Gian Piero de Bellis

Sulla Rivoluzione

(Giugno 2011)

 


 

In passato il termine rivoluzione era utilizzato principalmente con riferimento a fenomeni astronomici, in cui i corpi celesti ruotavano nello spazio seguendo una determinata orbita. Il famoso scritto di Copernico dato alle stampe nel 1543 porta per l'appunto il titolo De revolutionibus orbium coelestium.

Nei secoli seguenti, il termine è stato sempre più utilizzato in riferimento a fenomeni sociali. Lo troviamo quindi per caratterizzare sommovimenti politici in Inghilterra (la Rivoluzione Inglese o guerra civile, 1642-1660) negli Stati Uniti (la Rivoluzione Americana o guerra d'indipendenza, 1775-1783) e in Francia (la Rivoluzione Francese e la fine dell'Ancien Régime, 1789-1799).

Il termine rivoluzione trova poi anche impiego in riferimento a profondi cambiamenti nell'ambito della produzione (la Rivoluzione Industriale) e della conoscenza (la Rivoluzione Scientifica).

Ai giorni nostri l'uso del termine rivoluzione richiama soprattutto alla mente un cambiamento politico radicale come nel caso della Rivoluzione Russa, in cui il vecchio regime zarista fu abbattuto e i bolscevichi si installarono al potere.

Coloro che utilizzano il termine rivoluzione con riferimento a cambiamenti sostanziali (reali o talvolta anche solo apparenti) nella sfera politica vedono quindi la rivoluzione come l'ascesa al potere di un nuovo gruppo dirigente a cui si attribuiscono doti di onestà e di dinamicità in contrasto con il vecchio gruppo dirigente considerato corrotto e responsabile della stagnazione sociale.

Purtroppo gli esiti della Rivoluzione Russa (Stalin e il terrore) e, ancor prima, quelli della Rivoluzione Francese (Napoleone e le guerre di espansione in Europa), fanno considerare questo tipo di rivoluzione (cambio di regime) una non-rivoluzione.
Infatti essa è

- o qualcosa di totalmente fasullo (cioè, cambiare tutto per non cambiare nulla)

- o qualcosa di totalmente inadeguato (cioè una semplice tappa nel lungo processo di liberazione dall'oppressione).

Le cosiddette rivoluzioni che hanno avuto luogo in alcuni paesi arabi nei primi mesi del 2011 sono probabilmente di questo secondo tipo, cioè una semplice tappa verso la liberazione. Chiaramente tutte le forze oscurantiste e reazionarie cercheranno di ostacolare anche nella maniera più subdola e perversa possibile questa dinamica di liberazione. Uno dei mezzi sarà quello di concedere ai nuovi gruppi dirigenti somme enormi per un proclamato aiuto allo sviluppo che si tradurrà, molto probabilmente, in un nuovo ciclo di corruzione generalizzata. Se ciò dovesse avvenire queste “rivoluzioni” arabe (in Tunisia, in Egitto, in Libia) andranno messe nel novero delle rivoluzioni fasulle o non-rivoluzioni.

L'insegnamento che deriva da quanto detto fin qui dovrebbe essere quello di utilizzare il termine Rivoluzione (quando applicato ai fenomeni di potere) in maniera molto più circospetta e limitata, vale a dire solo quando siamo in presenza di veri cambiamenti radicali e profondi nella distribuzione e disseminazione del potere.

Nelle società tecnologicamente avanzate in cui viviamo la rivoluzione ha senso solo in quanto ri-appropriazione del potere (empowerment) da parte di ogni singolo individuo che diventa quindi padrone della propria vita. Questo può avvenire solo se l'individuo stesso opera un cambiamento preliminare in alcuni aspetti essenziali del suo esistere come essere umano razionale.

Chiaramente un discorso di rivoluzione come cambiamento individuale è del tutto fuori posto per coloro che si trovano già in una situazione di appagamento e di soddisfazione personale. Per costoro qualsiasi cambiamento sarebbe o potrebbe essere un peggioramento della situazione.

Ma allora perché stiamo qui a parlare di Rivoluzione?

Parliamo di Rivoluzione perché moltissime persone delle società avanzate vivono attualmente un disagio e uno scontento radicali che non trovano sbocchi risolutivi attraverso l'impiego dei rimedi correnti. O, addirittura, i rimedi correnti sostenuti da alcuni non fanno che peggiorare lo stato di sconforto in cui molti altri si trovano. Gli scontenti e gli insofferenti vorrebbero quindi percorrere nuove strade a loro più congegnali o essere liberi di sperimentare nuovi e più attraenti percorsi. In altre parole essi sono alla ricerca di un nuovo Paradigma.

Vediamo allora che cos'è un Paradigma e che cosa esso ha a che fare con la Rivoluzione.

Nel 1962 lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn pubblicò un testo magistrale che dette vita ad un intenso dibattito nell'ambito della comunità scientifica: The Structure of Scientific Revolutions (La struttura delle rivoluzioni scientifiche).

Ecco dunque che riappare il termine Rivoluzione applicato qui a cambiamenti radicali nel modo di vedere il mondo e di porsi nei confronti della realtà. La tesi del Kuhn è che la conoscenza scientifica avanza attraverso la costruzione di Paradigmi che sono schemi coerenti che ci permettono di interpretare in maniera funzionale la realtà esterna e di operarvi in maniera efficace. Col passare del tempo, la comunità scientifica si trova confrontata con problemi che il paradigma dominante non riesce ad interpretare dal punto di vista cognitivo, diventando quindi inadatto anche a fornire indicazioni utili dal punto di vista operativo. La prima reazione della comunità scientifica è quella di cercare di introdurre piccoli cambiamenti al paradigma in modo da aggiornarlo per cercare di recuperarne il valore cognitivo e operativo. Se i problemi nuovi si moltiplicano e gli aggiustamenti introdotti non sono più in grado di spiegare la realtà e di fornire strumenti adatti all'azione il paradigma va incontro ad una crisi terminale. Esso viene mano a mano abbandonato dagli scienziati più giovani e innovativi e difeso solo da coloro che hanno interessi materiali o anche solo psicologico-affettivi alla conservazione del vecchio paradigma. Alla fine, se non ci sono blocchi esterni all'avanzamento della ricerca scientifica, un nuovo paradigma dominante è destinato ad emergere e ad affermarsi. In tal modo la scienza avanza.

