Gian Piero de Bellis

Che Fare ?

(Febbraio 2011)

 


 

Nel 1863 comparve un testo letterario che fece notevole impressione sulla gioventù russa per l’originalità della vicenda e la lucidità delle idee esposte.

Il suo autore si chiamava Nikolai Chernysevsky e il romanzo si intitolava: Che Fare? Un racconto di persone nuove. Quando Lenin scrisse il suo pamphlet politico sul partito e sui compiti che esso doveva svolgere lo intitolò Che Fare? appropriandosi del titolo forse anche nella speranza di godere di parte della popolarità che il testo di Chernysevsky aveva avuto tra persone, soprattutto giovani donne, desiderose di cambiamento.

Che Fare? è una domanda che tutte le persone si pongono quando si trovano in una situazione nuova e, in presenza di opzioni plurime, devono prendere decisioni che si discostano dalla routine quotidiana.

Per una persona innovativa, desiderosa di sperimentare, l’affrontare nuovi problemi e cercare nuove soluzioni è parte integrante della sua vita e questo è estremamente positivo perché permette il progresso in tutti i campi. Molti altri invece rifuggono da nuove sfide e preferiscono seguire sentieri già battuti e adottare decisioni prese da altri. Comunque sia, anche in questo secondo modo di agire non vi è nulla di riprovevole; anzi è necessario che vi siano anche persone che consolidano alcune scelte prese da altri al punto da farle diventare, nel caso esse siano estremamente valide e funzionali, protocolli generali di comportamento che entrano a far parte della generale routine.

Quello che invece non è assolutamente accettabile ed è quindi estremamente riprovevole è quando le persone innovative sono bloccate dallo sperimentare da altri individui o gruppi che, per una serie di motivi (ad es. ignoranza, paura o puri e semplici interessi di parte) si oppongono ai cambiamenti e vogliono imporre a tutti un modo di vivere da taluni ritenuto inaccettabile. A quel punto la domanda Che Fare? diventa un imperativo urgente se non si vuole che la massa dei consuetudinari, interessati al mantenimento dello status quo, non trascini tutti in un immobilismo totale se non addirittura in un degrado continuo.

Nelle società europee e, nello specifico, nel caso della società italiana, sembra proprio che siamo arrivati al punto in cui un numero crescente di persone si pone, apertamente o implicitamente, la domanda Che Fare? per uscire dall’impasse e dal conseguente scontento che li domina. Io sono convinto che nel corso di questo decennio o troviamo risposte pratiche intelligenti a questa domanda o tutti noi saremo condannati ad una decadenza senza fine.

A questo punto è necessario però porre una pre-condizione per far sì che la libertà di sperimentazione voluta dagli uni non si risolva in situazioni di oppressione o di svantaggio per gli altri.

Questo vuol dire che coloro che sono desiderosi di sperimentazione devono proporre soluzioni che consentano ai timorosi, desiderosi di conservazione, di mantenere le loro convinzioni e i loro comportamenti senza che qualcuno si senta vincolato o svantaggiato (per non dire di peggio) dalle scelte effettuate da chicchessia. Per fare un riferimento concreto a fatti correnti (la primavera araba del 2011), ciò significa che in Egitto i sostenitori del presidente Mubarak che vedono qualsiasi cambiamento come un salto nel buio, si tengono il loro presidente, se lo finanziano con i loro soldi e seguono le leggi che lui vorrà promulgare per i suoi seguaci, mentre coloro che non vogliono Mubarak sono liberissimi di ritirare il loro (forzato) appoggio, non sono più tenuti a mantenerlo attraverso le tasse (obbligatorie), e possono darsi altre leggi e altri sistemi di protezione. Il tutto chiaramente in un contesto di mutuo rispetto, di non ingerenza e di civile convivenza che non è difficile da immaginare una volta che le prepotenze siano cessate da tutte le parti.  

