Gian Piero de Bellis

Dal buon socialista al buon capitalista

(Aprile 2017)

 


 

I cronisti degli avvenimenti passati o presenti (storici, giornalisti) hanno fatto e tuttora fanno spesso uso di modi di presentazione che favoriscono la creazione di miti e di figure leggendarie.
Dietro l’immagine di un qualche presunto eroe o fatto straordinario vi è sempre qualcuno che ha raccontato le gesta e descritto le vicende, infiammando così gli animi e ispirando le menti dei lettori.

In un passato non troppo lontano, la creazione di miti ed eroi è stata opera soprattutto della propaganda nazionalista, spesso in associazione e, talvolta, in concorrenza con la propaganda socialista.
I movimenti verso l’indipendenza nazionale attiravano infatti la simpatia di molte persone sulla base di racconti di azioni presentate come ispirate dalla difesa di popolazioni oppresse dallo straniero. Il fascino esercitato da Lord Byron nella lotta per l’indipendenza dei greci dall’impero ottomano ne è un caso esemplare.
Lo stesso moto di simpatia hanno suscitato le lotte per l’emancipazione di quelli che venivano rappresentati come gli sfruttati (operai, contadini).

In Italia, Edmondo de Amicis ha incarnato il patriottismo colorato da tinte di socialismo, attraverso la sua appassionata raffigurazione della giovane nazione italica e la sua struggente difesa degli umili. In Emilia, una schiera di agitatori e propagandisti socialisti (Camillo Prampolini, Antonio Vergnanini, Andrea Costa, Nullo Baldini e Giuseppe Massarenti) furono chiamati gli « apostoli del socialismo » a caratterizzare la missione etica e sociale da essi portata avanti.

Nel corso dell’ottocento e dei primi decenni del novecento si è quindi formato e sviluppato il mito del buon socialista. Alla nascita di questa mitologia contribuiranno anche morti violente e persecuzioni. Nel secondo dopoguerra la foto di Giacomo Matteotti campeggiava in molti circoli socialisti a ricordare la sua brutale uccisione da parte di una banda di fascisti. E nelle sezioni del partito comunista c’era la foto di Antonio Gramsci, incarcerato per anni dal regime fascista. Memorabili le parole del pubblico ministero Isgrò a conclusione della sua requisitoria: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare.»

In Europa il mito di Lenin e della Rivoluzione Russa sono sorti ad opera di giornalisti avventurosi, come John Reed, e di una propaganda estremamente efficace. Il socialista è rappresentato come colui che è votato al bene comune. Essere socialista significa, in sostanza essere persona buona, retta, onesta. Con Stalin poi, il " padre della patria", l’esaltazione della sua bontà, onestà, magnanimità e lungimiranza raggiunge vette inarrivabili e la sua morte è vista come « una grave irreparabile sciagura » per tutti. (Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, 1953).

Gli anni ’60 e ’70 del secolo XX sono stati quelli della decolonizzazione e delle lotte di liberazione nel cosiddetto Terzo Mondo. In quel periodo il mito del buon socialista si è sviluppato su grande scala.
Sono sorte nuove figure eroiche del socialismo, la cui tragica morte ne ha esaltato ancora più il fascino. Abbiamo avuto Camillo Torres, prete, socialista, guerrigliero morto in combattimento (febbraio 1966) per mano dell’esercito colombiano. E abbiamo avuto soprattutto Ernesto "Che" Guevara la cui uccisione (ottobre 1967) dopo la cattura da parte dell’esercito boliviano ha dato vita alla creazione di una figura leggendaria, una icona presente sui muri di molte università e sulle magliette di molti giovani; addirittura venerata da parte di alcuni campesinos boliviani come « Santo Ernesto ».

Il mito del guerrigliero socialista ha raggiunto in quegli anni tali proporzioni che un intellettuale venezuelano, Carlos Rangel, diede alle stampe nel 1976 un libro divenuto celebre: Del buen salvaje al buen revolucionario (Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario, Comunità, 1980)

In quel testo Rangel rimproverava agli intellettuali questa voglia di creare miti e figure tragiche come sfogo (del tutto illusorio) alla propria incapacità di uscire da una condizione di sottosviluppo e come pretesto per addossare ad altri le colpe della propria condizione. Perché, contrapposto al buon rivoluzionario (socialista) c’era il cattivo reazionario (capitalista) responsabile di tutti i mali e di tutte le disgrazie del popolo, anche dell'uccisione dell’eroe buono.

