Alfredo Morosetti

Ritornare al principio di responsabilità

(Maggio 2012)

 


 

Responsabilità è una parola di cui tutti si riempiono la bocca, ma è anche il principio etico che viene strutturalmente disatteso e dannato dalla nostra cultura dominate.
Essere responsabili vuol dire farsi carico delle decisioni prese, vuol dire ritenere se stessi, da un punto di visto teoretico, ‘causa’ del principio decisionale e, da un punto di vista etico, colpevoli delle decisioni peccaminose prese (ad esempio, rubare beni altrui è un peccato, prima ancora che un reato, di cui sono colpevole se appunto ho il potere decisionale come elemento costitutivo la mia natura umana) e virtuosi per quelle che hanno come effetto la virtù, ossia il bene (l’aver fatto quello che andava fatto). 

La nostra cultura ha ridotto al lumicino il principio di responsabilità. Il meccanismo attraverso cui ha realizzato questo processo è esattamente quello messo in atto dai sovrani assoluti nel momento in cui istituivano il sistema burocratico e la relazione di comando attraverso quella catena in cui i burocrati altro non erano che i mezzi materiali, cioè i singoli anelli, che trasferivano dal centro alla periferia la volontà reale. In pratica, per essere chiari, è quello tipico militare in cui il superiore decide e il sottoposto esegue senza avere altro obbligo che l’obbedienza, perché appunto il sottoposto non ha una volontà sua ma è semplicemente il mezzo che trasferisce ad altri l’ordine ricevuto.

Questo sistema funziona oggi universalmente nella vita sociale, tutti eseguono ordini e si sentono liberati dal principio responsabilità, dagli impiegati di banca ai vigili urbani per passare agli assistenti in sala operatoria. È il sistema di innocentizzazione universale, utilizzato prima dai nazisti a Norimberga e oggi da chiunque faccia un’attività con ricadute sociali imposte dall’istituzione di cui fa parte. Siamo tutti arruolati in un immenso esercito che ci seduce per il semplice fatto che ci libera del peso di dover prendere decisioni etiche. All’etica ci pensa solo il sistema stesso, è lui il responsabile di tutto.

Ma le cose stanno davvero così?
Io sono davvero liberato dalle ricadute decisionali del sistema di cui ho deciso di far parte?
No, nel modo più assoluto.
Nella misura in cui ho deciso di associarmi ad una determinata struttura, sono responsabile delle sue procedure e decisioni esattamente come colui che mi ordina di fare una certa cosa.
Se la cosa la ritengo lecita non sarò colpevole di nulla (almeno di fronte alla mia coscienza); se quello che mi viene ordinato è contrario a quello che la mia coscienza mi comanda, allora io sono responsabile almeno del fatto che una decisione l’ho presa: quella di andare contro me stesso.
In ogni caso, accettando di far parte di un determinato ordine di cose e delle norme che lo regolano sono, in toto e in solido con gli altri partecipanti a questo ordine, responsabile delle decisioni (le cosiddette regole, in ultima ratio, altro non sono che decisioni abituali) che prende.

Questa principio è ben noto e assolutamente fatto proprio da qualsiasi sistema di diritto penale, riguardo alla partecipazione ad una organizzazione criminale, mentre è totalmente disatteso per chi fa parte di un ospedale, di una scuola, di un ufficio tasse.
Se tutti dicono che il caporale, che a Auschwitz schiacciava il pulsante del gas, è colpevole di omicidio allo stesso modo del comandante del lager e allo stesso modo del Fuher, allora non si capisce perché l’infermiere che passa il ferro durante un aborto non sia colpevole anch’esso, come il chirurgo, di omicidio, e lo sbirro delle imposte che viene a sequestrarti la casa non sia responsabile di furto e di estorsione allo stesso modo del primo ministro e del parlamento.

Lui dice, come dice il caporale tedesco e come dice l’infermiere: nulla ho deciso io, è la legge che mi impone di far questo e sono ordini che devo eseguire nel momento in cui sono entrato a far parte di questa organizzazione, che peraltro mi da mangiare. Ma non è vero. Qui vi è l’atto di autoassolvimento su cui hanno sempre contato i re quando istituirono il loro potere assoluto. Hanno potuto farlo perché sapevano che il lato diabolico dell’anima umana era appunto quello che non consigliava di fare apertamente il male, ma quello, in cambio di un utile concreto e neutrale (uno stipendio, in questo caso), di spogliarsi dell’unica cosa che ci fa uomini: il dovere di giudicare tutto quello che facciamo e decidere se questo è bene o male.

Si dirà: ma agire in modo diverso, ossia considerarsi sempre responsabili delle azioni che si fanno, specie quando si tratta di obbedire a qualcuno o a qualcosa, sbriciolerebbe qualsiasi forma di organizzazione, qualsiasi agire collettivo.
Non può esistere un sistema che non funzioni per la liberazione dalla responsabilità morale dei comandati. Una cosa del genere non è mai esistita, e mai esisterà.
Invece è esistita.

Nel medioevo, la partecipazione di un nobile ad una guerra era un atto di sua esplicita volontà. Il giuramento di fedeltà gli imponeva solo la protezione militare in caso in cui il re fosse stato aggredito, non di dover partecipare ad una aggressione esterna al reame. Durante la battaglia qualunque cavaliere poteva, vedendo come stavano comportandosi i suoi compagni, decidere, senza infamia, di smettere di combatte e dichiarare unilateralmente o la resa o la neutralità. Non era tenuto ad eseguire nessun ordine che non fosse giudicato in linea con il suo codice d’onore.

Ma il concetto che guidava questo modo di operare non era quello, moderno, di avere diritto a una certa discrezionalità del proprio agire, ma il dovere di fare solo quello che tua coscienza ti imponeva di fare, costasse quello che costasse. Insomma, era un’epoca di assoluto individualismo, nella quale si sapeva che essere liberi non significava affatto avere certi diritti, ma imponeva di non disattendere a precisi doveri verso se stessi.

W i cavalieri erranti, W i pellegrini.

 


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