Fabio Cusin

Il nuovo stato unitario: burocratico e centralizzatore

(1943-1944)

 



Nota

Nell'analisi del Cusin emergono chiaramente i caratteri originari del nuovo stato italiano : centralismo e clientelismo. Fin dal suo sorgere, lo stato italiano diventa terreno di conquista per i nuovi arrivisti. Reazionari o rivoluzionari (a parole), l'obiettivo è sempre lo stesso: sotto il mantello del cosiddetto interesse pubblico, proteggere e soddisfare i più gretti e immediati interessi di cricca.

 


 

La rivoluzione del 1860 creò le basi per un Piemonte e quindi per un'Italia che si riattaccava alla situazione dell'era napoleonica. Come allora vecchi privilegi di casta e camorre municipalistiche furono sbloccati; come allora furono attaccati cattedratici di maniera, codini, o posizioni mentali secolarmente incancrenite. Fioriva di nuovo l'albero della libertà della borghesia giacobina e la minoranza dinamica del Terzo Stato italiano di Lombardia come nel Regno di Napoli vi cantava intorno la Carmagnola, con discorsi demagogici, corteggiando i potenti dell'ora e cercando di soppiantare quanti avevano avuto sino allora il comando. Specialmente l'Italia meridionale si distinse per scarso senso sociale, mentre la decisione del Terzo Stato possidente dell'Italia centrale e la forza militare seppero tener a freno le eterne fazioni di parte nei paesi papalini. Il piemontesismo militarista tradizionale collaborò sin da allora con l'elemento medio intelligente e attivo, ma privo di tradizioni appunto perché rivoluzionario, mentre il Parlamento si popolava, come notava già il Cavour, di esponenti di un ceto dirigente senza opinioni proprie, conservatore in fondo al cuore, ma radicale per paura.

Quando si dice che l'unità italiana fu voluta da una minoranza, non bisogna pensare alla minoranza degli intellettuali, dei teorici, dei martiri, dei combattenti. Bisogna pensare invece alla minoranza che fece la rivoluzione politica dopo avvenuta l'unità e puntando sulla forza che quella unità aveva imposto. In primo luogo la monarchia piemontese, legata alla tradizione storica dello Stato assoluto ansioso di accrescere il suo prestigio, di battere in breccia e limitare ovunque reminiscenze e privilegi feudali, di potenziarsi all'interno per sognare grandi fortune all'estero. L'animus espansionistico era proprio a tutte le dinastie sopravvissute al Medioevo e che, dalla lotta contro la feudalità, avevano acquistato la forza militare e la tradizione di fedeltà di quella formando una nuova entità, aristocrazia-monarchia, costituita da due elementi contrapposti eppure inscindibili fra loro. Dalla lotta contro i privilegi del clero la monarchia aveva altresì ereditato il principio del dominio per diritto divino. Questa monarchia accettò tra il 1849 e 1859 l'alleanza con i vari fermenti rivoluzionari di cui doveva pur acquistare inconfessabili istinti. Non potendo più prendere a pretesto la difesa dei diritti dei troni e degli altari accettò la formula, nel contempo più modesta e più esclusivista, che le consentiva uno Stato unitario e centralista contro tutte le più vecchie tradizioni locali, ma riattaccantesi invece alle tradizioni regaliste napoletane e toscane.

Quindi, rivoluzione unitaria centralistica e statolatrica che ricordava stranamente i fasti giacobini e che giacobina divenne via via progressivamente col tempo quando la ventata di libertà, che, pur bisognava sfogare, si fu calmata nella demagogia da un lato, nelle presuntuose e pur umane ostentazioni dell'intellettualismo soddisfatto ... ed in cerca di nuovi problemi dall'altro. La libertà ed il suffragio aprirono le porte del potere e della ricchezza alla marea degli uomini mediocri poco colti, ma pronti a trar partito da tutte le occasioni favorevoli per migliorare le proprie condizioni. L'idea della sovranità popolare, espressa a mezzo dei plebisciti e dei ludi elettorali, sbocca all'idea del governo che impersona una volontà e un'autorità assoluta. Non fu contraddittoria, ma assai coerente la formula: «Per grazia di Dio e per volontà della nazione», in cui si fondevano i residui del diritto divino ancien régime, con i  residui moderni e giacobini che avevano inventato il mito del «popolo sovrano». Ma non basta: il fenomeno neogiacobino, in fondo di carattere europeo e che trionfava sotto altre vesti a Parigi come a Vienna e a Berlino, assumeva nella penisola un rispetto speciale: lo Stato unitario italiano era stato voluto da una esigua minoranza attiva circondata e premuta da una maggioranza restia ma pur disposta ad adattarsi. Parte di questa minoranza (che si può in parte individuare nella Destra storica) intendeva forse completare l'opera col proporre un piano progressivo dl decentramento e di autonomie che consentisse di continuare sulla via di un incivilimento a cui il paese era riluttante, ma d'altra parte, inquinata anch'essa di bonapartismo reazionario, accennava alla convenienza di un socialismo di Stato a cui la borghesia nazionale, erede di una feudale tradizione esclusivista, non poteva piegarsi. L'individualismo italiano fece sì che il giacobinismo nazionale affermasse la libertà ai potenti e negasse ai deboli il diritto di coalizzarsi tra loro. Anche la Convenzione nazionale aveva fatto la stessa cosa!