Facendo riferimento ad altri contesti, altri miti sono stati poi creati da altri intellettuali. Ad esempio mano a mano che appariva sempre più evidente la totale burocratizzazione della società sovietica e faceva sempre meno presa il fascino della rivoluzione russa, si creava il mito di ricambio intorno alla figura di Mao e alle vicende, piuttosto romanzate, della sua Rivoluzione Culturale.

La necessità di un ricambio totale dei miti, di fronte alla sempre più evidente loro inadeguatezza, è apparsa verso la fine degli anni sessanta, a seguito, tra le altre cose, dell’intervento delle truppe del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia (Agosto 1968), della morte dello studente Jan Palach che, per protesta contro l’invasione, si è dato fuoco nella piazza San Venceslao di Praga (Gennaio 1969) e delle fughe di cittadini da Berlino Est, oltre il muro.

L’insieme di miti e di illusioni creati da intellettuali e giornalisti e che aveva dato vita all’immagine del buon socialista collassa definitivamente verso la fine degli anni ottanta con il crollo del muro di Berlino (Novembre 1989), la fine dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa Orientale (1990), la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991). Negli anni successivi, anche le mitiche figure dei decenni precedenti (Mao, il Che) subiranno revisioni critiche e totali ridimensionamenti dopo la repressione sanguinosa da parte del Partito Comunista Cinese dei manifestanti nella Piazza Tiananmen (1989) e la fuga di molti cubani dal "paradiso" castrista (1980, 1994).

La fine del mito del buon socialista non sembra però rappresentare, per molti, la fine della necessità di crearsi e di credere in miti.
Paradossalmente, ma neanche poi tanto, a partire dagli anni ’80 inizia a formarsi, nel cervello di molti e attraverso gli scritti di taluni intellettuali, un mito alternativo ed opposto al precedente: il mito del buon capitalista.

Nel 1982 Carlos Rangel ha dato alle stampe un nuovo saggio: El tercermundismo.
In esso, come reazione spontanea e del tutto giustificabile, si mettono in luce tutte le virtù di una economia capitalistica basata sulla libera iniziativa, contro i soffocamenti del fascismo e del socialismo, e cioè, in una parola, dello statismo.

Molti anni prima, una scrittrice, Ayn Rand, si era fatta paladina dell’ideale di libertà che essa identificava nel capitalismo e aveva scritto saggi e romanzi in cui questo ideale appariva nella forma più chiara ed attraente, incarnato da figure nobili e affascinanti (Kira Argounova, Howard Roark, Hank Rearden, John Galt).

La figura di Hank Rearden, in particolare, esprimeva e condensava le virtù del cosiddetto capitalismo industriale come macchina altamente produttiva, indirizzata al benessere (materiale) delle persone. La qual cosa è sostanzialmente vera, ma rappresenta solo una parte della verità. Infatti, quello che sembra mancare nel pensiero di Ayn Rand è la consapevolezza che grandi progetti e imprese sono realizzabili solo attraverso il contributo di moltissime persone (inventori, tecnici, lavoratori, organizzatori, ecc.) che hanno preparato il terreno (in passato), agiscono e producono (nel presente) e facilitano la strada per ulteriori sviluppi (nel futuro). Invece, negli scritti di Ayn Rand, si raffigura soprattutto, se non solo, l’eroe che domina la realtà, la modella a sua immagine e così facendo spinge le masse verso il benessere materiale. Per molti aspetti egli assomiglia al dirigente politico (il buon leader socialista) che guida l'umanità alla liberazione dallo sfruttamento.

