The Modern Corporation and Private Property [Società per azioni e proprietà privata, Einaudi, Torino, 1966]

[1933] John Maynard Keynes,  National self-sufficiency [Autarchia Economica: http://www.panarchy.org/keynes/autarchia.1933.html]

[1936] John Maynard Keynes,  The General Theory of Employment, Interest and Money,  Macmillan, London, 1946

[1939] Bruno Rizzi,  La bureaucratisation du monde, Paris [Il collettivismo burocratico, Sugarco edizioni, Milano, 1977]

[1941] James Burnham,  The Managerial Revolution, Penguin, Harmondsworth, 1945 [La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano, 1947]

[1947] Joseph. A. Schumpeter, Capitalism Socialism and Democracy, Unwin University Books, London, 1966

[1948] Siegfried Giedion,  Mechanization takes command, W.W.Norton & Co., New York and London, 1969 [L'era della meccanizzazione, Hoepli, Milano, 1967]

[1954] Joseph A. Schumpeter,  History of Economic Analysis,  Allen & Unwin, London, 1982

[1951] Keith Hutchinson,  The Decline & Fall of British Capitalism, Jonathan Cape, London

[1952] A. J. P. Taylor,  Economic Imperialism
http://www.panarchy.org/taylor/imperialism.1952.html

[1957] Milovan Djilas,  The New Class, Thames & Hudson, London, 1958

[1959] Adolf A. Berle in Richard T. Gill,  Economics. A text with readings, Goodyear Publishing Company, California, second edition, 1975

[1961] Kostas Axelos,  Marx penseur de la technique, Les Éditions De Minuit, Paris

[1961] Dwight D. Eisenhower, Farewell Address, Washington, 17 January 1961

[1962] Raymond Aron,  Dix-huit leçons sur la société industrielle, Gallimard, Paris

[1965] Andrew Shonfield,  Modern Capitalism. The changing balance of public & private power, Oxford University Press, Oxford, 1969

[1965] Peter d'Alroy Jones,  The Consumer Society. A History of American Capitalism, Penguin, Harmondsworth, 1967

[1966] Paul A. Baran and Paul M. Sweezy,  Monopoly capital. An Essay on the American Economic and Social Order [Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1968]

[1967] John Kenneth Galbraith,  The New Industrial State [Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino, 1968]

[1967] Report from Iron Mountain on the Possibility and Desirability of Peace, Penguin Books, Harmondsworth, 1968

[1970] Daniel Bell and Irving Kristol eds.,  Capitalism Today, Basic Books, New York, 1971

[1971] Jean Baechler,  Les origines du capitalisme [Le origini del capitalismo, Feltrinelli, Milano, 1977]

[1970] Alvin Toffler,  Future Shock, The Bodley Head, London, 1972

[1985] Fernand Braudel,  La dynamique du capitalisme, Flammarion, Paris

[1988] Shoshana Zuboff,  In the Age of the Smart Machine. The future of work and power, Heinemann, London, 1988

[1997] Bruce Bartlett,  The truth about trade in history, Cato papers
http://www.cato.org/pub_display.php?pub_id=10983

[1998] Larry Allen,  The Companion to Capitalism, ABC-Clio, Santa Barbara, California

[1999] Tim Berners-Lee,  Weaving the Web, Texere, London, 2000