Attualmente noi ci troviamo in una situazione simile per quanto riguarda l'insieme delle scienze sociali e in particolare l'economia e la politica. Infatti le categorie e gli strumenti utilizzati dagli economisti e dagli scienziati della politica per interpretare la realtà e le soluzioni che essi propongono sono privi di qualsiasi valore conoscitivo e operativo. In sostanza la loro scienza non è altro che pura e semplice stregoneria buona solo per creduloni e imbroglioni.

A questo punto si pone però un problema che complica le cose. Quando all'inizio del XX secolo gli studiosi di fisica si sono trovati ad affrontare nuovi problemi che non trovavano risposta nell'ambito del vecchio paradigma (Newton) essi hanno trovato soluzioni (Einstein e la teoria della relatività) che sono state proposte alla comunità stessa, dibattute apertamente, verificate sperimentalmente e poi accettate (apertamente o implicitamente) da tutti, anche dal pubblico ignaro che un nuovo paradigma stava emergendo nel campo della fisica.

Per quanto riguarda i cambiamenti del paradigma sociale, gli scienziati attaccati al vecchio paradigma possono invece contare per la sua difesa su una massa di persone che è stata plasmata a utilizzare le categorie e i concetti del vecchio paradigma e che, per paura o per semplice inerzia mentale, non ha alcuna intenzione di sperimentare il nuovo. Molte persone, per quanto male stiano o per quanta voglia abbiano di porre fine alla loro situazione di disagio, ragionano e operano con le categorie del passato e quindi, nei fatti, precludono a sé stessi e ostacolano agli altri la possibilità di un cambiamento.

Quali sono allora queste categorie del passato che rendono estremamente difficile se non impossibile il cambiamento? Esse sono principalmente le seguenti:

1. Vedere la realtà, tutta la realtà, come composta da dualità intese come polarità che si oppongono e si scontrano (ad es. destra-sinistra, pubblico-privato, capitalismo-socialismo, italiani-stranieri, cooperazione-competizione, piano-mercato, ecc.)

2. Vedere le costruzioni mentali e materiali degli ultimi due secoli come se fossero realtà eterne (ad es. lo stato nazionale, la democrazia parlamentare, i partiti politici, la stampa, la moneta a corso legale, ecc.).

Purtroppo queste due categorie interpretative e operative del passato sono estremamente resistenti e pervicaci perché danno risposta ad esigenze profonde dell'individuo quali:

- la semplificazione cognitiva. Se la mia visuale è composta da due categorie contrapposte (bianco-nero, buoni-cattivi, ecc.) la mia vita risulta semplificata dal punto di vista cognitivo. Purtroppo una visuale così ristretta è più adatta a dei bambini ancora incapaci di cogliere la straordinaria ricchezza di ciò che li circonda che non a delle persone adulte e mature. Un bambino ad esempio scopre che esiste il colore giallo che è diverso dal colore verde; un pittore sa che ci sono parecchie varietà di giallo (in un catalogo di colori ad olio Winsor & Newton se ne contano almeno 14) e parecchie varietà di blu e che taluni colori, come il verde, sono il risultato di un miscuglio di altri colori detti primari (giallo + blu = verde).

- la semplificazione operativa. Se la mia capacità operativa è basata essenzialmente sulle scelte compiute dalle generazioni del passato questo mi semplifica la vita perché non ho da angosciarmi sulle decisioni da prendere. In sostanza non faccio altro che imitare i miei nonni o i miei genitori e accettare di condurre una esistenza nell'ambito di limiti che essi hanno tracciato e che io accetto o subisco, consapevolmente o inconsapevolmente.

Il risultato di queste due semplificazioni, messe in atto e replicate in continuazione, è che la realtà attuale, cioè lo statismo, fatto di contrapposizioni fittizie e di forme organizzative superate, viene sostenuto nei fatti anche se condannato, talvolta in maniera molto accesa, a parole.

Quindi, penso che coloro che rimangono attaccati alle vecchie categorie (di cui fanno uso continuo nel loro linguaggio) e al tempo stesso si dichiarano progressisti, rivoluzionari, anarchici, libertari, non fanno altro che illudere sé stessi e gli altri. Essi sono parte integrante del vecchio paradigma, urlando come ossessi il loro scontento dello stato ma dando come bravi ometti il loro sostegno alle idee e alle pratiche dello stato (talvolta turandosi il naso giusto per far capire che loro lo fanno per salvaguardare interessi superiori, che non si capisce proprio quali siano).

Il fatto che un sistema di potere degenerato e famelico come lo statismo italiano, che sta prendendo in giro milioni di persone e sta rendendo la loro esistenza del tutto miserevole, possa continuare ad esistere così a lungo, dovrebbe farci riflettere. Prima o poi dovremmo davvero porci la seguente domanda: e se fossimo noi, con le nostre idee imprecise e talvolta addirittura superate, il nostro linguaggio un po' rozzo, scostante e ingenuo, i nostri comportamenti inadeguati, sconclusionati e alquanto inconcludenti, la causa vera del permanere dello stato territoriale monopolista e sfruttatore?

 

 


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