Arthur L. Kelly

I costumi fiscali dello stato italiano : un caso esemplare

(1977)

 



Nota

Questa è la traduzione di un articolo comparso su una antologia americana che tratta di etica nel campo degli affari (ethics in business). Il testo scritto nel 1977 da un certo Arthur L. Kelly, membro del consiglio di amministrazione di varie società in America e in Europa, fa riferimento ad un caso vero, anche se, a una prima lettura, si può rimanere esterrefatti, come se il fatto potesse ascriversi solo ad una società fittizia in cui i malati di mente hanno preso il controllo del manicomio. Ma, questa era l'italia alcuni decenni fa e la situazione è, incredibile a dirsi, peggiorata di molto quanto ad assurdità e immoralità statali.

 


 

La premessa (il costume)

Il sistema fiscale dello stato italiano agisce nei confronti delle imprese commerciali con una struttura ufficiale legale e scaglioni di imposta, proprio come negli Stati Uniti. Ma qualsiasi somiglianza si arresta lì.

Le autorità fiscali italiane danno per scontato, fin dall’inizio, che nessuna azienda italiana dichiarerà mai tutti i suoi profitti ma fornirà piuttosto una dichiarazione che sottostima il livello dei profitti in una percentuale tra il 30 e il 70 %; la loro supposizione è essenzialmente corretta. Perciò, circa sei mesi dopo la scadenza annuale per compilare la dichiarazione dei redditi d’impresa, le autorità fiscali invitano i responsabili dell’azienda a una “discussione” riguardo alla dichiarazione presentata. Lo scopo di questo invito è di organizzare un incontro diretto tra gli agenti del fisco e i rappresentanti dell’azienda. A questo incontro, il fisco italiano comunica l’ammontare di tasse che ritiene che l’impresa debba versare. La sua stima è ricavata dall’ammontare di tasse pagate in precedenza e da quanto l'autorità fiscale stima debba essere pagato per l’anno in corso; l’ammontare che il fisco pretende che sia pagato è di solito di gran lunga superiore a quello che l’impresa dichiara di dover pagare per quell’anno. In breve, la dichiarazione dei redditi d’impresa e quanto il fisco ritiene debba essere a lui corrisposto dall’azienda costituiscono le mosse iniziali di un negoziato che avrà una serie di proposte e di controproposte prima di arrivare ad una intesa.

L’azienda italiana è rappresentata in questi negoziati da una figura tipica, quella del commercialista, un ruolo che esiste nella società italiana con la funzione primaria di negoziare i pagamenti (per una impresa o per un individuo) al fisco; quindi, coloro che gestiscono una impresa italiana, raramente, se non mai, hanno a che fare con le autorità fiscali e probabilmente non hanno che una minima conoscenza dei dettagli relativi al negoziato se non per quanto riguarda il suo esito finale.

Sia il risultato finale che il negoziato sono estremamente importanti per l’azienda, per le autorità fiscali e per il commercialista. Dal momento che le autorità partono dalla premessa che l’azienda ha sempre fatto, nell’anno in corso, un profitto superiore all’anno precedente, e non ha mai subito una perdita, l’ammontare dell’accordo finale, vale a dire quante tasse l’impresa dovrà realmente pagare, diventa, per tutti gli scopi pratici, la base su cui intavolare i negoziati per l’anno a venire. L’accordo finale rappresenta anche l’ammontare di denaro che lo stato italiano otterrà come tasse per finanziare il suo funzionamento. Ad ogni modo, dal momento che grandi somme di denaro sono coinvolte nel negoziato ed esso è condotto da individui che hanno interessi loro propri, l’ammontare della bustarella – cioè la somma sostanziale di denaro “richiesta” dall’ufficiale del fisco al commercialista – determina di solito se l’accordo finale è più prossimo alla dichiarazione originaria dell’azienda o alla stima originaria dell’autorità fiscale.

Qualunque sia la cifra della bustarella pagata durante il negoziato, essa è inclusa nel compenso del commercialista sotto la voce “servizi resi” al cliente. Se l’accordo finale è favorevole all’impresa, ed è compito del commercialista che ciò avvenga, allora l’impresa non si preoccupa più di tanto per l’onorario da pagare, né saprà mai quanto è l’ammontare della bustarella e quanto va effettivamente al commercialista per i suoi servizi. In ogni caso, le autorità fiscali riconosceranno come deducibile l’intero ammontare della somma pagata dall’impresa come compenso per il commercialista, cifra deducibile dalla dichiarazione dei redditi d’impresa per l’anno successivo.