Non per nulla, quando figure forti e affascinanti come Maggie Thatcher (la lady di ferro) e Ronnie Reagan (il grande comunicatore) sono arrivate sulla scena, i nuovi e vecchi adepti del capitalismo li hanno salutati come liberatori. Nelle parole di alcuni dei loro sostenitori si coglie, tuttora, una velata tendenza alla venerazione e uno struggente rimpianto per la loro scomparsa. Eppure, come per i « buoni » socialisti, notevoli sono state le manchevolezze e le pecche di questi « buoni » capitalisti.

Anche il rilancio del pensiero di alcuni esponenti del liberalismo classico e sostenitori del capitalismo di libera concorrenza, come Ludwig von Mises e Friedrick Hayek, sembra avvenire in maniera tale che la totalità del loro pensiero è accettata supinamente senza che critiche e riflessioni lo sviluppino e lo facciano avanzare. Sembra quasi ripetersi quanto avvenuto per il marxismo, e cioè che il pensiero del maestro sia imbalsamato per fini che hanno soprattutto a che fare con interessi di conservazione economica e di dominio culturale.

Avviene poi che i produttori del mito del buon capitalista cadano ripetutamente nell’errore rimproverato da von Mises ai sostenitori del socialismo, e cioè la fallacia dell’ipostatizzazione, vale a dire l'attribuire sostanza o esistenza reale a costrutti o concetti mentali. Come i sostenitori del socialismo affermavano in passato: il socialismo farà questo, il socialismo farà quello, così i fautori del capitalismo ripetono come una litania: il capitalismo ha fatto questo, il capitalismo ha fatto quello. Come se produzione e scambi non fossero mai esistiti prima dell’avvento del capitalismo e dovessero scomparire quando del capitalismo non sentiremo più parlare. Cosa del tutto inverosimile perché progetti e realizzazioni sono componenti costanti delle vicende umane e non il portato esclusivo dell’età del capitalismo.

In sostanza, gli inventori e propagatori dei miti del buon socialista e del buon capitalista vogliono entrambi farci credere che senza le gesta prodigiose e le ricette miracolose degli appartenenti alla loro ideologia nulla è stato fatto e nulla sarà mai fatto.
A tutti costoro va allora detto molto chiaramente che:

1. non esistono esseri buoni a priori o esseri buoni fatti in serie come risultato dell’attribuzione o auto-attribuzione di una etichetta (socialista, capitalista);

2. socialismo e capitalismo sono essi stessi, per lo più, dei miti e delle formula magiche;

3. il motore della realtà sono o dovrebbero essere le persone in carne ed ossa, portatrici di energie (morali, ideali, materiali) e non i miti e le ideologie, soprattutto quando questi sono visti come qualcosa di indispensabile, da far accettare, prima o poi, con le buone o con le cattive, a tutti, per il loro bene, come si fa con i bambini ignoranti e capricciosi.

Ognuno dovrebbe invece cercare e sperimentare per sé, nella propria vita, il bene in tutte le sue forme e espressioni, senza imporlo ad altri in quanto padrone "buono" o sostenitore di un padrone "buono". Perché il bene più grande è appunto la libertà dalle imposizioni.
Nelle parole di John Stuart Mill: « La sola libertà che merita tale nome è il perseguire il proprio bene a modo proprio. » (On Liberty, 1859)

 


 

Suggerimenti di lettura

Sul socialismo

(1969) Roger Garaudy, La grande svolta del socialismo, Feltrinelli, Milano, 1970

(1970) Roger Garaudy, Tutta la verità, Mondadori, Milano

(1975) André Glucksmann, La cuisinière et le mangeur d’hommes, Seuil, Paris

(1976) Carlos Rangel, Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario, Comunità, Milano, 1980

(1977) Bernard-Henry Levy, La barbarie à visage humain, Bernard Grasset, Paris

(1982) Carlos Rangel, El tercermundismo, Monte Avila Editores, Caracas

Sul capitalismo

(1936) Ayn Rand, We the living

(1943) Ayn Rand, The fountainhead

(1957) Ayn Rand, Atlas shrugged

(1961) Ayn Rand The virtue of selfishness

(1963) Ludwig von Mises, Human Action

(1967) Ayn Rand, Capitalism: the unknown ideal

 


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