A questo punto mi immagino già alcuni storcere la bocca e dichiarare tale proposta una totale assurdità. Un po' come fecero gli oppositori della tolleranza religiosa quando proclamavano del tutto ridicolo e assurdo che un protestante e un cattolico potessero vivere uno accanto all'altro senza doversi imporre le reciproche fedi religiose. La qual cosa invece si è poi pacificamente attuata e, a quel punto, anche i più lenti di comprendonio hanno capito che era proprio dalle persecuzioni e imposizioni religiose che nascevano le guerre di religione e l’odio reciproco. Allo stesso modo forse sarà chiaro a tutti, in un futuro spero abbastanza prossimo, che è dalle persecuzioni e imposizioni politiche che nascono la maggior parte dei conflitti che danno luogo poi a scontri più o meno violenti.

La proposta che qui si avanza è dunque quella di società parallele volontarie, organizzate in maniera autonoma dagli individui in base alle loro libere scelte, nel massimo rispetto reciproco. Questa è una idea che si sta facendo strada da un po' di tempo e che non tarderà, a un certo punto, ad apparire come la classica scoperta dell'acqua calda o dell’uovo di Colombo, tale è la sua semplicità, funzionalità, razionalità. Come ebbe a dire Arthur Schopenhauer, la verità, prima di emergere, passa generalmente attraverso tre fasi: nella prima fase essa è ridicolizzata, poi è violentemente contrastata, e infine è accettata come un dato del tutto naturale.

Probabilmente tale è il destino anche di questa idea che sarà accettata solo dopo che molti saranno passati attraverso esperienze assurde pur di non mettere in discussione i precetti in cui sono cresciuti (la democrazia maggioritaria, lo stato territoriale, l'identità nazionale e via dicendo) e che considerano dogmi indiscutibili da imporre a tutti, che lo vogliano o no. Alla fine anch’essi si renderanno conto che l’alternativa, ridotta nei suoi termini essenziali, è questa:

Società parallele volontarie o guerra (in)civile obbligata.

Per avvicinarci sempre più nei fatti all'attuazione delle società parallele volontarie il mio suggerimento sul Che Fare? si condensa in tre punti che elenco più che trattare:

1. Fuoriuscire culturalmente dallo statismo. Molti, che pure parlano contro lo stato padre padrone, non riescono a immaginare un futuro senza lo stato e continuano a usare parole e espressioni totalmente intrise di statismo e che fanno riferimento esclusivamente a situazioni del passato. Eppure senza una modifica profonda del proprio modo di pensare e del proprio linguaggio non sussiste neanche la possibilità di formulare proposte concrete alternative.

2. Fuoriuscire materialmente dallo statismo. Quando un nuovo paradigma incomincia a emergere nel cervello delle persone, i vecchi vincoli mentali crollano e si ha la forza e la creatività non solo di formulare ma anche di attuare proposte concrete che solo fino a poco tempo prima potevano apparire pazzesche (ad es. dar vita a circuiti di produzione e di consumo che agiscono come clubs e utilizzano mezzi di pagamento alternativi alla moneta a corso forzoso imposta dallo stato).

3. Difendersi concretamente dallo statismo. Già fin d'ora occorrerebbe approntare strumenti di difesa dallo statismo, ad esempio mettendo a disposizione degli altri, gratuitamente e spontaneamente, le proprie conoscenze in materia giuridica, economica, informatica, etc. .

Chiaramente ho solo sfiorato il tema ma ci sarà tempo per approfondirlo spero anche in base agli interventi precisi e mirati di molti altri. L'unica cosa che non dobbiamo assolutamente fare è lasciarci bloccare non solo dalle paure ma anche e soprattutto dalle illusioni e dai feticci del passato, cioè dalle parole magiche e dalle figure mitiche.

Come ha scritto Jacques Prévert:

“Il se plaignait de ne pas avancer. (Si lamentava di non avanzare.)
Pourtant il suivait son idée. (Eppure seguiva la sua idea.)
C’était une idée fixe.” (Era un'idea fissa.)

 

 


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