 

L'episodio (il malcostume)

Circa dieci anni fa (anni ’60) una banca americana di primaria importanza aprì una sua sede in una delle più importanti città italiane. Alla fine del suo primo anno di esercizio, la banca ricevette dai suoi legali ed esperti fiscali, al servizio anche di succursali italiane di compagnie multinazionali americane, il consiglio di formulare la propria dichiarazione dei redditi “all’italiana” cioè secondo i costumi del posto, vale a dire, di dichiarare un ammontare di profitti molto più basso. Il direttore generale della banca che era alla sua prima missione all’estero, rifiutò categoricamente di fare ciò sia perché lo considerava un atto disonesto e sia perché contrario alle pratiche correnti nella casa madre negli Stati Uniti.

Sei mesi dopo aver riempito la dichiarazione dei redditi “all’americana”, cioè dichiarando fedelmente tutto il profitto, la banca ricevette dalle autorità fiscali italiane un “invito a discutere” la dichiarazione. Il direttore generale della banca si consultò con i suoi esperti legali e fiscali, i quali gli raccomandarono di rivolgersi ad un commercialista italiano. Il direttore respinse il consiglio e invece scrisse una lettera all’ufficio italiano delle tasse in cui non solo ribadiva che la sua dichiarazione dei redditi era del tutto fedele alla realtà ma chiedeva che lo informassero riguardo a specifiche voci su cui essi avevano delle riserve e lui avrebbe risposto chiarendo ogni dubbio. La sua lettera non ricevette mai risposta.

Circa sessanta giorni dopo aver ricevuto l’iniziale “invito a discutere”, la banca ricevette una richiesta di pagamento delle tasse all’incirca tre volte quanto dichiarato nella propria dichiarazione dei redditi. Le autorità fiscali italiane avevano semplicemente assunto come dato di fatto che la banca aveva seguito il costume locale con una dichiarazione di molto inferiore agli effettivi profitti, e si erano comportate di conseguenza. Il direttore generale della banca si consultò nuovamente con i suoi esperti legali e fiscali i quali gli suggerirono ancora una volta di incaricare un commercialista in grado di risolvere il caso.

Avendo appreso che il commercialista avrebbe dovuto, con tutta probabilità, pagare una bustarella alla sua controparte all’ufficio delle tasse al fine di raggiungere un accordo, il direttore generale ancora una volta decise di ignorare il consiglio dei suoi esperti. E invece rispose alle autorità fiscali italiane inviando un assegno per l’ammontare pieno delle tasse dovute secondo la dichiarazione fatta “all’americana”, effettuando il pagamento con sei mesi di anticipo rispetto alla data fissata dalle autorità per il saldo finale. Al tempo stesso egli non fece riferimento alcuno all’ammontare richiesto come pagamento nella notifica pervenutagli inizialmente dall’ufficio delle tasse.

 

L’epilogo (la farsa)

Novanta giorni dopo il pagamento delle tasse, la banca ricevette un terzo avviso da parte delle autorità fiscali. Esso conteneva la seguente informativa: “Abbiamo riesaminato la vostra dichiarazione dei redditi per l’anno 19.. e abbiamo determinato che la somma di Lire … pagata come interessi sui depositi non è deducibile a fini fiscali. Ne consegue che l’ammontare di tasse dovute per l’anno 19.. è di Lire … . Dal momento che gli interessi pagati sui depositi rappresentano la parte più consistente degli oneri di una banca, la nuova valutazione di quanto doveva essere versato al fisco rappresentava una cifra enormemente più grande di quella inizialmente richiesta e quindici volte la somma dovuta dalla banca sulla base dei suoi effettivi profitti.

Il direttore generale della banca era del tutto sconvolto. Immediatamente cercò di organizzare un incontro personale con il direttore del locale ufficio delle imposte. Quasi subito, fin dall’inizio dell’incontro, il tenore del discorso fu il seguente:
Direttore della banca: “Non potete certamente pensare che gli interessi sui depositi pagati dalla banca non siano un onere deducibile.”
Il responsabile dell’Ufficio Tasse: “Forse lei ha ragione. Ma, ad ogni modo, abbiamo ritenuto necessario richiamare la sua attenzione in modo da sollecitarla ad un negoziato diretto.”

 

Per i lettori interessati a conoscere quello che è accaduto successivamente, va detto che la banca fu obbligata a pagare la somma originariamente stimata e richiesta dall’Ufficio delle Tasse. Il direttore generale della banca fu richiamato negli Stati Uniti e rimpiazzato da un’altra persona.

 

 


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