L'intervento piemontese nella penisola aveva rotto vecchie clientele, spezzato talune catene di interessi, penetrando in settori semifeudali; uomini ambiziosi, abili, pieghevoli cercarono di trar profitto dalla situazione. In taluni settori, almeno per qualche decennio, fu concessa maggior libertà di iniziativa; la ricchezza comune aumentò; la proprietà poté alquanto frazionarsi e con essa si frazionarono le clientele consentendo gruppi contrapposti di interessi che crearono le basi locali al giuoco dei partiti politici. Questi concreti interessi verranno così sostituendosi alle vecchie ideologie teoriche e in breve federalisti, mazziniani e tradizionalisti scompaiano praticamente dal giuoco politico. Lo Stato sorto dalla rivoluzione era una monarchia con intimi desideri di potere assoluto, ma che invece di appoggiarsi alle forze storiche era costretta a travolgerle in quanto le erano ostili e doveva invece lasciarsi circuire da elementi più dinamici e rivoluzionari nel senso che erano pronti a trar profitto individuale dalle nuove contingenze.

La rivoluzione intima italiana comincia, si può dire, con la proclamazione del Regno, che ha per effetto di eliminare campanilismi e regionalismi, non forze vive, ma forze umanamente rispettabili cui non si è in grado di sostituire che un nucleo di arrivisti che costituiranno la borghesia della Terza Italia. Il nuovo Stato italiano, non potendo appoggiarsi sulle classi conservatrici, clero e patriziato, per la maggioranza avversi, doveva sostenersi a mezzo dl abili maneggi di governo e di combinazioni elettorali. Si trattava di un governo senza tradizione, frutto della rivoluzione di una minoranza che si era ammantata di ideali come quelli proposti dal Mazzini, in ogni caso inattuabili, ma certo diametralmente opposti alla mentalità del paese. Scomparsi i motivi teorici propri ad un vero partito di sinistra, rimase una massa amorfa, priva di ideali, facilmente dominata dagli arrivisti e dagli improvvisatori. Venne conservata la tradizione di una Destra, di nome costituita da liberali, di fatto da conservatori, che nei momenti critici si scinderanno in statolatri legittimisti ad ogni costo e in uomini disposti a tollerare un modesto progressismo che esprimeranno infine le aspirazioni di ceti medi più attivi e non ignari delle difficoltà di superare le lotte quotidiane dell'esistenza con un minimo di dignità personale. La Sinistra storica, che già durante il Risorgimento aveva avuto nelle sue file troppi faciloni avventurieri, rimase demagogica e parolaia; entrata nelle combinazioni elettorali finì col confondersi con la tutela di certi interessi di classe (come già a suo tempo talune « vendite » carbonare), e non a caso in una terra in cui è così facile la confusione tra ideologie pubbliche e tutele di interessi privati.

L'idea autoritaria del potere, facilmente accolta in quella specie di prefettura francese che era il Piemonte, prevalse facilmente in una società legata a principi autoritari, e la borghesia ed i ceti padronali trovarono nel nuovo Stato italiano un difensore ancora più solerte delle loro private fortune, pronto ad allargare le braccia a proteggere tutti coloro che, a furia di gomitate d'astuzie e di violenze, potessero risalire tra i ranghi privilegiati. «L'istinto naturale della borghesia italiana - scriveva allora Antonio Labriola - è giacobino: essa è istintivamente rivoluzionaria perché ha contro di sé, contro lo Stato che è il suo luogo geometrico, il Papato con quel suo non indifferente bagaglio di cose che solo i teorici dell'utopismo liberale proclamano trapassato per sempre». Quindi era instabile e inquieta ed incerta e non poteva consentire l'esistenza di un vero e proprio partito conservatore.

La « rivoluzione » giacobina italiana fu conclusa definitivamente con la caduta della Destra, il 18 marzo 1876.

 

(da Fabio Cusin, Antistoria d'Italia, 1943-1944)

 

 


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